testo integrale con note e bibliografia
1. Quando si discute di “salari poveri” si toccano in realtà due diverse tematiche, non necessariamente coincidenti, ossia il problema del rapporto salariale fra le parti del contratto di lavoro e insieme la diffusione della povertà (lavorativa e non), fenomeno endemico che rappresenta una delle più grandi ed irrisolte questioni del nostro tempo. Entrambe evocano, sul piano valoriale, gli ideali di uguaglianza e giustizia sociale, ma anche la libertà da, ed il discorso inevitabilmente slitta su un piano meta-giuridico, in cui il diritto positivo ha poco da dire, mentre molto avrebbe da dire la critica politica e sociologica. La povertà di chi lavora non è del resto una novità, naturalmente, ed anzi, come sostiene Polanyi, potrebbe ritenersi connaturata allo sviluppo capitalistico (Polanyi 1974). Ciò che invece appare anomalo e sorprendente è che, dopo la lunga, quasi ininterrotta crescita economica iniziata alla fine della seconda guerra mondiale, la povertà si sia infiltrata tanto diffusamente nel grande magma del lavoro dipendente, anche nei settori caratterizzati dall’insediamento di una classe subordinata protetta e sindacalizzata. E’ forse persino superfluo citare dati, statistiche e numeri, tanto diffuso è il senso comune dell’estensione della “povertà lavorativa”: che si possa diventare poveri nonostante il lavoro lo si percepisce oggi come un dato di realtà, come un aspetto insito nella società contemporanea.
Prendiamo solo i dati più recenti. Secondo l’Ufficio studi di Unicredit, tra il 2019 e il 2023, le retribuzioni reali dei dipendenti italiani (tenendo conto dell’inflazione) sono crollate dell’8%: quasi il triplo rispetto al dato medio (– 3%) della zona euro. Il periodo preso in esame non è casuale: si tratta degli anni in cui è esplosa la pandemia ed è iniziata la guerra in Ucraina.
L’Italia mostra anche in questo caso di essere “anello debole” dell’economia europea, con un trend negativo oramai da anni. Il nostro paese, secondo l’Istat, ha il triste primato di occupati in condizioni di vulnerabilità economica ed allargando il periodo in osservazione, dal 2008 al 2022, registra una decrescita salariale ancora più significativa (-12%), a fronte di un aumento dei salari in paesi vicini come Germania (+12%) e Francia (+6%) (fonte: ILO). “Il reddito da lavoro ha visto affievolirsi la sua capacità di proteggere individui e famiglie dal disagio economico”, sottolinea l’Istat, spiegando che tra il 2014 e il 2023 l’incidenza della povertà assoluta individuale tra gli occupati ha avuto un incremento di 2,7 punti percentuali, passando dal 4,9% nel 2014 al 7,6% nel 2023. Per gli operai l’incremento è stato più pesante, passando da poco meno del 9% nel 2014 al 14,6% nel 2023, mentre ha interessato il 5,1% dei lavoratori autonomi. Anche il recupero dell’inflazione è stato solo parziale: è sempre l’Istat a dire che nel periodo 2021-2023 i prezzi al consumo sono complessivamente aumentati del 17,3%, mentre le retribuzioni contrattuali sono cresciute del 4,7% (fonte: Istat rapporto annuale 2024, capitolo II).
La relazione INPS sui salari, a sua volta, segnala che dopo questa lunga fase di crisi dei salari la quota dei lavoratori che riceve un salario al di sotto dei 9 euro/ora è oramai pari quasi al 30% degli occupati. Se poi disaggreghiamo questi dati le evidenze sono ancora più drammatiche. Si stima che questa enorme fascia di lavoratori poveri sia composta per il 59,5% da apprendisti, per il 32,6% da under 35 e per il 23% da donne (dati citati da Staglianò, 2024). Dagli studi condotti sui differenziali di retribuzione risulta, inoltre, che i giovani under 35 ricevono una retribuzione molto inferiore a quella dei lavoratori over 55: una forbice che aumenta nel tempo, fino ad arrivare ad una differenza registrata nel 2019 del 40% (dati pubblicati nel recente volume di Staglianò 2024, che cita lo studio di Bianchi e Paradiso, 2022). Fra le lavoratrici donne, il cui tasso di occupazione è fra i più bassi nelle economie avanzate con un tasso di occupazione pari al 51% (dati Istat), si riscontra ancora oggi, come attestato dall’Osservatorio INPS del 2023 sul settore privato, un differenziale retributivo altissimo (con un gender gap pari al 43%, fra i più elevati in Europa). Per non parlare dei lavoratori migranti, molto spesso sottopagati e privi di tutele, nei confronti dei quali viene rilevato un divario salariale a parità di mansioni e qualifica di circa il 30% (fonte: Ministero del Lavoro, Rapporto 2024 sugli stranieri nel mercato del lavoro in Italia).
I salari poveri si inseriscono dunque in un contesto di disuguaglianze sempre più marcate fra gruppi sociali, fra territori, fra settori produttivi, con forte polarizzazione all’interno della stessa classe lavoratrice in base al luogo di lavoro, al settore o al contratto di lavoro, per non parlare delle discriminazioni di genere o per condizione di cittadinanza, fra nativi e migranti, fra giovani e anziani: una frammentazione che produce regressione salariale e condizioni discriminatorie, senza che tale situazione abbia sollecitato concrete misure di contrasto da parte dell’ordinamento statale (sia permesso rinviare a Fontana 2019).
Nel suo recente pamphlet Staglianò ricorda che alla diminuzione dei salari fa riscontro un formidabile aumento dei profitti (Staglianò, 2024 p. 65; Eeckhout, 2021) ed in un interessante “Rapporto sulla ricchezza”, che ha il merito di disvelare anche l’ideologia della classe più benestante, si segnala come il 10% delle famiglie più ricche possiede oggi circa il 45% della ricchezza totale e riceve circa il 27% del reddito prodotto, mentre il 50% delle famiglie più povere possiede appena il 10% della ricchezza totale (Mancon, 2021).
Il quadro di riferimento è dunque molto chiaro, ma anziché registrare un movimento reattivo ed oppositivo, diversi e convergenti fattori sembrano tuttora paralizzare e rallentare la dinamica salariale. Il fenomeno ha radici profonde, difficili da sintetizzare in un breve commento, e lo stesso si può dire per la mancanza di risposte dello stato e delle forze sociali. Per ognuna di esse occorrerebbe una discussione specifica e un’attenta selezione delle fonti di riferimento: certamente la crisi salariale è la spia dell’attuale crisi del sindacato e della contrattazione collettiva e insieme del fallimento dell’attuale meccanismo di salvaguardia del potere d’acquisto delle retribuzioni contrattuali, ma non meno rilevanti sono i fattori esterni di natura congiunturale ed il declino dell’economia italiana. Infine - last but not least - anche il problema salariale può essere collegato al cosiddetto fattore T.I.N.A. – there is not alternative - che ha condizionato le politiche del lavoro e le riforme legislative, contribuendo a formare la stessa cultura dominante, nella dottrina come nella giurisprudenza del lavoro. Non si comprenderebbe altrimenti l‘inerzia nel tempo dei governi di diverso “colore” politico, che hanno fatto poco o nulla per invertire la rotta, rifiutando, in epoca recente, nonostante la direttiva
europea, persino di introdurre il salario minimo legale.
Ma il problema dei salari poveri non è solo economico. Nella società consumeristica si realizza un diverso tipo di identificazione e rappresentazione degli individui, già messo in luce da Georg Simmel, che parlava di Vergesellschaftung, in cui, con la mercificazione di ogni aspetto della vita sociale, vengono superate le modalità tradizionali di integrazione sociale. La capacità di acquisto, di possesso di beni che sono altrettanti status symbol diventa, piaccia o no, momento determinante dell’identità e degli stessi legami sociali. Inibire la possibilità di accedere a livelli “normali” di consumo e di acquisto vuol dire minare le relazioni sociali ed interpersonali: come scrive Enrica Morlicchio, “la povertà non può essere considerata semplicemente una forma estrema di disuguaglianza economica, determinata da uno scarto di reddito: essa si configura come un’esperienza qualitativamente diversa” (Morlicchio, 2020 p. 13). Inoltre, come hanno colto precocemente studiosi come Monsen e Downs, la ricollocazione nel privato di servizi e prodotti un tempo prerogativa della sfera pubblica, garantiti a tutti senza distinzione di reddito e condizione sociale, se da un lato crea una disparità fra povertà pubblica e ricchezza privata, dall’altro realizza un ulteriore effetto discriminatorio nei confronti delle classi subalterne, che devono auto-sostenere anche la spesa sociale ed in settori come la sanità. In definitiva, per queste ed altre ragioni, la povertà lavorativa non significa soltanto meno reddito disponibile, ma finisce per incidere sulla condizione complessiva degli individui dal punto di vista sociale, esistenziale e culturale, creando una realtà personale e collettiva molto diversa da quella tipica dello stato sociale keynesiano (Streeck, 2021).
Sono molti anni, in realtà, che correnti di pensiero di diversa natura, con un approccio critico, da diverse angolazioni e con differenti visioni, mettono in discussione la strategia di rilancio dell’economia e della produttività basata su riforme del mercato del lavoro di segno neoliberale, troppo spesso accettate acriticamente: una storia troppo lunga ed articolata per essere discussa qui, ma sicuramente da considerarsi il muto “convitato di pietra” della regressione salariale registrata in questi anni. L’enfasi con cui è stata accolta la destrutturazione del modello post-fordista di produzione, la critica spesso superficiale dello stato keynesiano e dei suoi costi, l’ineluttabilità della stessa globalizzazione e del suo effetto concorrenziale “al ribasso”, la malcelata soddisfazione della crisi delle grandi organizzazioni sindacali e del “collettivo”, ed altro ancora: non si può dire che non vi siano state responsabilità anche del mondo della cultura, in cui è prevalsa una visione in linea con i nuovi modelli sociali di riferimento, travolgendo i punti di resistenza, la “difesa della società”.
2. Sono cambiamenti che rinviano ad una vicenda molto complessa, con la nascita di quella che Enrica Morlicchio ha definito “società frammentata” (Morlicchio, 2020). I due temi – questione salariale e questione sociale - non solo sono interconnessi, ma si fondono ed entrambi appartengono al rango di fatti o concetti comprensibili soltanto storicizzandoli. Rinviano, in definitiva, alle basi sociali e culturali della società. Senza tornare alle riflessioni storiche di Karl Polanyi, basti ricordare cos’era, nel Novecento, la povertà nella società salariale di massa, incarnata dal “disoccupato involontario”, destinato a prendere il posto del “povero ozioso” di fine Ottocento. Come osserva Burnett (Burnett, 1994) è soltanto con l’avvento del capitalismo fordista che la disoccupazione emergerà come la principale causa di povertà. In realtà, il dualismo del mercato del lavoro indagato da studiosi come Massimo Paci e prima ancora da Milton M. Gordon (Paci 1972, Gordon 1963) ha sempre rappresentato una costante dello sviluppo capitalistico e la fascia marginale di lavoratori sottoccupati e non garantiti resterà sempre, anche nel periodo d’oro keynesiano, imprigionata in condizioni lavorative discriminatorie caratterizzate da salari poveri e precarietà. Ma era una realtà fatta di figure periferiche e secondarie, estranee anche all’orizzonte delle grandi organizzazioni sindacali, nicchie più o meno grandi di lavoro povero e marginalità prodotte dalla dinamica insita nel sistema capitalistico, caratterizzato storicamente dal dualismo garantiti-non garantiti, o meglio sviluppo-sottosviluppo (Braudel, 1977). Per i lavoratori impiegati nei settori protetti, coperti dalla tutela sindacale, il collegamento fra ingresso nel circuito lavorativo e garanzia di tutela salariale, con la relativa promozione sociale, costituiva la regola, anzi poteva dirsi l’interfaccia della produzione di massa, in cui, come ha notato Streeck, “vendere era un problema assai minore del produrre” (Streeck, 2021), creando il ciclo consumeristico tante volte descritto nel cinema e nella letteratura (e sottoposto a sferzante critica da intellettuali come Pasolini e Baudrillard).
Con la crisi del fordismo si assisterà al declino di questo meccanismo, assicurato, alla base, proprio dalla standardizzazione della produzione e del consumo, tanto da potersi dire, con un’espressione immaginifica, che all’economia basata sui bisogni si sostituirà un’economia basata sui desideri (Crouch, 2009). Cambierà l’economia politica e cambierà di conseguenza la composizione di classe, con una diversa segmentazione: si può riprendere qui l’analisi di Paolo Perulli, che segnala il nuovo dualismo fra una classe di lavoratori poveri, proletarizzati, che definisce “neo-plebe” - i perdenti della globalizzazione - e la classe “creativa”, ben inserita nei circuiti economici, fra i soggetti sociali premiati dalla terziarizzazione e dalla finanziarizzazione dell’economia (Perulli, 2021; Perulli-Vettoretto, 2022). I passaggi sono lenti, tortuosi e spesso nascosti, avanzano sotto traccia ma mutando radicalmente i rapporti di forza e l’immagine stessa della società. Nell’economia post-fordista si assiste sempre più spesso ad una crescita che, dal lato lavorativo, vuol dire, di fatto, per una fascia piuttosto ampia, mobilità dalla disoccupazione alla sottoccupazione e viceversa (Streeck 2021), registrandosi una nuova polarizzazione tanto da far parlare di “povertà nonostante il lavoro”, con una “frammentazione degli aggregati sociali caratteristici della società salariale” (Morlicchio, 2020). L’interrogativo che si poneva Castel trent’anni fa resta attuale: “Se la ridefinizione dell’efficienza economica e della competenza sociale si deve pagare con la messa fuori gioco del 10, 20, 30% o più della popolazione, si può ancora parlare di appartenenza a uno stesso insieme sociale?” (Castel, 1995; trad it., 2019). La povertà lavorativa si annida nelle pieghe più nascoste, incistata paradossalmente nei territori e nelle metropoli più avanzate come nelle realtà territoriali periferiche ed arretrate, nelle economie più ricche e produttive come nelle aree depresse o ancora pre-industriali. Al tempo stesso, la sua presenza diffusa in società altamente “giuridicizzate” sottolinea il ruolo dell’ordinamento nella produzione delle condizioni che favoriscono la polarizzazione. Si perde l’idoneità qualificatoria e descrittiva dei vecchi codici e riferimenti, come l’art. 2094 c.c., e si spezza il rapporto di coincidenza logica con la realtà socio-economica da regolamentare, ossia il rispecchiamento nell’ordinamento della condizione lavorativa da tutelare e proteggere, diventata sempre più sfocata e imprecisa, tanto da minare la corrispondenza fra piano classificatorio ed assiologico del diritto.
Già da queste brevi ed approssimative osservazioni emerge dunque che la crisi del salario è la spia di una crisi più grande che riguarda direttamente il rapporto sociale sottostante, che si manifesta storicamente attraverso la relazione salariale, e di conseguenza il “vecchio” diritto sembra non riuscire più ad individuare le soggettività da includere, scindendo il salario dal lavoro, le tutele per chi lavora dalla classe dei produttori. Aveva capito precocemente la natura di questa crisi globale (e gli sviluppi successivi) Aris Accornero in un volume di rara nitidezza teorica (Accornero, 1980; ora pubblicato in open access per meritoria iniziativa dell’editore, con commento di Vincenzo Bavaro) che sarebbe sfociata in una rottura radicale della “civiltà del lavoro”.
Si cercherà qui di inquadrare il problema dei salari poveri in questo contesto storico-sociale, collegando il versante per così dire “quantitativo”, ossia il problema dell’adeguatezza del salario, alla crisi della relazione salariale nel “nuovo capitalismo”, ossia al suo versante strutturale e “qualitativo”, al rapporto sociale di cui è espressione. Nel tentativo di illustrare le ragioni di fondo della questione salariale, che, probabilmente, proprio per la sua natura richiede di essere affrontata con strumenti “non convenzionali”.
3. Il primo versante – l’inadeguatezza del salario - è quello generalmente affrontato nel dibattito pubblico e nella stessa riflessione giuslavorista, quando si discute di “salari poveri”, ed a cui, assente lo Stato, ha dato una risposta la giurisprudenza con le famose sentenze di ottobre 2023 (tanti i commenti: si veda Lassandari, 2023 e qui i riferimenti). Fino a qualche anno fa, come si è già osservato in precedenza, il lavoro assicurava l’accesso alla condizione di cittadinanza ed il rapporto fra il salario e la condizione di “un’esistenza libera e dignitosa” appariva dotato di concretezza e realismo. Non mancavano aree di povertà, ma non si estendevano ai settori centrali dell’economia. La novità – anzi lo choc - è stato scoprire i woorking poors nel cuore della produzione capitalistica, la diffusione dei salari poveri nei contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali storicamente maggioritarie, con più radicato consenso nella classe lavoratrice nelle sue diverse componenti settoriali. Cade in questo modo la presunzione iuris tantum di conformità dei minimi retributivi della contrattazione collettiva ai principi dell’art. 36 della Costituzione , un tempo indiscutibile (Carabelli, 2023). La questione salariale è, in tal senso, la prova più salda della crisi della rappresentanza sindacale, che nel nostro sistema non può essere surrogata, allo stato, da altre fonti.
Purtroppo, l’affollamento di fonti che si sono occupate nel tempo del problema salariale è direttamente proporzionato alla loro inoffensività e ineffettività. Non mancano principi e dichiarazioni solenni, innanzitutto a livello sovranazionale: dall’art. 23 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 alle Convenzioni dell’OIL n. 26/1928 e n. 131 del 1970, fino all’art. 4 della Carta Sociale Europea, sono diverse le dichiarazioni e le formule attraverso cui si esprime nel diritto internazionale l’esigenza, che si potrebbe ritenere universale, della tutela salariale della classe subordinata. Manca tuttavia la volontà politica di tradurre questi principi, che non sono auto-applicativi, all’interno dei confini del nostro Stato-nazione con norme dotate di effettività. Si potrebbe dire che l’ordinamento italiano sia costantemente in lite con queste fonti, ne violi sistematicamente principi ed indirizzi, senza alcuna conseguenza reale stante il loro carattere di soft-law (Pascucci, 2019).
Più importanti, per il nostro contesto nazionale, sono le fonti comunitarie, ma neppure esse decisive per incidere sulla condizione salariale ed imporre un rapporto più corretto a livello macroeconomico fra lavoro e capitale. Già la riserva dell’art. 153 del TFUE dimostra in effetti come la materia sia considerata un vero e proprio tabù per l’ordinamento europeo, impedendo la tutela salariale della classe subordinata ad un livello sovranazionale. Va qui soltanto ricordata, sia pure en passant, la giurisprudenza della Corte di Giustizia sui minimi di trattamento e sulla parità di trattamento , che è un altro modo per assicurare il rispetto di minimi salariali, e lo stesso Pilastro europeo dei diritti sociali, nella sua (almeno dichiarata) volontà di spostare verso l’alto la condizione della classe lavoratrice. Una costola è la direttiva sul salario minimo 2022/2041, che ha “forzato” i limiti di competenza ex art. 153 TFUE, di cui si è discusso moltissimo nella dottrina giuslavorista, con diversità di toni e valutazioni critiche, ma anch’essa con inevitabile debolezza e limitata efficacia (fra gli altri Barbieri 2021, Barbera-Ravelli 2021, Pascucci-Speziale 2021; Ratti 2022; Bavaro-Borelli-Orlandini, 2022; Albi, 2023). La Direttiva ha tuttavia il merito, quanto meno, di non disconnettere la questione della povertà dal problema salariale, come si è tentato di fare molte volte ed anche in sedi autorevoli, finanche da parte di istituzioni comunitarie (Lo Faro, 2024). Nonostante i suoi limiti, essenzialmente per la mancanza di un’efficacia diretta negli ordinamenti nazionali, la direttiva è una norma di indirizzo molto chiara, dà un input molto preciso, a cui tuttavia lo Stato italiano finora sembra volersi sottrarre.
4. In definitiva, l’unico dispositivo eteronomo in grado di intervenire con adeguata incisività è tuttora l’art. 36, o meglio la sua inossidabile interpretazione costituzionale senza la quale il rapporto salariale sarebbe oggi governato dalla legge del mercato, ossia dagli spontanei rapporti di forza registrati dalla contrattazione individuale e collettiva . Ma la precarietà di tale assetto e l’esigenza di una fonte legale che assicuri certezza e applicazione erga omnes del salario sufficiente, è da tempo sottolineata dalla dottrina italiana. Basti ricordare il volume di Massimo Roccella (Roccella 1986, pubblicato ora in open access dall’editore con prefazione di Aimo e Izzi, 2023; per un commento, v. Ballestrero, De Simone 2021), un libro di straordinario impatto critico, per quanto calato in altra epoca storica, in cui già appariva evidente la difficoltà, come scriveva a quell’epoca Treu, di “realizzare una tutela minima omogenea dei redditi di retribuzione in un mercato del lavoro sempre più diviso” (Treu, 1979). Si intravedevano il tramonto del fordismo e i cambiamenti nella composizione di classe, la crescita veloce del settore terziario e l’entrata delle donne nel mercato del lavoro, lo stretto collegamento fra povertà e bassa remunerazione del lavoro. La critica di Roccella al ruolo della legge, che aveva visto il legislatore intervenire per calmierare la dinamica salariale ma non per garantire l’applicazione del salario costituzionale, era dunque non solo pertinente ma anticipava temi di cui discutiamo oggi dopo la lunga “notte” neoliberale (si vedano le considerazioni qui di Aimo, Izzi, 2023). Forse prima ancora della fine del keynesismo, seguendo il fil rouge dell’autore, bisognava avere il coraggio di adottare le opportune contromisure sul piano legislativo, anziché enfatizzare il ruolo della contrattazione, ma ritardi culturali e pregiudizi critici di varia natura hanno arrestato riforme pur ineludibili in una moderna democrazia economica. Lo stesso Roccella si espresse del resto in termini critici contro le resistenze e le posizioni conservatrici del sindacato italiano e della sinistra storica: il suo era un pensiero all’epoca minoritario ma lungimirante. Attualissime sono le pagine in cui ricostruisce la “questione salariale” nella società capitalistica attraverso le opere degli economisti neoclassici e la critica marxiana, con una riflessione sulle prime teorizzazioni sul salario minimo legale dei coniugi Webb e sulle durissime lotte per rimuovere il dogma dell’astensionismo dello Stato in materia salariale, con l’ambigua delega alla contrattazione, “senza peraltro cercare di contrastare, ed anzi accettandola esplicitamente, la struttura delle disuguaglianze salariali (fra regioni, fra i sessi, fra adulti e minori)” (Roccella, 1980). Andrebbero rimeditate le pagine in cui l’autore ricorda tutte le difficoltà di introdurre nella Costituzione il salario minimo, le perplessità dello stesso Di Vittorio e l’opposizione democristiana, tanto da preferire la formula generica ed un po’ vaga dell’art. 36, a dimostrazione, come osservò poi Mancini, dell’incapacità (o meglio dire della non realizzabilità) da parte dei Costituenti di ripensare in termini totalmente nuovi l’assetto istituzionale dei rapporti di lavoro (Mancini, 1976).
A distanza di tanti anni, dopo un cinquantennio dall’opera di Roccella, la tutela salariale della classe lavoratrice è dunque ancora tributaria dell’imprevedibile svolta giurisprudenziale sull’art. 36 della Costituzione. Proprio per il suo carattere compromissorio e generico, messo in luce da questa linea critica, può scorgersi nella formula ellittica dell’art. 36 della Costituzione un duplice contenuto, una visione ambivalente della relazione salariale, in cui convivono (o forse confliggono) egualitarismo e meritocrazia. Al criterio della sufficienza si affianca il suo antagonista ideologico, il lato mercantile del salario (Bavaro, 2023), ossia il controvalore monetario della prestazione secondo la legge del mercato, limitando la libertà contrattuale soltanto nel collegare il salario al rapporto di proporzionalità a quantità e qualità del lavoro prestato (principio peraltro deducibile già dal sistema del codice civile, come si dirà). Traduzione giuridica della funzione molto complessa del salario, che ad un tempo risponde ai bisogni della classe lavoratrice per la sua riproduzione come forza-lavoro e dall’altro riflette, attraverso il rinvio alla proporzionalità, il rapporto di forza fra le classi: è questo il versante dinamico della relazione salariale, che produce le differenze e stabilisce le gerarchie all’interno della stessa classe lavoratrice, in base ai “meriti” individuali (all’impegno e alla professionalità profuse). Principio differente dalla sufficienza retributiva, che designa un livello minimo uguale per tutti e può giustamente definirsi come obbligazione “sociale” insita nella norma costituzionale (L. Zoppoli, 1991), distinguendo il salario “costituzionale” da nozioni meramente economicistiche (Treu, 1979). Disvelando l’ambiguità del salario come equivalente monetario del valore del lavoro, la Costituzione ci dice infatti che la funzione – laterale finché si vuole, ma essenziale – della retribuzione è sollevare il lavoratore dallo stato di bisogno, sganciando in tal modo il salario dalla produttività e dal rapporto di scambio con la controparte. Come si vede, la contraddizione è piuttosto evidente: lo comprese perfettamente Federico Mancini, nella sua critica al compromesso costituzionale insito nell’art. 36 (Mancini, 1976). Indirettamente, l’art. 36 ci dice cioè che la retribuzione può anche rispettare il valore mercantile del lavoro prestato ma non per questo essere sufficiente, adeguata ai bisogni fondamentali di chi lavora (Carabelli, 2023). Il sinallagma istituisce il salario come controvalore del lavoro ma l’art. 36 della Costituzione traccia una “linea rossa” invalicabile che, tuttavia, ha anche la funzione di assicurare il consenso della classe subordinata, a garanzia, come osserverà poi Supiot, della stessa sopravvivenza del capitalismo come sistema (“…Et d’un meme pas, il a rendu éeconomiquement et politiquement durable l’exploitation du travail comme une marchandise”, Supiot, 2013).
Nella dottrina italiana si è più volte affermato che i due criteri – proporzionalità e sufficienza – sono complementari, che non esiste alcuna gerarchia fra di essi e, in realtà, essi vanno considerati come un tutt’uno, come un insieme inscindibile, in quanto la giusta retribuzione è quella che soddisfa entrambi i requisiti (Bellomo, 2002). Ma nella giurisprudenza sembra cogliersi piuttosto, quando deve definirsi la retribuzione sufficiente, un parametro molto ambiguo, in cui attraverso l’utilizzo in “modalità ridotta” della retribuzione complessiva prevista dai contratti collettivi si è di fatto utilizzato solo il primo dei due principi costituzionali (ricostruisce in questo modo, giustamente, la linea della giurisprudenza di legittimità Pascucci, 2019; sul tema, in senso conforme v. Zoppoli L. 2018 e Ricci 2012). Questa operazione, in parte mistificatoria, è stata possibile fintanto che la contrattazione collettiva ha mantenuto due fondamentali caratteristiche: da un lato, registrando il consenso diffuso nei diversi settori con la rappresentatività quasi monopolistica delle due parti negoziali (associazioni sindacali “storiche” e associazioni delle imprese) e, d’altro canto, assicurando il potere d’acquisto della classe lavoratrice nella società di massa, tanto da oscurare il problema della sufficienza della retribuzione ed assorbirlo all’interno dei minimi collettivi. Sono queste le ragioni, con l’ineludibile constatazione del valore storico-sociale della rappresentatività sindacale, per cui il contratto stipulato da queste associazioni è stato dalla giurisprudenza ritenuto come “la fonte più idonea per attualizzare adeguatamente ambedue i criteri costituzionalmente rilevanti”, anche indipendentemente dalla sua diretta applicabilità al rapporto di lavoro (Pascucci, 2019, e qui i riferimenti alla dottrina italiana più autorevole) .
Quando si discute di “salari poveri” – ossia di salari imputabili anche a quella contrattazione privilegiata di cui si parlava poc’anzi - implicitamente si dice dunque che la contrattazione non riesce più ad assicurare uno dei momenti fondamentali della sua funzione, che è normare il rapporto negoziale privato, con una divaricazione della sufficienza dalla proporzionalità, che vuol dire venir meno all’obbligazione etico-sociale delle parti sociali di assicurare i bisogni elementari, basici, della classe lavoratrice. Nella relazione salariale, la cui fonte sta nel contratto collettivo, la proporzionalità non assicura più il parametro della sufficienza, ossia i rapporti sociali collettivi non danno più nessuna sicurezza di benessere, come postulato dalla nostra giurisprudenza di legittimità solo fino a qualche anno or sono . Tale connessione viene meno per una molteplicità di ragioni, non ultima l’inidoneità del rigido parametro normativo ex art. 2094 c.c. ad individuare le classi di produttori a cui va imputata la relazione salariale costituzionale (su questo tema v. infra). In realtà, come vedremo, proprio la crisi del lavoro subordinato di massa prodotta dall’economia politica neoliberale ha distrutto il rapporto fra lavoro e salario: Robert Castel l’ha definito “..il sommovimento che ha recentemente interessato la condizione salariale, con disoccupazione di massa e precarizzazione delle situazioni di lavoro, inadeguatezza dei sistemi classici di protezione nel far fronte a questi stati, moltiplicazione di individui che occupano nella società una posizione di surnumerari, inoccupabili, inoccupati o occupati in modo precario, intermittente” (Castel, 2019; v. pure Castel, 2015). Appare veramente riduttivo discutere della crisi del salario senza affrontare la crisi della sua matrice – lo sottolinea Caruso, ma da altro punto di vista, nel volume collettaneo sul “lavoro povero sans phrase” (Caruso, 2024) – ossia la “società salariale” (ancora, Castel 2019), divaricando schizofrenicamente la classificazione giuridica rispetto ai principi fondamentali dell’ordinamento, nella sua massima elevazione etico-morale, che si rinvengono, a volerne leggere il fondamento assiologico, negli art. 35 e 36 della Costituzione.
5. Come hanno sottolineato diversi sociologici ed economisti – fra gli altri, con un punto di vista critico, Christian Marazzi (Greppi-Cavalli-Marazzi, 2022, e qui altri riferimenti) - il capitalismo post-fordista ha distrutto la classe operaia frammentando la composizione di classe e il rapporto sociale attraverso la de-salarizzazione, la decontrattualizzazione e le misure capillari di precarizzazione del lavoro, dimenticando, tuttavia, che se il contratto di lavoro non assicura più né stabilità né carriera ed i salari diminuiscono, riducendo il potere d’acquisto della classe subalterna, si aprono le porte ad un’integrazione dell’equivalente monetario per altre vie, alimentando la finanziarizzazione e la concentrazione della ricchezza verso l’alto. Fra salari bassi e disuguaglianza c’è dunque un rapporto di convergenza e sono fenomeni che si sostengono l’uno con l’altro: basta leggere a tal riguardo il rapporto di Oxfam dal titolo emblematico La disuguaglianza non conosce crisi, disponibile sul sito dell’associazione (su questo tema sia consentito rinviare ancora a Fontana, 2017 e 2019). Si tratta di un problema sistemico che non può non avere soluzioni a loro volta globali e sistemiche. L’interrogativo da porsi è dunque se la crisi può essere risolta e il rapporto salariale può essere ricostruito con gli strumenti offerti dal diritto. La giurisprudenza ha dato le risposte che poteva dare, con le sentenze dell’ottobre 2023, estraendo dall’art. 36 della Costituzione il salario “sufficiente” come paradigma non negoziabile della relazione di lavoro salariato. Ed è proprio qui il punto che arrovella i giuslavoristi, a dimostrazione proprio delle difficoltà di intervenire a legislazione invariata su nodi cruciali come la distribuzione dei redditi. La difficoltà è intuitiva: come può un giudice, che interviene in modo casistico, definire il livello salariale “sufficiente”? Come osserva giustamente Bavaro, resta irrisolto, oggi come ieri, il problema di definire qual è la soglia minima, che, in fondo, “non è negato da nessun modello economico” (Bavaro, 2023). Ma forse prima bisognerebbe porsi un’altra domanda: possiamo ancora “salvare” la relazione salariale e assicurare la funzione “sociale” del salario in una società oramai post-salariale? A queste due domande si cercherà di rispondere nei paragrafi che seguono.
Le sentenze della Cassazione affermano che è sufficiente il salario che dà diritto “ad una retribuzione non inferiore agli standards minimi necessari per vivere una vita a misura d’uomo”, diversamente dalla proporzionalità, che si concretizza nella “ragionevole commisurazione” del salario. I giudici hanno giustamente tentato di storicizzare questo livello minimo inderogabile, identificandolo con un limite, un minimo inderogabile “in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti”, necessario per un’esistenza libera e dignitosa. Consapevole della differenza fra salario sufficiente e salario “di soglia” – posizionato sulla linea di confine della condizione di povertà, assolutamente invalicabile del salario negoziato dalle parti – la Cassazione ha ancorato la sufficienza a criteri non limitati al soddisfacimento dei bisogni essenziali, dovendo assicurare, come scrivono i giudici di legittimità, “anche qualcosa in più”, come indicato del resto dalla stessa direttiva 2022/2041 (in particolare dal Considerando 28, che si pronuncia nel senso di collegare il salario minimo, oltre alle mere esigenze di sussistenza, anche “ad attività culturali, educative e sociali”).
Ma i problemi arrivano quando si deve passare dalla teoria alla pratica, dalla pars destruens alla pars costruens. Per individuare il giusto salario il giudice dovrebbe innanzitutto (ed ovviamente) confrontare la retribuzione individuale percepita con i livelli retributivi della contrattazione, pur dovendosi sempre ammettere che tali parametri non sono comunque vincolanti, tanto che il giudice può prescinderne, basandosi, nel giudizio valutativo, “sulla natura e sulle caratteristiche della concreta attività svolta, su nozioni di comune esperienza e, in difetto di utili elementi, anche su criteri equitativi” (principio del resto storicamente acquisito dalla giurisprudenza di legittimità e di merito). Può il giudice adoperare anche altri parametri, come l’importo della Naspi o della Cig, ed ancora la soglia di reddito per l’accesso alla pensione di inabilità o l’importo del reddito di cittadinanza, ritenendole tutte indicazioni utili a stabilire quel limite assoluto che non vale ad assicurare la sufficienza della retribuzione ex art. 36 Costituzione ma rappresenta la “linea rossa” da non superare mai. I giudici di legittimità invitano poi gli interpreti a tener conto, in questa operazione, delle indicazioni della direttiva europea, valorizzando criteri quali il rapporto tra il salario minimo lordo e il 60% del salario lordo mediano e il rapporto tra il salario minimo lordo e il 50 % del salario lordo medio, valori che attualmente non sono soddisfatti da tutti gli Stati membri, ovvero il rapporto tra il salario minimo netto e il 50 % o il 60 % del salario netto medio (punto 24). Infine, un utile riferimento secondo la Corte potrebbe essere costituito dal salario legale per i soci lavoratori di cooperative (punto 25).
Qui anche la Cassazione non può che arrestarsi e rinviare al giudice di merito l’ardua individuazione case-by-case del salario minimo costituzionale, con l’avvertenza che oggetto dell’intervento giudiziale può essere non solo il diritto del lavoratore di chiedere al giudice l’applicazione del salario definito dal CCNL della categoria di appartenenza, ma anche il diritto di “uscire” dal salario contrattuale , atteso che nessun contratto di diritto privato può, per nessuna ragione, sottrarsi alla verifica giudiziale (D’Oriano, 2024 anche per i riferimenti nella giurisprudenza di legittimità).
Al giudice di merito viene demandata dunque un’operazione molto complessa, a più stadi. La prima equazione da risolvere sta nel rapporto fra la retribuzione concretamente percepita e quella prevista dal contratto collettivo applicato e/o applicabile dal datore di lavoro in forza del vincolo associativo e di rappresentanza, o ancora, in ultima analisi, individuato in base al dato oggettivo dell’attività svolta e del settore merceologico di appartenenza.
Questa prima duplice equazione, per la verifica di costituzionalità ex art. 36, può dare un risultato negativo o positivo e naturalmente l’applicazione dei minimi retributivi previsti dai contratti collettivi applicabili rappresenta il criterio prioritario (Pascucci, 2019) essendo l’unico oggettivamente rilevabile nell’ordinamento . Se la violazione è imputabile al contratto individuale il giudice (è pacifico) applica la retribuzione contrattuale collettiva. Il problema si complica se invece è la retribuzione del CCNL a non superare il vaglio di costituzionalità: sarà dunque questa a cadere, stante l’inderogabilità dei principi stabiliti dall’art. 36 (su cui peraltro la giurisprudenza ha sancito la possibilità di incidere tanto in melius quanto in senso limitativo, in caso di conflitto con interessi generali di particolare intensità) . In entrambi i casi l’intervento del giudice segue i consueti “binari” codicistici degli artt. 1419 e 1339 c.c., con effetto sostitutivo delle clausole difformi e conservazione del contratto, altrimenti travolto dalla nullità, incidendo essa su un elemento essenziale del negozio giuridico.
Quando il salario povero è deducibile dal contratto collettivo applicato (o applicabile), resta da identificare la fonte “alternativa” per assicurare il rispetto del salario costituzionale. Lo stesso avviene, a ben pensare, anche nei rapporti di lavoro “informali” in cui manchi una fonte negoziale collettiva applicata dalle parti per individuare la relazione salariale (e, si potrebbe aggiungere, anche quando non vi sia un rapporto di rappresentanza associativa che vincola il datore di lavoro al rispetto del contratto collettivo stipulato dall’associazione a cui aderisce). Qui il rinvio non può che essere, dal punto di vista dogmatico, all’art. 2099 c.c., che attribuisce al giudice il potere di individuazione del contratto. In tali casi, la giurisprudenza di merito si trova dinanzi ad un quesito di non facile soluzione, dovendo scegliere un riferimento diverso ma non arbitrario, che assicuri il raggiungimento di un risultato utile, che, peraltro, potrebbe doversi replicare ad una serie indefinita di rapporti di lavoro. L’ottica non è più individualistica ma diventa necessariamente collettiva e dà luogo ad una valutazione in senso lato “politica”, con effetti inevitabilmente macroeconomici. La scelta è molto problematica, come dimostra la stessa difficoltà della Cassazione a definire uno sbocco certo ed univoco; dovendo svolgere un ruolo di supplenza del legislatore, che non attua né l’art. 36 né l’art. 39 della Costituzione, senza possedere un’uguale strumentazione. E’ un compito che la giurisprudenza può assolvere in modo corretto? Forse solo a patto che vi sia un’intesa di fondo, un po’ come è avvenuto in materia di liquidazione del danno attraverso le “tabelle” elaborate da giudici di merito e poi utilizzate dai giudici nelle diverse sedi, ma nel nostro caso sicuramente la questione è più complessa per la pluralità degli elementi valutativi, per la frammentazione del lavoro e anche per il peso degli interessi in gioco. Anche separare la sufficienza dalla proporzionalità, ossia il valore mercantile del lavoro dal dovere etico di assicurare un salario minimo garantito, è di per sé molto difficile.
6. Per dare un contributo ad affrontare questo problema ed eventualmente ad elaborare delle tabelle di riferimento, si farà qui una breve rassegna delle indicazioni suggerite dalla giurisprudenza di legittimità o di merito per la verifica di conformità della retribuzione percepita al minimo costituzionale .
Il primo parametro, privilegiato, resta naturalmente il trattamento retributivo stabilito dal ccnl del settore o dei settori affini o per mansioni analoghe ed è compito del giudice valutare se esso è conforme all’art. 36 della Costituzione: in tal caso, il giudice applica ovviamente i minimi collettivi. Ma come avviene questa verifica? Ecco a seguire gli indici possibili, che rappresentano secondo la Cassazione e secondo due successive sentenze dei giudici di merito:
a) la soglia di povertà assoluta calcolata dall’Istat (www.istat.it/dati/calcolatori/soglia-di-poverta/) la cui identificazione è notoriamente un’operazione complessa collegata all’area territoriale di residenza e alla composizione del nucleo familiare (ad esempio, per una famiglia residente nell’area metropolitana di Milano con due figli minori a carico il reddito-soglia è di euro 1909 circa, mentre per lo stesso nucleo familiare residente in Sicilia il valore scende ad euro 1360 circa);
b) l’importo della Naspi: b1) se la retribuzione mensile imponibile a fini previdenziali degli ultimi quattro anni è pari o inferiore a 1.425,21 euro, l’importo della Naspi sarà pari al 75% della retribuzione; b2) se la stessa retribuzione mensile è superiore a 1.425,21 euro l’importo della Naspi è pari al 75% di 1.425,51 + 25% della differenza tra la retribuzione mensile e euro 1.425,21; b3) in ogni caso l’indennità mensile della Naspi non può superare la soglia massima di 1.550,42 euro;
c) l’importo massimo mensile previsto per il trattamento di integrazione salariale di cui all’art. 3, comma 5-bis, del d.lgs. 148/2015 che, per il 2024, è pari a 1.392,89 euro lordi, corrispondenti all’importo netto di 1.311,56 euro netti (cfr. circolare INPS 29 gennaio 2024, n. 25);
d) la soglia di reddito per l’accesso alla pensione di inabilità: per l’anno 2024 il limite di reddito personale annuo è di € 19.461,12;
e) seguono gli indicatori valorizzati nella dir. 2022/2041/UE per orientare la valutazione degli Stati membri circa l’adeguatezza dei salari minimi legali (60% del salario mediano e 50% del salario medio)
f) l’importo dell’offerta di lavoro “congrua” ex d.l. 28 gennaio 2019, n. 4 (utilizzato dal Tribunale di Bari, su cui v. Bavaro, 2023), secondo cui la retribuzione deve essere almeno pari a 858 euro netti mensili (il 10% in più rispetto all’importo massimo di RdC per un solo percettore) e comunque non inferiore ai minimi salariali previsti dai contratti collettivi;
g) valore del reddito annuo che consente l’accesso al gratuito patrocinio (indicato dalla Corte di Appello di Firenze) non superiore oggi a € 12.838,01 (d.m. 10 maggio 2023 in G.U. n. 130 del 6/6/2023).
h) l’importo del reddito di cittadinanza, variabile in base alla composizione del nucleo familiare, come risulta dalla tabella pubblicata sul sito del Governo (www.redditodicittadinanza.gov.it/schede/come-si-calcola):
Composizione nucleo familiare Scala di equivalenza Beneficio massimo annuale
1 adulto 1 6.000,00 €
1 adulto e 1 minore 1,2 7.200,00 €
2 adulti 1,4 8.400,00 €
2 adulti e 1 minore 1,6 9.600,00 €
2 adulti e 2 minore 1,8 10.800,00 €
2 adulti e 3 minore 2 12.000,00 €
3 adulti e 2 minore 2,1 12.600,00 €
4 adulti 2,1 12.600,00 €
4 adulti (o 3 adulti e 2 minori) tra cui una persona in condizione di disabilità grave o non autosufficiente 2,2 13.200,00 €
Come si nota, la diversità dei parametri è notevole, con tutte le problematiche applicative che ciò comporta. Urge quindi, da parte della giurisprudenza di merito, la definizione di indicatori certi ed affidabili, per avere “un solo criterio per stabilire l’importo della busta paga di un lavoratore, conforme alla Costituzione”, che indubbiamente dovrebbe privilegiare i minimi collettivi, finché è possibile, senza sbavature e operazioni riduttive (Bavaro, 2023).
7. Come si vede, dunque, restano aperti molti problemi applicativi, anche di natura molto pragmatica, che andrebbero risolti, in verità, dal legislatore per definire i valori salariali assolutamente inderogabili, che designano una “civiltà del lavoro”. Sono poi aperti anche problemi interpretativi e di modelli applicativi degli stessi principi costituzionali. Qui una breve sintesi.
Salvo a voler ritenere possibile una decisione fondata su criteri meramente equitativi e/o al di fuori di coordinate contrattuali, l’intervento giudiziale parte dalla selezione della fonte collettiva, anche in funzione meramente parametrica e comparativa, per la valutazione della conformità costituzionale del trattamento economico applicato al rapporto di lavoro, in cui si riconosce al giudice un potere valutativo molto ampio, non essendo vincolato a nessun criterio di rappresentatività legale (peraltro inesistente) o ad altri indicatori. Per quanto, come si è riferito in precedenza, per ragioni si potrebbe dire “sistemiche” la scelta privilegiata – la “prima scelta” - resti il contratto leader, almeno finchè tale contratto sia conforme all’art. 36.
Qui sorge il primo problema, che nasce non soltanto dalla proliferazione di nuove associazioni categoriali e sindacali e dall’esistenza oramai di plurimi contratti applicabili al medesimo settore, ma anche dalla già richiamata possibilità di mettere in discussione, come acclarato proprio dalle sentenze delle Cassazione di ottobre 2023, i minimi retributivi dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni aderenti alle confederazioni (maggiormente o comparativamente) più rappresentative, segnatamente sotto il profilo della loro sufficienza ed adeguatezza (D’Oriano, 2024). In linea generale, ove sia rilevata la violazione dell’art. 36 della Costituzione, la “prima scelta” dovrebbe essere quella di individuare una fonte collettiva adeguata, seguendo i soliti criteri (applicare il contratto collettivo del settore merceologico in cui opera l’impresa datrice di lavoro sottoscritto dai sindacati più rappresentativi, in primo luogo, se il contratto applicato è un altro: v. Calvellini, Loffredo 2023). Solo in seconda battuta, se occorre, il giudice potrebbe quindi ricercare un diverso parametro costituzionalmente legittimo, semmai dato da contratti di settori limitrofi, privilegiando sempre il contratto di categoria leader. Che il giudice possa applicare un contratto collettivo di diverso settore è del resto già acquisito dalla giurisprudenza di legittimità . Ma se viene meno la presunzione iuris tantum di conformità al precetto costituzionale del contratto collettivo stipulato dalle associazioni sindacali maggiormente o comparativamente più rappresentative, quale fonte privilegiata, l’intera fragilissima impalcatura su cui si regge la tutela salariale della classe lavoratrice rischia di crollare, lasciando l’interprete in una condizione difficilissima per l’irrisolto problema (complice la non attuazione dell’art. 39 della Costituzione) della individuazione dello standard di trattamento costituzionalmente legittimo. La questione è invero preoccupante anche per la sua estensione, non potendosi più dire marginale, emergendo una situazione salariale precaria in molteplici settori economici coperti da contrattazione svolta da associazioni aderenti alle maggiori confederazioni (v. D’Oriano, 2024). In questi casi, su quali elementi si basa il giudizio di sufficienza? Ed inoltre, in base a quali criteri il giudice deve valutare la conformità o meno ai principi costituzionali dei minimi retributivi dei contratti applicabili al singolo rapporto di lavoro? La Cassazione – che, invero, si è trovata a giudicare una dismisura eclatante dei minimi del settore considerato - dà alcune indicazioni ai giudici di merito che, tuttavia, come si è visto, non risolvono il problema (v. infra) e, se non utilizzate in modo appropriato, rischiano di produrre ulteriori differenze di trattamento, in relazione alle diverse sensibilità dei singoli giudici.
Altro problema, che ha evidentemente un rapporto molto stretto con la difficoltà di assicurare un’adeguata tutela salariale, è poi rappresentato da quelle che Pascucci ha definito come “operazioni riduzionistiche del trattamento contrattuale in base ad elementi esterni” da parte della giurisprudenza, quando si tratta di definire la “giusta retribuzione” e non sia rilevabile un contratto collettivo che il datore di lavoro sia tenuto ad applicare in forza dei noti principi in materia e, dunque, l’intervento giudiziale finisce per fondarsi unicamente sulla norma costituzionale, utilizzando il contratto come parametro esterno. Problema non marginale, se si pensa che il numero di aziende (meglio definirle “microimprese”) situate al di sotto della soglia minima di sindacalizzazione è notevolmente cresciuto negli ultimi anni (secondo i dati riportati da Staglianò 2024, p.22, si stima che nel nostro sistema produttivo il 98% delle aziende conti meno di dieci dipendenti, mentre solo lo 0,1% delle imprese ha più di 250 dipendenti). Su questo punto sono condivisibili le perplessità della dottrina che ha messo in luce l’ambiguità di tale opzione interpretativa, che, in realtà, forse deriva dal timore di parte della giurisprudenza di entrare in contrasto con l’art. 39 della Costituzione estendendo ultra partes le disposizioni del contratto collettivo, trattandosi di un’applicazione meramente parametrica dei minimi sindacali e non essendoci nessun motivo realmente giustificato in termini giuridici o dommatici per escludere l’applicazione del trattamento economico complessivo previsto dal contratto (Bavaro, 2023; sul punto Ponterio, 2023). Un timore di sconfinamento della magistratura del lavoro, stabilendo in via pretoria l’applicabilità generalizzata del contratto collettivo, che invero si cela dietro tutte le diverse (spesso fantasiose) giustificazioni del trattamento in pejus riservato a questi lavoratori privi di copertura contrattuale, con un soggettivismo interpretativo inaccettabile, richiamando criteri evanescenti quali “la crisi, le condizioni territoriali, le dimensioni dell’impresa, l’equità, le caratteristiche della prestazione o dell’attività svolta, le nozioni di comune esperienza”, con il solo limite, secondo la Cassazione, della motivazione adeguata circa le ragioni della scelta (Pascucci 2019, a cui si deve anche la ricognizione delle diverse motivazioni della giurisprudenza in questione, sopra richiamate; per una puntuale critica v. Bavaro, 2023).
In tal modo la giurisprudenza produce un ulteriore declassamento delle condizioni retributive (per quanto limitato alle sole ipotesi sopra richiamate di inapplicabilità del contratto collettivo), creando una fascia esclusa dalla tutela salariale della contrattazione collettiva pur svolgendo la medesima attività lavorativa all’interno di uno stesso settore produttivo, i cui salari restano al di sotto dei già bassi salari italiani. Nonostante le reazioni negative da parte della dottrina (per tutti, Ferraro 2010), per il conservatorismo sotteso a tali posizioni, la posizione della giurisprudenza non è mai cambiata. Per di più, nel momento in cui si registra l’aumento esponenziale della povertà lavorativa anche nei settori “protetti” e coperti dalla contrattazione (basti pensare alla manifattura, che registra quasi mezzo milione di lavoratori al di sotto della soglia di 9 euro l’ora: v. Staglianò 2024) e al tempo stesso viene segnalato il ritardo oramai cronico nei rinnovi contrattuali (su 188 ccnl firmati dalle sigle confederali, a marzo 2023 risultavano essere ben 112 i contratti scaduti e non ancora rinnovati), tale indirizzo interpretativo risulta essere ancora più negativo sul piano salariale e in verità incomprensibile (si veda su tale questione Bavaro, 2024).
Sarebbe il salario minimo legale la soluzione definitiva in grado di dare certezza nella definizione del salario costituzionale? Fino ad un certo punto, perché nel nostro ordinamento il parametro dato fonte costituzionale è inderogabile anche dalla legge, quindi anche il salario minimo legale potrebbe essere sottoposto a vaglio di costituzionalità ex art. 36 della Costituzione, ma in questo caso l’ultima parola spetterebbe forse al giudice delle leggi. Forse, perché resta aperta comunque l’accertamento e il giudizio sui singoli casi ed i giudici ben potrebbero applicare l’art. 36 della Costituzione, stante la sua drittwirkung, ignorando il salario legale, che vincola le parti ma non il giudice.
In realtà, il salario minimo erga omnes è nella legislazione italiana come l’araba fenice, che ogni volta rinasce dalle sue ceneri senza mai materializzarsi davvero. Talvolta si dimentica un dato elementare: se è vero che la teorizzazione della natura precettiva dell’art. 36 ha risolto quanto meno il problema dell’esigibilità dei principi di proporzionalità e sufficienza, consentendo al giudice di intervenire direttamente sul sinallagma contrattuale, ciò non toglie che la disposizione costituzionale è pur sempre una norma “programmatica”, contenendo una chiarissima direttiva per il legislatore. Ma di questo secondo aspetto si è sempre discusso poco, circoscrivendo l’art. 36 alla sua funzione di rimodulazione legale dell’obbligazione retributiva. Eppure è dagli inizi del secolo XX che si discute di salario minimo, per attuare l’art. 36 della Costituzione e rispondere al problema dei salari poveri. Nella storia repubblicana risale al 1954 il primo disegno di legge sul salario minimo legale in Italia (ddl n. 895 Di Vittorio, Foa ad altri, che prevedeva un minimo salariale indistintamente per tutti i lavoratori del settore industriale, con gli aumenti previsti dalla scala mobile). L’inerzia legislativa ha molte spiegazioni, ma non va sottovalutato che qui si scontrano opposti principi di rango costituzionale, che celano, a loro volta, corposi interessi materiali. Se da un lato la “giusta retribuzione” decisa “per decreto” indubbiamente potrebbe avere la sua fonte di legittimazione costituzionale negli art. 2, 3 e 36 della Costituzione, per altro verso va ad interferire con l’autonomia privata e la libertà contrattuale, anch’essi risalenti a principi fondamentali dell’ordinamento, che è pur sempre un ordinamento che offre ampia tutela all’impresa e alle sue prerogative (art. 41 Costituzione). Da qui anche la duplice linea interpretativa presente nella dottrina italiana, che vede nella retribuzione sì un diritto fondamentale del lavoratore secondo i dettami dell’art. 36 Cost. (Zoppoli 1991; Pascucci, 2019), ma inquadra al tempo stesso il salario nell’ambito del diritto di credito a fronte di una prestazione lavorativa resa in forza dell’obbligazione contrattuale, che ne è il fondamento, con tutte le conseguenze che ne derivano sul piano anche applicativo, ammettendosi, per questa ragione, la sua disponibilità da parte del titolare del diritto (sia pure con le garanzie previste dall’art. 2113 c.c.) (Mazzotta, 2017). La norma costituzionale, se riletta sotto questa luce, riflette dunque un compromesso fra libertà ed uguaglianza, fra stato e mercato, uni bilanciamento (nelle condizioni storiche e politiche date) fra dovere di solidarietà e libertà economica (per alcune osservazioni in proposito, in modo realistico, Pascucci 2019). Quando si parla di rapporto salariale, la difesa della società, direbbe Karl Polanyi, non è ancora così forte da paralizzare completamente la legge del mercato.
8. In effetti, uno dei tanti problemi che nascono dalla natura contrattuale del rapporto di lavoro è come la funzione sociale del salario, protetta dall’art. 36 della Costituzione penetra nel sinallagma contrattuale. E’ il problema a cui Lorenzo Zoppoli ha cercato di dare una risposta teorizzando una sorta di corrispettività “derogatoria”, ulteriore prova della peculiarità del sinallagma che caratterizza l’obbligazione lavorativa, in cui è coinvolta la persona del lavoratore, irriducibile al negozio di diritto privato (Del Punta, 1992). Difatti, se la proporzionalità può dirsi intimamente correlata al rapporto di scambio generato dal contratto proprio per la sua funzione definitoria del valore mercantile del lavoro, e veste dunque i panni dell’obbligazione “corrispettiva” del datore di lavoro, non altrettanto può dirsi del criterio-valore della sufficienza, avulso dal rapporto di scambio e rispondente, più che all’interesse per così dire “privato” del contraente debole, ad un interesse sovra-individuale, di carattere generale che, quindi, si può qualificare esattamente come “obbligazione sociale” (Zoppoli L., 1991). Naturalmente, con questo non si intende scindere i due aspetti della disposizione costituzionale che, come si è notato, sono invece “simbiotici” e vanno insieme, legati l’un con l’altro nell’applicazione pratica del dispositivo costituzionale (Pascucci, 2019). Del resto, la natura di obbligazione corrispettiva, se riflette il valore del lavoro in senso economicistico, non implica che il giudice non possa intervenire per modificare il parametro retributivo, in base ad una valutazione che riecheggia, a ben pensare, l’istituto civilistico della “eccessiva onerosità”, consentendo per questa via al giudice di incidere sul sinallagma contrattuale. Non si vede per quale ragione, in definitiva, il giudice non possa sindacare la proporzionalità della retribuzione, sia sul piano del contratto individuale ma anche collettivo. Se l’art. 36 è norma inderogabile, lo è nel suo duplice “comando” alle parti private ed al legislatore, senza poter arrestare l’operatività dell’uno dall’altro quanto al potere di sindacato del giudice. In questo caso, la valutazione è eminentemente comparativa ed avviene in base a criteri molto concreti, ossia alla qualità e quantità del lavoro materialmente prestato dal singolo lavoratore. Non a caso, come nota Pascucci, nella dottrina civilistica più evoluta la proporzionalità è considerata come un dato immanente dell’ordinamento in materia contrattuale (Pascucci 2019 e qui i riferimenti a Rodotà 1969 e Perlingieri 2017; in senso contrario, sembra, Carabelli, 2023). Diversamente dalla individuazione della sufficienza retributiva, che è del tutto estranea alla prestazione dedotta in contratto, riferibile piuttosto alla condizione del lavoratore quale cittadino o, per meglio dire, quale “ente generico”.
Non c’è dunque critica più radicale alla legge di mercato dell’intervento eteronomo sul salario attraverso l’usbergo della sufficienza, indicando, in modo certo vago ma nel suo significato storico e politico molto preciso, che il rapporto salariale è sempre in una certa misura, più o meno ampia, una “variabile indipendente”. Vuol dire derogare al rapporto di equivalenza fra salario e valore: Polanyi lo considerava un effetto derivante dalla natura fittizia del lavoro come merce (al pari della terra e del denaro). Ragion per cui la sufficienza, se evoca per sua stessa natura la “difesa della società”, esige il ruolo del “terzo”, ma è proprio questo ruolo che il legislatore statale rifiuta di adempiere e viene assicurato oggi, non si sa quanto ancora temporaneamente, dallo “Stato giurisdizionale”. Insomma, per quanto si voglia dire che la giurisprudenza svolge un ruolo importante essenzialmente nell’impedire l’ineffettività diffusa dei minimi contrattuali, resta ancora aperto, come ha osservato Bavaro, insieme alla indicazione del valore economico, anche il problema della individuazione del soggetto giuridico a cui attribuire il potere di “autorità salariale” (Bavaro, 2023).
In effetti, la critica di Roccella – e prima di lui di Pera - alla soluzione in via giurisprudenziale al problema dei salari poveri mi sembra ancora oggi attuale e da apprezzare, ed è corretta anche l’osservazione di chi ha notato che nell’applicazione in via giurisprudenziale dell’art. 36 c’è quasi una sovrapposizione della proporzionalità alla sufficienza, quest’ultima vista come mero correttivo della prima (Zoli, 2022), con un ribasso ingiustificato rispetto alla paga prevista dai contratti di categoria, con orientamenti, si ripete, inevitabilmente “soggettivistici”. Laddove sarebbe forse più appropriato, come nota Pascucci, “parlare di retribuzione minima, peraltro tanto proporzionata quanto sufficiente” rispettosa del principio di uguaglianza fra lavoratori che svolgono la stessa attività (Pascucci, 2019).
Naturalmente, data la non attuazione costituzionale degli artt. 36 e 39 della Costituzione, questa pur ambigua linea interpretativa ha impedito l’anarchia del mercato, mancando parametri standardizzati di riferimento che possono pervenire solo dalla legge o dall’estensione erga omnes dei contratti collettivi. Ma è difficilmente contestabile che in tal modo, come notò a suo tempo acutamente Treu, si “aggiunge anomalia ad anomalia”, essendo il giudice di fatto privo di vincoli nella definizione del “salario costituzionale” (Treu, 1980), non dovendo rispondere se non alla propria scienza e coscienza. Insomma ancora attuale è la critica al nostro sistema per il modo in cui assicura la tutela salariale della classe lavoratrice, poiché in realtà essa “non rispecchia né le esigenze di certezza del diritto e dei rapporti economici, né quelle di un’economia di massa, dove il salario tende, nelle sue grandi linee, verso valori standard” (ancora Treu, 1980).
Tuttavia, se in passato la giurisprudenza è stata influenzata dalla retorica pauperistica presente da sempre nell’ideologia borghese, oggi la Cassazione sembra indicare l’esigenza di un approccio scientifico, creando così degli argini più saldi per il ragionamento giuridico. Resta però aperto il problema della precisa distinzione della sufficienza rispetto al parametro della proporzionalità, che a mio avviso è la grande questione affrontata dai giudici della Cassazione nelle sentenze di ottobre 2023.
9. Veniamo ora alla seconda domanda che ci eravamo posti. In realtà, quando si fa riferimento alla sufficienza come garanzia di sussistenza e, quindi, alla possibilità per tutti i lavoratori di accedere ad un certo paniere di beni non solo materiali ma anche “immateriali”, non finalizzati alla mera riproduzione, e si indica, come fa giustamente la Cassazione, l’esigenza di riconoscere a chi lavora “quel qualcosa in più” necessario, indubbiamente si evoca il grande tema del salario come rapporto staccato dal controvalore economico della prestazione lavorativa. Si potrebbe richiamare a questo proposito lo studio di una filosofa ungherese, Agnes Heller, che sostiene una cosa importante e cioè che il salario, che rappresenta il valore della forza lavoro come merce, viene determinato in ultima analisi in funzione dei bisogni (Heller, 1977). E non potrebbe che essere così, com’era del resto molto chiaro già a Polanyi, il quale, nella sua analisi sulla genesi del capitalismo, osservò causticamente (ed ironicamente) come finanche la ferrea legge dei salari di Ricardo contenesse una sorta di “clausola di salvataggio” secondo la quale “quanto più elevate erano le necessità abituali di una classe lavoratrice, tanto più alto era il livello di sussistenza al di sotto del quale neanche la stessa legge ferrea poteva abbassare il salario” (Polanyi, 1974). Questo approccio ci invita ad uscire da una visione economicista del salario per comprenderne tutto il carattere politico-giuridico. La totalità dei bisogni per la mera sopravvivenza, sostiene questa studiosa, rappresenta il limite inferiore, a cui si affiancano quelli che possono essere considerati come i “bisogni di sviluppo” della classe subordinata. Entrambi sono storicamente determinati e fissati in relazione al posto occupato all’interno della divisione del lavoro, che a sua volta determina la struttura dei bisogni o almeno i suoi limiti (Heller 1977, 24-25). La decisione sul livello minimo inderogabile del salario è dunque politica e si basa su valutazione essenzialmente extra-economica. I bisogni sono infatti categorie storico-filosofiche, categorie di valore non passibili di definizione all’interno del sistema economico. La classificazione storico-filosofica-antropologica distingue fra “bisogni naturali” (ossia bisogni fisici o biologici per il mero sostentamento) e bisogni “socialmente determinati”, ma sono tutti bisogni “necessari”, mentre è fuorviante la distinzione fra beni materiali e beni immateriali ed ancor più creare una gerarchia dei bisogni. Del resto la stessa società capitalistica lo impedisce: come scrive Agnes Heller, essa “spinge il lavoro oltre i limiti dei suoi bisogni naturali e in tal modo crea gli elementi materiali per lo sviluppo di una individualità ricca e dotata di aspirazioni universali nella produzione come nel consumo”: quindi nulla consente, come in scelte legislative molto recenti, di sindacare legittimamente l’utilizzo del reddito per il soddisfacimento di alcuni bisogni o di altri. Si può dire, in sintesi, che il valore del lavoro contiene un elemento storico e morale. Ciò che caratterizza la nostra società, riprendendo Marx, è l’arretramento dei limiti naturali, il sorgere di nuovi bisogni in rapporto alla sua fase di sviluppo, in cui l’elemento culturale è decisivo.
Sono dunque i bisogni (materiali ed immateriali) ritenuti essenziali in un determinato contesto storico e sociale che designano il limite del “salario sufficiente”. Se vogliamo portare fino in fondo la critica per così dire “filosofica” alla società contemporanea dell’art. 36 della Costituzione, bisogna dire che una delle maggiori contraddizioni è proprio come i rapporti sociali limitano l’arricchimento dei bisogni, che pure sono una loro creazione. Come ha osservato Agnes Heller, se da un lato il capitalismo produce bisogni molteplici e ricchi dall’altro “fa impoverire gli uomini e rende così il lavoratore privo di bisogni” (Heller, 51). L’art. 36 della Costituzione, indicando l’obbligo della società di assicurare un salario sufficiente ad assicurare una vita libera e dignitosa per tutti i lavoratori, delinea un raggio di operatività esteso ed indeterminato, correggendo la dinamica tipica del mercato che si basa sulla domanda e sull’offerta in base a valori extra-economici di dignità e libertà che, naturalmente, sono anch’essi storicamente determinati. Un’altra caratteristica dei bisogni è infatti che essi possono aumentare all’infinito. Per questo la sufficienza come criterio di individuazione del minimo retributivo è così difficile da quantificare, trattandosi dell’equivalente monetario di un certo standard sociale che non è dotato di fissità e non è definibile in modo aprioristico. Solo il legislatore, a ben vedere, può farlo, per il potere che possiede di determinare ciò che non è determinabile, di quantificare ciò che non è quantificabile. Per questo la tendenza di tutti i paesi democratici avanzati è dotarsi del salario minimo legale, è molto semplice. Tuttavia, com’è noto, il tentativo di stabilire un valore standard universale in via eteronoma è stato respinto, almeno a breve termine. Come ha notato Lo Faro (Lo Faro, 2024) alla base di questa scelta c’è forse la convinzione della non correlazione fra la condizione di povertà ed i salari insufficienti (o “poveri”). E’ chiaramente un errore, ma che in modo distorto tocca un problema reale, poiché nella società post-fordista, per diverse ragioni, il salario coincide sempre meno con il reddito – come sostengono molti economisti, come Tronti, “il declino della quota del lavoro dipendente nel reddito a partire dalla metà degli anni ’70 è un fenomeno globale” (v. Tronti-Ricci, 2019) - e la relazione salariale diventa solo una delle fonti da cui la classe subordinata trae la possibilità di soddisfare i propri bisogni, anche se, naturalmente, continua a definire in diversi settori e per tanti lavoratori i termini del rapporto negoziale.
L’emergere così radicale della povertà lavorativa e salariale che si registra in tutto l’Occidente (il crollo della classe media è fenomeno da tempo indagato dagli studiosi di diverse discipline), non è spiegabile in termini puramente congiunturali ed evoca la crisi della stessa relazione salariale, che può essere riguardata da diversi punti di vista, come spostamento del potere d’acquisto dei lavoratori dalla sfera del rapporto lavorativo a quella dell’auto-finanziamento e del debito, dalla produzione al consumo, dal tempo di lavoro al tempo libero, ed altro ancora (su queste trasformazioni, fra gli altri, v. recentemente Fornari 2024). Molteplici sono ovviamente le determinanti di questa crisi, che nei prossimi paragrafi si cercherà di individuare almeno schematicamente, con un’approssimativa ricognizione dei suoi avamposti giuridici nel diritto del lavoro.
10. Non c’è bisogno probabilmente di entrare in una discussione che peraltro sarebbe troppo ampia sulle caratteristiche della cosiddetta new economy - definita in vario modo, come platform capitalism, cognitive capitalism, cyber capitalism ed altro - che si colloca al di fuori del lavoro salariato, con il tramonto dei luoghi classici di concentrazione della forza lavoro, la fine della produzione di massa e il general intellect che si fa elemento centrale (fra gli altri, su questi problemi, v. Fumagalli-Giuliani-Lucarelli-Vercellone 2020). Il capitalismo fordista implicava un’omogeneità spaziale, temporale e soggettiva fondata sul lavoro salariato e sulla successione rigida delle sue fasi (formazione-apprendistato-lavoro-pensione), ma questo modello di società è oramai scomparso (Grossi, 2023). Come si ripete oramai da tempo, nella nuova divisione del lavoro la macchina capitalistica si trasforma e diventa– si può dire – immateriale, informazionale, parafrasando Sraffa “produzione di conoscenza a mezzo di conoscenza”, che pure convivono con un utilizzo delle piattaforme in connessione con una prestazione che mantiene i caratteri di attività materiale di trasformazione o produzione di servizi in senso fisico e personale, al di fuori della rete. Naturalmente, ci sono differenze, che tuttavia tendono a ridursi con il “salto” tecnologico, destrutturando anche la vecchia attività manuale e intellettuale che non si svolge su piattaforma, rendendola sempre più informazionale o robotizzata, sempre più estranea al carattere tipico della subordinazione., sempre più ibrida e inclassificabile (su tali questioni v. di recente Giubboni, 2023). Si può dare come acquisita l’esplosione del rapporto salariale come forza motrice della creazione di valore, la sua perdita di centralità, con l’emergere di relazioni de-salarizzate, che si strutturano in base a diversi principi di negoziazione.
Nel ciclo fordista il lavoro dipendente - con contratti a lunga scadenza e con standard di trattamento predeterminati - rappresentava l’agente fondamentale del processo di accumulazione, e, come sottolinea Castel, lo statuto del salariato era “il principale dispensatore di redditi e protezioni” (Castel, 2019); diversamente, nel capitalismo cognitivo, nella platform economy, lavoro e valore tendono a divaricarsi e non coincidono più sul piano salariale (Marazzi, 2022). La produzione di valore avviene oggi estraendola direttamente dalla soggettività umana, senza passare necessariamente attraverso le convenzioni salariali, o attraverso il lavoro discontinuo, precario o finanche in forma autonoma, addirittura attraverso modalità di lavoro gratuito e semi-gratuito. A ciò si aggiunga la robusta riduzione del lavoro necessario grazie a continue iniezioni di nuove tecnologie (robotiche e non), all’informatizzazione del lavoro attraverso i sistemi di intelligenza artificiale ed ai processi guidati da algoritmi, che sostituiscono il lavoro umano in diversi settori e in molte funzioni, con un aumento esponenziale di produttività. Il lavoro è tuttavia pagato ancora per le ore di lavoro prestato e non per il suo valore, ad onta del principio di corrispettività del salario, che diviene sempre più una mera astrazione. Il divario è del resto accertato da diversi studi economici ed è generalmente ammesso che l’aumento delle retribuzioni è inferiore alla produttività del lavoro (Tronti, 2019). L’ILO ha accertato, attraverso studi accurati, che a livello globale fra il 1999 e il 2015 la crescita della produttività ha sopravanzato quella dei redditi da lavoro di 10 punti percentuali (ILO, 2016). Tutti gli studi affermano da tempo che la globalizzazione ha comportato un’accelerazione della produttività oltre la dinamica salariale (IMF, 2017; Tronti, 2019) e una delle ragioni, anzi la ragione principale, è data dall’innovazione tecnologica e dall’informatizzazione (IMF, 2017; Acemoglu e Restrepo, 2016).
Si assiste così ad una progressiva perdita di cogenza del rapporto salariale nelle transizioni di valore fra lavoro e capitale, in cui diventa centrale l’adesione alle nuove posture sociali neoliberali, ampliandosi l’area del lavoro declassificato o “autonomo”, sganciato dal tempo di lavoro e dalle misure di valore corrispondenti. La produzione di valore si svolge al di fuori della relazione salariale, la funzione del salario ovviamente non sparisce ma non svolge più il ruolo di mediazione sociale necessario dei rapporti di produzione del vecchio capitalismo. Le forme di remunerazione assumono altre caratteristiche, finanche di carattere non monetario, tanto da parlarsi di “economia della promessa” in cui la gratuità diventa passaggio obbligato del percorso del lavoratore precario (v. AA.VV. 2015, e qui, fra gli altri, Colombo, Allegri, Bronzini, Bascetta, Ciccarelli). Il rapporto salariale viene sottoposto ad una torsione rispetto ai tradizionali paradigmi del sistema salariale fordista, con una ridefinizione anche dei criteri di misurazione del salario, collegati direttamente alla produttività e con importanti innovazioni, come ad esempio la possibilità di compensare la sua riduzione attraverso “premi” che dipendono in ultima analisi dalla gestione finanziaria dell’impresa.
Qual è dunque la sorte del rapporto salariale? La definizione del rapporto salariale, soprattutto nel periodo fordista, ha richiesto una varietà di dispositivi giuridici, organizzativi e istituzionali che permettevano di governarlo, ma a partire dagli anni Ottanta il rapporto salariale è stato oggetto di cambiamenti radicali. In realtà, come osservano alcuni studiosi, il modo in cui il capitalismo delle piattaforme sembra riuscire ad aumentare la produttività (oltre che riducendo il lavoro necessario grazie alle nuove tecnologie) è forse proprio di uscire dal rapporto salariale, appropriandosi di una serie di attività apparentemente estranee all’area del lavoro propriamente detto e realizzando un aumento formidabile del volume di produzione di valore extra-salariale ed extra-contrattuale. Non è un fenomeno marginale, anzi è diffuso e variegato ma invisibile, tanto da essere molto sottostimato, mancando, come ha notato Loredana Zappalà, “la percezione del proprio status occupazionale da parte dei soggetti interessati che, pur svolgendo un’attività di lavoro mediata da internet, tendono a non considerarla un vero e proprio lavoro”, sentendosi piuttosto inseriti in altri ruoli sociali (studente, casalinga, disoccupato, ecc.) (Zappalà 2024). Il capitalismo ottiene così una mobilitazione ed una partecipazione attiva dell’insieme delle conoscenze e dei tempi di vita dei lavoratori, salariati e non, nelle forme più diverse, estraendo valore dal “non-lavoro”, in cui la relazione salariale scompare.
11. Per approfondire questi aspetti, che sanciscono la fine del salario quale momento centrale del rapporto lavoro-capitale, si potrebbe evocare il ruolo delle donne nella produzione di valore, legato alla duplice obbligazione di lavorare all’interno della produzione e di fare di sé e del proprio corpo uno strumento di riproduzione. Ne discute recentemente una giuslavorista catanese, Maria Grazia Militello, che richiama la critica delle giuriste femministe nei confronti di un modello di società in cui tutte le attività e relazioni di cura, educative e domestiche, sono state storicamente considerate estranee alla sfera del lavoro ma che, a ben vedere, sono forme di “lavoro gratuito” (Militello 2024): concepite come impegno naturale delle donne per ragioni affettive e sentimentali, ma che ad un’analisi più profonda appaiono, non diversamente dal lavoro propriamente detto, come un contributo essenziale al processo di valorizzazione, anzi una “inestimabile fonte di produzione di valore”, basata, secondo alcune giuriste femministe, su una mistificazione, “..the dichotomy of unpaid vs. paid work, as well as that of family vs. market” sottolineando come “the distinction between paid and unpaid labour…is not natural or inevitable but constructed and correspondent with the particular configuration of social and work relations which emerged with industrial capitalism” (Conaghan, 2018). Una delle ragioni per cui la dimensione di genere nella povertà lavorativa è così importante sta proprio nel rifiuto di riconoscere la natura produttiva reale del lavoro delle donne svolto al di fuori della fabbrica e della relazione salariale, a cui non si attribuisce alcun valore in senso economico o salariale. La condizione di sfruttamento femminile e la povertà lavorativa delle donne (a causa soprattutto dei contratti con meno ore e con retribuzione inferiore) è la derivante di tale impostura ideologica, da cui deriva che il lavoro delle donne è per così dire “assorbito” nella famiglia, ossia reso gratuitamente. Basti pensare ai contratti part-time dove la sproporzione fra donne e uomini è abissale (3 a 1, secondo i dati europei) ed alla presenza in maggioranza delle donne fra i lavoratori con redditi fino a 15.000 euro (70 a 30), che si riflette sulla relazione salariale, creando una povertà lavorativa a cui corrisponde una segregazione di genere (sulla discriminazione di genere in materia retributiva, v. fra i tanti Marchi, 2022). Del resto la stessa direttiva 2022/2041 dimostra una consapevolezza in tal senso, visto che nel Considerando 10 afferma esplicitamente che i salari minimi devono essere considerati come “contributo anche alla parità di genere”.
Ma naturalmente non sono solo le donne ad essere segregate nel mercato del lavoro, se si considera la condizione di stranieri e migranti - il 30% delle famiglie composte di soli stranieri è in condizioni di povertà assoluta - si può parlare senza meno di segmentazione etnica del mercato del lavoro che si aggiunge alla segregazione di genere ed alla segregazione giovanile nell’area del lavoro precario, in cui il rapporto salariale è messo in discussione per altre ragioni (su questi problemi Lassandari, 2022; per un lavoro di analisi ancora più recente Caruso, 2024).
Come hanno notato alcuni studiosi, con la crisi del vecchio modello fordista e industrialista il lavoro invisibile e non riconosciuto, il lavoro gratuito o semi-gratuito, “è uscito dalla dinamica domestica affermandosi con prepotenza all’intero sistema economico”. Si è già fatto un cenno in precedenza a questi problemi: proprio nei processi di digitalizzazione e frammentazione del lavoro si insinuano le più svariate forme di relazioni lavorative post-salariali, estendendosi “l’appropriazione gratuita da parte dell’economia di competenze maturate in ambito extra-lavorativo”. Si spezza, in modo sempre più netto, il rapporto fra occupazione e salario, fra tempo libero e tempo di lavoro, fra lavoro e non-lavoro, anche se il paradigma del lavoro salariato resta ancora, paradossalmente, il modello centrale politico-giuridico. Se da un lato il lavoro non garantisce più un’occupazione stabile e adeguatamente retribuita, dall’altro la produzione di valore tracima al di fuori del lavoro ed invade il tempo “libero” e la sfera del “non-lavoro”, tanto da potersi parlare effettivamente di “lavoro gratuito” insinuatosi in tutta la dimensione esistenziale e basato sull’appropriazione dei dati e delle informazioni, come sostiene la ricerca di Shoshana Zuboff, che non è un processo molto diverso da ciò che accade nella produzione materiale, se le informazioni sono la “nuova merce” del capitalismo digitale (Zuboff, 2023).
Di fatto, la creazione di valore si trasferisce dall’uomo alla macchina algoritmica, tanto da ridurre il valore del lavoro umano, che quasi tende a scomparire, anche a un livello simbolico (Benasayag, 2020). Ma il punto cruciale pare essere non tanto l’assorbimento da parte delle macchine delle funzioni e delle prestazioni svolte dal lavoratore, quanto il cambiamento che riguarda le fonti del valore, ossia la disconnessione, come ha chiarito Castel, della produzione di valore dal lavoro (Castel, 2015). L’estrazione di valore avviene oggi, grazie alla connessione quasi permanente in rete, sia nel tempo di lavoro che durante il tempo di non lavoro, direttamente “dagli atti della vita quotidiana”, in cui la relazione salariale sparisce insieme al lavoro che ne è il suo antecedente causale.
La produzione capitalistica si estende al consumo e al tempo libero, fino a trasformare in tempo di lavoro qualsiasi ritaglio di tempo vitale. Da qui il passaggio, sottolineato da Christian Marazzi, di quote sempre più consistenti di attività lavorativa dalla sfera della produzione (dove veniva assicurata dal lavoro salariato) alla sfera del consumo, in cui si forma la nuova figura del “lavoratore inconsapevole” (Marazzi, 1998). L’estrazione di valore si estende a tutti gli ambiti della vita, è la vita stessa a essere messa al lavoro. Se l’estrazione di valore avviene dalla “folla indistinta”, se una nuova economia politica permette di creare occupazione (la c.d. gig economy) al di fuori del rapporto lavorativo, se la cessione gratuita e inconsapevole di dati e informazioni diventa centrale nella produzione di valore, non ha tutti i torti chi parla, almeno nei settori più avanzati, di tendenziale annientamento della relazione salariale. La stessa fascia dei lavoratori marginali che costituiscono l’esercito dei woorkig poors può dirsi a suo modo avvinta da una condizione di quasi-gratuità del lavoro, nella misura in cui il differenziale rispetto al salario adeguato rappresenta una quota di lavoro non pagato. Non dimenticando che anche nel lavoro salariato si assiste ad un incunearsi di lavoro non riconosciuto, semi-gratuito o finanche gratuito praticamente ovunque, sotto varie forme, dallo sconfinamento del lavoro oltre i tempi dettati dagli obblighi contrattuali formali all’insinuarsi delle nuove tecnologie fra tempo di lavoro e non-lavoro, distogliendo il lavoratore dalle sue attività extra-lavorative per rimetterlo all’interno dell’impegno lavorativo senza contropartita retributiva.
Il lavoro tramite piattaforme, lungi dal rappresentare l’irenica liberazione dal lavoro propugnata dai teorici della “fine del lavoro”, diventa uno dei vettori più efficaci di destrutturazione della relazione salariale e zona di maggiore evidenza della “povertà nonostante il lavoro” (Zappalà 2024). Dove, non a caso, viene messa in discussione in modo ancora più radicale la stessa idoneità della fattispecie di lavoro subordinato a ottenere una corretta imputazione del rapporto salariale.
Il tema che si pone oggi è quindi il recupero e la ricostruzione di un corretto rapporto di corrispettività fra la gigantesca area del lavoro umano che concorre alla produzione di valore, solo in parte inserito in una relazione salariale, e il gigantesco meccanismo sociale ed economico che se ne appropria e lo governa. Il reddito di base garantito - aspirazione da secoli al diritto di vivere - oggi va inteso non solo (o non tanto) come misura in grado di attenuare le condizioni di miseria ed indigenza prodotte dai meccanismi di sviluppo diseguale, ma come contropartita della produzione di valore al di fuori dei canoni giuslavoristi tradizionali che si nasconde nel non-lavoro, dissolvendo i luoghi di lavoro e il perimetro tradizionale dell’orario lavorativo, come risposta in definitiva alla crisi della civiltà del lavoro, forse l’unica strada per recuperare nelle nuove condizioni storico-sociali i principi fondamentali dell’art. 36 della Costituzione.
12. Quando si discute di salari poveri non si può prescindere, come si è detto, dalla crisi strutturale della relazione salariale, vale a dire della sua sostanziale rarefazione come elemento centrale della sussunzione del lavoro nel processo di valorizzazione. Non dimentichiamo che fino alla seconda metà degli anni ottanta la relazione salariale era garantita come vera e propria istituzione del mercato del lavoro, caratterizzandosi per alcune specifiche proprietà: il collegamento all’anzianità, alla qualificazione professionale, al tempo di lavoro, alla produttività aziendale. Inoltre, la relazione salariale identificava (senza residui, si può dire) il reddito derivante dalla prestazione di lavoro della classe subordinata, non essendo concepito nessun modulo negoziale alternativo fino all’apparizione delle nuove forme di lavoro autonomo di “seconda generazione”. Reddito uguale salario: l’equazione tipica del processo di estrazione di valore nella società fordista. Queste caratteristiche basiche sono cambiate radicalmente, venendo meno la stessa funzione del salario (e quindi anche il suo correlato principio costituzionale di proporzionalità e sufficienza) come garanzia assicurativa-reddituale della classe subordinata.
Che questo cambiamento di fondo possa dirsi una delle cause della povertà “nonostante il lavoro” mi sembra una delle poche certezze in un’epoca di incertezze. Del resto, la ricerca dimostra che proprio il lavoro atipico e precario è un incubatore del lavoro povero non solo in Italia ma anche a livello europeo (Ratti e altri 2024) dove si stima che una percentuale pari all’8,5% della popolazione in età di lavoro è a rischio povertà (dati EU-SILC).
Disvelando il rapporto fra precarietà e salari insufficienti viene alla luce in modo chiaro il contributo del diritto del lavoro alla produzione di condizioni di povertà lavorativa. I salari poveri non sono soltanto l’altra faccia della congiuntura economica, della globalizzazione dei mercati e della nuova forma del lavoro, ma anche l’esito della scelta politica e giuridica delle classi di governo europee ed italiane.
In linea di sintesi possono individuarsi almeno quattro diversi piani o settori in cui la precarizzazione dei rapporti di lavoro ha creato altrettante condizioni da cui nascono “salari poveri”.
Il primo terreno elettivo è sicuramente la temporaneità e la discontinuità dell’impiego, che ha spezzato il collegamento del salario con l’anzianità e con la carriera, insieme alla riduzione del tempo di lavoro, di cui si dirà. Come ha osservato Carlo Zoli, “una sempre più elevata quota di lavoratori, da un lato, svolge mansioni semplici e ripetitive; dall’altro, è impiegata, specie nel terziario, in attività più discontinue, maggiormente spezzettate in fasce orarie ridotte, con aumento del part-time involontario e dei contratti a termine, quindi con una maggiore precarietà ed una complessiva riduzione delle ore lavorate” (Zoli, 2022). Del resto anche i dati raccolti dai sociologi registrano un costante decremento delle ore lavorate e si calcola una diminuzione del 7,9%, secondo l’Istat, delle ore di lavoro per dipendente negli ultimi venti anni, il che vuol dire 133 ore in meno all’anno per dipendente (Staglianò, 2024). Secondo Leonello Tronti, la povertà lavorativa dipende in modo rilevante da tale diminuzione, poiché, visto il rifiuto ad un drastico taglio dell’orario di lavoro a parità di salario, alla riduzione del monte orario corrisponde una quota retributiva complessiva più bassa e quindi un diminuito potere d’acquisto dei lavoratori salariati (Tronti, 2019). Questo fenomeno, dovuto all’aumento di produttività, non ha incontrato finora risposte appropriate e si riverbera direttamente sul rapporto di lavoro con una riduzione notevole del lavoro a tempo indeterminato e full-time a fronte dell’aumento esponenziale dei contratti a termine e part-time (spesso incrociati) anche quando essi sono “genuini” e non nascondono intenti elusivi.
La tutela salariale del lavoratore temporaneo, grazie alla direttiva 1999/70, ruota essenzialmente attorno al principio di non discriminazione, che non è in grado, tuttavia, di ricostituire il rapporto salariale in termini adeguati. Implica la parificazione retributiva al lavoratore comparabile, offrendo una tutela certamente importante ma in modo per così dire sincronico e contestuale, nel momento in cui le due posizioni sono, appunto, comparabili. Resta tuttavia la differenza di trattamento in prospettiva diacronica, non potendosi recuperare il bagaglio di esperienze lavorative del lavoratore temporaneo, i periodi di sotto-occupazione e dequalificazione professionale che fanno parte spesso del suo vissuto, oltre, naturalmente, ai vuoti fra un’assunzione e l’altra, che rendono discontinua anche la carriera professionale, impedendo il suo normale sviluppo salariale. Del resto è risaputo (ancorché spesso trascurato) che una retribuzione “parificata” al lavoratore comparabile non assicura uno stesso reddito, se proiettata su base annuale o pluriannuale, stante il ripetersi di periodi di assunzione per brevi periodi, che sono sempre più numerosi statisticamente. Il lavoratore precario resterà sempre avvinto in una relazione salariale più povera e ci sarà sempre qualcosa che non gli verrà riconosciuto, che lo discrimina rispetto all’altro lavoratore, trasformandosi in un profitto aggiuntivo ed immeritato del datore di lavoro, semplicemente come effetto della pluralità di rapporti intrattenuti con distinte persone giuridiche, nonostante l’identica condizione di salariato e l’identica disponibilità al lavoro. Il differenziale salariale che deriva dalla frammentazione giuridica di un’esperienza lavorativa unica cresce col tempo e dimostra, se pensiamo al lavoratore “collettivo”, cioè all’intera classe dei rapporti di lavoro nell’impresa, qual è l’interesse concreto, il plus-valore deducibile dal regime giuridico che consente una sequenza di rapporti di lavoro a tempo determinato (seppure con soggetti diversi). L’uguaglianza del trattamento economico fra lavoratore a termine e lavoratore comparabile nasconde quindi la disuguaglianza reale e, di fatto, un salario non pagato, nonostante il lodevole intento dell’accordo quadro CES, UNICE E CEEP del 18 marzo 1998, che istituì con la clausola 4 il principio antidiscriminatorio.
Anche il part-time può essere visto in un’ottica diversa. Nel mondo post-salariale la riduzione dell’orario di lavoro va considerata come uno dei fenomeni più importanti, intimamente collegato all’innovazione tecnologica del platform capitalism, che attraverso automazione, dispositivi elettronici, sistemi di intelligenza artificiale e processi basati su algoritmi assicura vertiginosi aumenti di produttività, riducendo il lavoro necessario (Grossi, 2023). In questi casi, il salario è povero perché si spezza l’equilibrio sinallagmatico ed il rapporto di corrispettività: il valore del lavoro, ossia il salario, non è rapportato proporzionalmente all’aumentata capacità produttiva che il lavoratore assicura al capitale privato con l’utilizzo di questi nuovi strumenti tecnologicamente avanzati: disarticolazione che assume caratteri parossistici in un paese come l’Italia che registra addirittura un decremento percentuale progressivo delle retribuzioni, secondo i dati OCSE. Non a caso, il part-time aumenta in modo poderoso nelle aree territoriali più sviluppate, fino a superare il 50% dei rapporti di lavoro in paesi come la Danimarca o i Paesi Bassi. L’incidenza dell’orario ridotto nasconde lavoro svolto in contesti di “produttività aumentata”, tanto da rendere attuale e legittima la domanda di riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di retribuzione, per riallineare il salario al valore del lavoro. Secondo i dati Istat 2022, in Italia ci sono oltre quattro milioni di lavoratori part-timer, di cui, pare, almeno la metà è da considerarsi involontario (fonte Il Sole 24 ore), percentuale che raggiunge l’80% nei lavori più dequalificati (dati Eurostat), ponendo problemi in parte uguali ed in parte diversi, per l’utilizzo frequente del lavoro a tempo parziale per finalità elusive. Va anche detto, a tal proposito, che la Relazione del gruppo di esperti sulla povertà del novembre 2021 ha evidenziato come il salario minimo legale, calcolato come retribuzione adeguata oraria, non sarebbe in grado di risolvere né il problema dei lavoratori discontinui né quello dei lavoratori part-timer. Anche da questo punto di vista si imporrebbero quindi riforme radicali in direzione di un ristabilito equilibrio nella distribuzione dei guadagni di produttività, assorbendo il plusvalore prodotto ed impedendo che esso finisca nella rendita e nella sfera non produttiva, contribuendo alla finanziarizzazione dell’economia.
Per proseguire questa illustrazione, si potrebbe discutere della problematica degli appalti e degli altri fenomeni (leciti) di intermediazione. Per chi lavora nei settori sottoposti a continui cambi di appalto, a prescindere dalle condizioni di sfruttamento in violazione degli obblighi legali e contrattuali, il salario diventa di fatto una variabile dipendente delle condizioni economiche imposte all’appaltatore, che tendono a scalare progressivamente nelle lunghe filiere di appalti e subappalti. La mancanza di drastici interventi legislativi di tutela, così come l’assenza di dispositivi legali che sanciscano la parità di trattamento lungo tutta la filiera, implica logicamente una precisa scelta di fondo, che vede la povertà lavorativa come problema secondario rispetto alla tutela delle imprese in questi settori. Solo recentemente, in verità, il legislatore è intervenuto con il d.l. n. 19 del 2 marzo 2024 stabilendo l’obbligo, per i dipendenti impiegati in appalti e subappalti, di un trattamento economico conforme a quello stabilito dai contratti collettivi sottoscritti dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale “applicato nel settore e per la zona strettamente connessi con l’attività oggetto dell’appalto e del subappalto” Ma, come si è notato, “vi è però una significativa differenza sul piano delle tutele rispetto alla parità di trattamento prevista nella catena degli appalti pubblici” (D’Oriano, 2024). Altrettanto può dirsi del problema determinato dai contratti di somministrazione, in cui il salario è dipendente dalle occasioni di lavoro, con contenuti contrattuali incerti destinati a concretizzarsi in base alle caratteristiche dell’azienda utilizzatrice ed alle sue richieste all’agenzia delle specifiche professionalità occorrenti.
In entrambi i casi resta, come unico dispositivo di tutela sul piano salariale, l’applicazione dell’art. 36 della Costituzione, di cui, come si è notato, la giurisprudenza fa largo utilizzo “disapplicando minimi tariffari applicati a soggetti dequalificati e sindacalmente deboli, tipicamente rinvenibili nell’ambito delle lavorazioni in appalto o subappalto” (Ricci, 2024). Fatto salvo il regime legale dei contratti pubblici (in cui il d. lgs. n. 50/2016 prevede l’applicazione del contratto leader, sia pure flessibilmente secondo la giurisprudenza amministrativa: v. ancora Ricci 2024), tornano qui i problemi già esaminati con riguardo all’individuazione del CCNL da applicare per allineare la retribuzione ai principi costituzionali di proporzionalità e sufficienza, previa disapplicazione della disciplina stabilita dalle parti (sul problema delle clausole sociali negli appalti pubblici v. E. Caruso, 2020).
Ma quando si discute di salari poveri non si dovrebbe mai dimenticare il lavoro irregolare, le relazioni salariali addirittura invisibili e inconoscibili, in cui la tendenza a diminuire il tasso di controllo sull’applicazione delle disposizioni di legge e contrattuali nell’economia reale, la debolezza degli apparati pubblici a ciò dedicati, mentre si registra la diffusione dell’economia illegale, rappersentano altrettanti fattori di destabilizzazione delle condizioni salariali della classe subalterna e di produzione di salari al di sotto, spesso, anche della soglia di povertà. Ma questo problema richiederebbe una riflessione specifica, che ovviamente qui non può essere neppure avviata.
Resta da capire, a questo punto, come ricostruire la condizione di corrispettività, senza tornare anacronisticamente al rapporto salariale “fordista” in una società oramai “post-salariale”. Il capitalismo post-fordista ha minato il rapporto salariale e la platform economy ne ha decretato la fine, per ragioni collegate alla natura stessa della prestazione richiesta al lavoratore digitale. La frammentazione tipologica, la temporaneità dell’impiego e le altre forme di lavoro precario contribuiscono anch’esse all’istituzione della società post-salariale. Il salario è sempre meno collegabile alla carriera, all’anzianità di servizio e alla acquisizione di professionalità ed è sovradeterminato da limitazioni temporali che non consentono lo sviluppo professionale, oppure svincolato completamente da fonti eteronome e liberamente pattuito nella fase genetica del contratto di lavoro (quanto il rapporto viene catalogato, talvolta con forzature, nel quadro del lavoro non subordinato). Si potrebbe dire, senza nessuna esagerazione, che in queste condizioni, se il lavoratore offre tutto se stesso alla produzione di valore, l’obbligazione retributiva che si esaurisce ancora alla vecchia maniera con il pagamento di un salario in ragione del tempo-orario di lavoro visibile, oramai riesce a mala pena ad assicurare la sopravvivenza per fasce sempre più ampie della classe lavoratrice, rimanendo non corrisposta quella quota di salario (quel “qualcosa in più” a cui allude la stessa Cassazione, dovuto in ragione del valore reale del lavoro) in grado di assicurare la sufficienza stabilita dall’art. 36 della Costituzione.
A ben pensare, nello sviluppo del capitalismo avanzato la prima lesione è proprio la proporzionalità del salario, il cui contributo alla produzione di valore non è ripagato, stante la forbice sempre più ampia fra lavoro riconosciuto e valorizzato ai fini del trattamento economico e lavoro invisibile, nascosto, precario, apporto sommerso ma reale alla produzione di valore. Una visione non individualistica, che tuttavia difficilmente ci si può attendere dalla giurisprudenza italiana, da sempre incardinata sul binomio individuo-diritto soggettivo, dovrebbe portare ad una consapevolezza del nuovo quadro di riferimento e ad un’applicazione dell’art. 36 della Costituzione non in modo atomistico ma assicurando un livello salariale minimo per tutti i lavoratori, subordinati e non, in funzione del loro uguale contributo al poderoso sviluppo della produttività del sistema economico. Naturalmente, come si è già sottolineato, questo sarebbe il compito del legislatore statale, perché in grado di operare una sintesi degli interessi particolari, ma purtroppo disatteso per una renitenza che ha un significato politico molto chiaro.
13. Altro rinvio, sempre in modo sintetico, deve farsi in conclusione al rapporto di lavoro autonomo, quarta ed ultima fattispecie qui esaminata in cui l’ordinamento non contrasta il lavoro povero. Del resto gli autonomi – numericamente una fascia importante del mercato del lavoro italiano, oltre 5 milioni su un totale di 23 milioni di lavoratori attivi (Staglianò, 2024) senza nessuna copertura contrattuale - sono una presenza costante nelle statistiche europee sul rischio di povertà lavorativa (v. Eurostat 2020) e non a caso cominciano ad intravedersi, dopo decenni di inerzia legislativa, alcune forme per quanto minimali di tutela (sul problema del rapporto fra autonomi e povertà lavorativa v. Alaimo 2024; Papa 2024). Sono anche in questo caso le fonti internazionaliste a sancire una tutela di base affermando la titolarità dei diritti collettivi per queste categorie di prestatori (v. ILO n. 98/1949), mentre, come è noto, il diritto dell’Unione Europea soffre un’interpretazione restrittiva della labour exemption da parte della CGE , assorbendo il lavoro autonomo nell’ambito della disciplina dell’impresa (su questi problemi, fra gli altri, Villa, 2022). Si esclude la violazione dell’art. 110 TFUE solo in caso di tariffe minime collettive per lavoratori “falsamente autonomi” , ossia per lavoratori che, pur assunti con contratti di lavoro non subordinato, svolgono la loro prestazione sotto la direzione tecnico-organizzativa del committente, non sono sottoposti al rischio commerciale e risultano funzionalmente integrati nell’attività imprenditoriale. Il criterio è dunque il medesimo che individua il lavoratore subordinato ai fini dell’applicazione del diritto dell’Unione europea (Giubboni, 2024). Sul problema della vulnerabilità degli autonomi sembra tuttavia esserci qualche ripensamento, come può evincersi dalle due pronunce della CGE nel caso JK, ove la Corte ha rilevato l’analogia fra licenziamento e recesso unilaterale di un contratto di lavoro autonomo. Ma già prima la Corte aveva ritenuto che un lavoratore autonomo cessato dalla sua attività involontariamente si trovasse in una “situazione di vulnerabilità paragonabile a quella di un lavoratore subordinato licenziato” , ritenendo ingiustificata la circostanza che, in ipotesi simili, il lavoratore autonomo non beneficiasse, per quanto riguarda il mantenimento del suo diritto di soggiorno, delle medesime tutele di un prestatore subordinato.
Nell’ordinamento europeo va sottolineata, da altro versante, l’assimilazione al lavoro subordinato delle figure lavorative che nel nostro ordinamento restano all’esterno dell’area protetta, secondo criteri solo recentemente corretti dall’art. 2 e dall’art. 47 e ss. del d. lgs. n. 81/2015. Bisognerebbe quindi riflettere attentamente sull’asimmetria fra l’ordinamento nazionale (che registra la crescita a dismisura del lavoro sottratto alla disciplina del lavoro subordinato attraverso le richiamate collaborazioni) e l’ordinamento europeo (che attrae queste figure nell’area del lavoro subordinato) (Giubboni 2024). Emblematica delle condizioni giuridiche che favoriscono la povertà lavorativa è l’attuale ambigua tutela del lavoro autonomo di “seconda generazione”, di cui da tempo si segnala la sua sostanziale affinità con la condizione tipica della classe subordinata, creando ostacoli in verità alquanto artificiosi all’integrazione di questo gruppo sociale, sempre più numeroso ed omogeneo, nell’ambito dell’area protetta.
Anche la tutela disposta dall’art. 2, I comma, del d.lgs. n. 81/2015 – che pure dimostra la volontà di assimilare almeno un sotto-gruppo di lavoratori autonomi alla condizione giuridica dei lavoratori dipendenti, applicando la disciplina del lavoro subordinato – è ipotecata dalla deroga prevista dal secondo comma, specialmente con riguardo all’ipotesi della lettera a) relativa ad un contratto collettivo preesistente, a cui il legislatore, senza particolari limiti, collega la possibilità di escludere l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato (in caso di contratti collettivi stipulati dalle associazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale se “prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore”).
Un punto di riflessione su questa disposizione è sulla sua conformità al diritto dell’Unione europea e in particolare alle direttive in materia di lavoro atipico (direttiva 1999/70, soprattutto). Se, infatti, si includono queste figure lavorative nella nozione eurounitaria di “lavoratore subordinato”, come sembra inevitabile, non è concepibile che le disposizioni di tutela dell’ordinamento comunitario possano essere disattivate dal diritto interno, come più volte ha sancito la stessa Corte di Giustizia europea (v. ad esempio la sentenza Del Cerro Alonso).
Insomma, se le recenti tendenze legislative segnalano un fenomeno di convergenza e “salarizzazione” del lavoro autonomo, che potrebbe indicare una tendenza ad unificare la tutela del lavoro personale reso per altri in nome, semmai, dell’universalismo delle tutele (Perulli-Treu, 2022), dall’altro lato questo passo in avanti viene imbrigliato ed ostacolato con capziose eccezioni, che ricreano “zone franche” soprattutto per i soggetti economicamente più forti ed attrezzati.
Resta poi il grande tabù dell’applicabilità dell’art. 36 della Costituzione a questa categoria di prestatori non subordinati, nonostante il contrario avviso di una parte dei giuslavoristi italiani, da parte della giurisprudenza nazionale, che ha sempre negato l’estensione dei principi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione agli autonomi coordinati e parasubordinati.
Esaminando questa giurisprudenza, le ragioni che impediscono l’applicazione alla classe dei lavoratori autonomi “sociologicamente subordinati” della medesima tutela costituzionale dei lavoratori subordinati appaiono, a ben vedere, meno solide di quanto si possa pensare alla luce della ferma e costante riproposizione di questo indirizzo interpretativo. Ed infatti, se si leggono le sentenze sull’inapplicabilità dell’art. 36 della Costituzione ai lavoratori parasubordinati, si scopre che tale esclusione rinvia, a ben vedere, ad un’interpretazione molto semplicistica della disposizione costituzionale, sempre riaffermata da oltre quarant’anni, secondo cui “il primo comma dell’art. 36 della Costituzione…riguarda esclusivamente il rapporto di lavoro subordinato, e non può essere invocato in tema di compenso per altre prestazioni lavorative, quali quella di lavoro autonomo oltre che di lavoro libero-professionale” , come sarebbe dimostrato, secondo questa tesi, dal fatto che anche i commi successivi “possono riferirsi unicamente al lavoro subordinato, vertendo in materia di orario di lavoro, riposi e ferie; e non smentita dalla estensione normativa di talune discipline tipiche del lavoro subordinato e categorie di lavoratori autonomi, né dalla applicabilità del rito del lavoro ai rapporti cosiddetti parasubordinati, trattandosi di estensioni eccezionali, come tali confermative della regola della generale inapplicabilità al lavoro autonomo di principi e discipline proprie di quello subordinato”.
Questo principio, basato su un’interpretazione sistematica, è stato successivamente sempre confermato e mai vagliato criticamente , ma mostra evidenti punti deboli ed appare in certa misura anacronistico. L’interpretazione in questione isola l’art. 36 della Costituzione dal sistema costituzionale e dalle altre disposizioni del titolo III della Costituzione, omettendo, in particolare, di considerare il principio della giusta retribuzione alla luce del primo comma dell’art. 35, secondo cui “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”: norma recentemente riconsiderata dalla dottrina per la sua portata di principio-guida anche sul piano interpretativo (Perulli-Treu, 2022). Questa vecchia giurisprudenza non sembra in verità considerare la “giusta retribuzione” – ancor più se intesa, in conformità alla giurisprudenza di legittimità , quale componente minima e intangibile all’interno della retribuzione complessiva (Pascucci, 2019; Cinelli, 1986) – per quel che rappresenta per la società nel suo complesso, svalutandone il significato (anche etico) con un’interpretazione ancorata alla vecchia concezione del lavoro nell’epoca fordista, in cui il lavoro subordinato coincideva con l’area del lavoro salariato e non sussistevano altre differenziazioni tipologiche oltre quella tipicamente “binaria” del codice del 1942 (lavoro subordinato-lavoro autonomo; art. 2094 – art. 2222 c.c.).
Sterilizzare la portata inclusiva della disposizione costituzionale, che dovrebbe essere invece principio universalistico fondamentale di una nuova “civiltà del lavoro”, appare contestabile oggi proprio sul piano logico-sistematico. Senza ripetere le considerazioni sulla crisi del lavoro, che pure dovrebbero avere la loro adeguata considerazione, il cambiamento qualitativo del lavoro autonomo e le riforme legislative degli ultimi anni, per non parlare degli indirizzi del diritto europeo e della stessa Corte di Giustizia europea, a cui si è già accennato, indirizzano verso un’interpretazione evolutiva della norma costituzionale.
Diventa, fra l’altro, sempre meno agevole tracciare una linea netta di demarcazione, così da non potersi più affermare con eguale nettezza che la disposizione costituzionale nel suo complesso rinvia al tipo (una volta) esclusivo e non può essere oggetto di altra interpretazione. Già l’art. 63 dlgs n. 276/2003 come novellato dalla legge 92/2012, poi abrogato, aveva stabilito che il compenso del collaboratore fosse proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro eseguito e non inferiore ai minimi stabiliti in modo specifico per ciascun settore di attività e in ogni caso determinato in base dei minimi salariali applicati nel medesimo settore alle mansioni equiparabili svolte da lavoratori subordinati, dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni comparativamente più rappresentative (oppure, in assenza di contrattazione applicabile, con riferimento alle retribuzioni minime previste dai ccnl applicati alle figure professionali analoghe).
Disposizione analoga è stata poi riproposta per i riders qualificati come “lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna ….. attraverso piattaforme anche digitali” (art. 47-bis DL n. 101/2019) per i quali si rinvia ai settori affini o equivalenti (e qui va segnalata una certa schizofrenia del legislatore italiano, che lascia al di fuori della tutela legale tutti gli altri lavoratori che operano su piattaforme).
Nei casi in cui il rapporto assume le caratteristiche delle collaborazioni coordinate, l’applicazione dell’art. 36 della Costituzione, che implica logicamente l’individuazione di una retribuzione mediante l’utilizzo in via parametrica di fonti collettive dei settori in cui essi operano, avrebbe l’effetto di eliminare ogni forma di discriminazione ingiustificata, anche fra diverse figure lavorative non subordinate: una misura quindi di giustificata razionalizzazione e contrasto a condizioni di sfruttamento lavorativo e discriminatorie.
Del resto il lavoro autonomo di “seconda generazione” non può dirsi neppure estraneo oggi alle tutele tipiche del lavoro subordinato e si ammette in diversi casi l’applicazione delle disposizioni limitatrici della durata della giornata lavorativa (art. 36, II comma), del diritto al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite (art. 36, III comma), diversamente da quanto poteva dirsi nell’epoca a cui risale la giurisprudenza in tema, a cui si è fatto cenno poc’anzi. Oltre a smentire la “giustificazione” data dalla prevalente giurisprudenza, è sempre più evidente l’irragionevolezza della distinzione di trattamento in materia di “giusta retribuzione”.
D’altra parte, se non ci si arresta ad una visione statica dell’ordinamento e si allarga lo sguardo al di fuori dei confini nazionali, altri argomenti inducono a mettere in discussione questa risalente interpretazione. Come si è già accennato, la nozione di lavoro subordinato elaborata dalla Corte di Giustizia non coincide con la nozione dell’ordinamento italiano, ancorata al vecchio criterio identificativo dell’art. 2094 c.c., ed estende la sua portata alla sfera dei rapporti di lavoro che il nostro ordinamento qualifica come “parasubordinati”. Emerge nella giurisprudenza della CGE , una nozione allargata di subordinazione che, come nota Giubboni, fa perno su “indici che potremmo chiamare di dipendenza organizzativa, non diversi, nella sostanza, da quelli nei quali, alla stregua dell’art. 2 del d. lgs. n. 81/2015, il legislatore italiano ravvisa, oggi, il requisito dell’etero-organizzazione”. Per cui, anche considerando questa asimmetria evidente, un riavvicinamento, quanto meno in materia di tutela dei diritti fondamentali, fra le discipline applicabile a questi diversi settori, pare sicuramente auspicabile anche in via interpretativa.
Sarebbe del resto un modo per recuperare ad una condizione lavorativa tutelata sotto il profilo salariale il settore in rapidissima evoluzione ed estensione del lavoro tramite piattaforme. Pur comprendendo le difficoltà di unificare fattispecie estremamente diversificate e frammentate, un passo in avanti della giurisprudenza per superare impedimenti di carattere pregiudiziale all’estensione delle tutele fondamentali è oggi possibile e necessario. Qualche spunto, come nota Caruso (Caruso 2024), lo si può ricavare invece dalla Corte di Giustizia europea, che ha ritenuto dirimente la funzione tipicamente imprenditoriale e produttiva e, quindi, di utilizzazione del lavoro altrui (vuoi come datore di lavoro, vuoi come committente nell’ambito di rapporti di natura non subordinata) da parte delle piattaforme. Nel caso Elite Taxi, (CGE 20/12/2017 C-434/15) la Corte ha, infatti, affermato come il ruolo di intermediazione svolto dalle piattaforme non può dirsi “neutro” ed anzi manifestando “il proprio predominio sul piano dei rapporti contrattuali” ed esercitando, di conseguenza, “ampie e penetranti prerogative giuridiche di organizzazione delle prestazioni”, va considerato a tutti gli effetti come datore di lavoro, con le responsabilità connesse.
Adottando un punto di vista aperto, più “sostanzialista”, non sembrano dunque mancare gli argomenti per elevare l’art. 36 della Costituzione a principio fondamentale per la tutela universalistica del lavoro, quale che sia la sua forma giuridico-contrattuale, pur con tutti i problemi applicativi che ciò comporta ma superabili, poiché qui sicuramente ci troveremmo di fronte ad un tipico overrruling (v. Condorelli-Presacco, 2018). Certo non sarà questa la panacea di tutti i mali, ma sicuramente rappresenterebbe un contrasto alla povertà lavorativa per una fascia importante della classe lavoratrice, esclusa dalle tutele per il mero inquadramento formale-contrattuale del rapporto, a fronte di prestazioni che è sempre più difficile distinguere dalle prestazioni in regime di subordinazione. Una “difesa della società”, direbbe Polanyi, dalla legge del mercato.