testo integrale con note e bibliografia

Il tema della povertà e della conseguente mancanza di dignità della persona umana chiama in causa, come ovvio, la questione salariale e quindi il lavoro non correttamente retribuito, ponendo i giuslavoristi di fronte ad una nuova e complessa sfida.
Il diritto del lavoro, infatti, intervenendo sui sistemi di compensazione delle prestazioni rese a favore di altri, può contribuire a risolvere la questione salariale e quindi fissare un tassello importante nella lotta alla povertà.
Se questo è ovvio, dev’essere però altrettanto chiaro che il diritto del lavoro deve muoversi entro il perimetro che la Costituzione assegna all’art. 36, quello, cioè, di prescrivere una retribuzione proporzionata e sufficiente .
Sono queste le direttrici fondamentali entro le quali deve muoversi l’approccio del giuslavorista al tema.
Su questa endiadi, sufficienza e proporzionalità, si è discusso a lungo e non è questa la sede per ripercorrere quel dibattito se non per ricordare che è pacifico che la proporzionalità rispetto alla qualità e quantità di lavoro svolto è e resta una dei requisiti essenziali della retribuzione, che inevitabilmente pone quell’obbligazione del datore di lavoro nel cono della corrispettività .
È noto che si tratta di una corrispettività allargata , ed anche sul punto non mi soffermo, ma per quanto sui generis la corrispettività è immanente alla retribuzione che altro non è che la prestazione cui è tenuto il datore di lavoro in quanto parte del rapporto di lavoro subordinato .
La nozione di proporzionalità/corrispettività, dunque, non può non tenere conto del concreto atteggiarsi del singolo rapporto di lavoro, innanzitutto quanto a tempo (quantità) e mansioni svolte (primo parametro di qualità).
A questi due fondamentali parametri della misura della proporzionalità/corrispettività si devono aggiungere altri elementi di misura che tengano in adeguato conto da una parte delle diverse modalità di organizzazione dell’attività in una specifica realtà produttiva nonché, dall’altra, delle altre prestazioni, diverse dagli elementi di retribuzione diretta, che a quel rapporto sono correlate.
È noto, infatti, che in aggiunta all’obbligo retributivo gravano sul datore di lavoro numerosi oneri che hanno, direttamente o indirettamente, ricadute economiche e che, in quanto correlati all’esistenza di un rapporto di lavoro, non possono non essere tenuti in considerazione quando si discute di corrispettività e quindi proporzionalità.
Ad iniziare dalle prestazioni ormai da tempo imposte per legge a tutela di eventi che comportano la sospensione del rapporto per arrivare in epoca più recente agli accomodamenti ragionevoli a tutela del lavoratore affetto da handicap .
Ed ancora, come ormai la maggior parte delle forze sindacali sottolinea, non possono non essere prese in considerazione tutte quelle prestazioni genericamente riconducibili alla categoria del welfare aziendale, di cui l’impesa si fa carico in forza di previsioni dei contratti collettivi.
Guardato da questo punto di vista, che è immanente al rapporto, il concetto di proporzionalità/corrispettività assume un’accezione allargata rispetto allo stretto rapporto prestazioni/retribuzione delle ore lavorate e che lo innesta in una sorta di circolarità o integrazione con il complementare concetto di sufficienza.
In altre parole, la prestazione corrispettiva “allargata” dovuta dal datore di lavoro, che prescinde dalla stretta sinallagmaticità con la prestazione resa dal lavoratore ed abbraccia aspetti della vita di questo che nulla hanno a che vedere con lo svolgimento dell’attività affidatagli, diventa anche una chiave di lettura della sufficienza laddove certe prestazioni dovute dal datore di lavoro (es. trattamento di malattia previsto dal contratto collettivo, ragionevoli accomodamenti per il lavoratore inidoneo) nella misura in cui tutelano il lavoratore dal bisogno, contribuiscono anche ad una sua esistenza libera dignitosa .
Dunque, se la proporzionalità, e quindi la corrispettività “allargata”, è parte della retribuzione, e tanto più nella misura in cui essa concorre anche alla sua sufficienza, occorre che di essa si tenga conto quanto ci si interroga su come realizzare il precetto costituzionale della retribuzione sufficiente e/o quello eurounitario del salario minimo dignitoso.
Specie in un momento in cui, come si è detto, il campo su cui le imprese sono chiamate ad intervenire, sostenendo costi che non trovano una contropartita diretta nella prestazione resa dal lavoratore, diventa sempre più ampio arrivando anche a toccare la tutela di interessi generali, quali la sostenibilità e l’ambiente, che impattano sui costi di produzione e quindi sui loro bilanci.
Se questo è il presupposto entro cui collocare la questione salariale, che, per quanto ampia ed articolata, trova il suo fondamento normativo nell’art. 36 Cost., appare quasi inevitabile affermare che l’autorità che meglio può soppesare sufficienza e proporzionalità/corrispettività “allargata” resta il contratto collettivo .
Infatti, solo le parti sociali sono in grado di valutare nel loro complesso il peso delle rispettive prestazioni dovute dal datore di lavoro e dal lavoratore ed operare i doverosi bilanciamenti.
Non a caso il contratto collettivo è da sempre riconosciuto come l’autorità in tema di mansioni ed inquadramenti , e quindi come il soggetto legittimato a dare la misura, che ha anche riflessi economici, della “qualità” della prestazione l’autorità; ma altrettanto il contratto collettivo, meglio di qualunque altra autorità, ha la visione complessiva delle prestazioni dovute dal datore di lavoro e quindi meglio di chiunque altro può comprendere i confini della corrispettività nel rapporto di lavoro .
Al contrario, un intervento “secco” del legislatore, che si limitasse a fissare un salario minimo legale intercategoriale, rischierebbe di sacrificare, in nome della sufficienza, la seconda imprescindibile caratteristica della retribuzione che deve essere anche proporzionata nell’accezione allargata di cui si è detto.
Non solo, ma la fissazione per legge di un unico parametro minimo valido per tutta l'area del lavoro subordinato potrebbe essere dirompente per la contrattazione collettiva che potrebbe uscirne largamente delegittimata o quantomeno privata di uno dei suoi terreni di azione o, all’opposto, se si collocasse su una soglia molto bassa per salvaguardare la possibilità di azione della contrattazione collettiva, avrebbe grandi probabilità di risultare sbilanciato a sfavore del singolo .
Si può, dunque, affermare, in continuità con il passato, che il contratto collettivo deve rimanere la principale autorità salariale in quanto la fonte che meglio di ogni altra riesce a pesare le rispettive prestazioni dedotte nel rapporto e quindi coniugare in un giusto e concreto equilibrio, sufficienza e proporzionalità, cosa che ha fatto per lungo tempo.
Certo è che la storia giudiziaria degli ultimi anni insegna che per continuare a svolgere il suo ruolo di autorità salariale il contratto collettivo deve esser sostenuto .
Occorre, dunque, un intervento che lasci al centro il contratto collettivo ma in una chiave promozionale; un intervento che si faccia il più possibile carico di quelle criticità che hanno portato a mettere in discussione il contratto collettivo come autorità salariale.
Tali criticità sono evidenziate nelle sentenze di ottobre , ma anche nel rapporto del CNEL del 12.10.2023 e nei disegni di legge ad oggi presentati, nonché nei considerando della Direttiva 2041/2022 oltre che da larga parte della dottrina e possono essere sintetizzate nella frammentazione della rappresentanza sindacale e dei perimetri negoziali, nella conseguente proliferazione della contrattazione collettiva ed all’interno di essa dei contratti pirata, nel decentramento produttivo.
Per ovviare a questi problemi, ormai endemici nel nostro ordinamento, serve una risposta che spinga il sistema verso un autocomponimento dall’interno quale quello che per anni lo ha retto. Dunque, serve un ritorno alla contrattazione “virtuosa” attraverso una legislazione promozionale.
Nello specifico si può pensare ad una legge che fissi un salario minimo legale intercategoriale da applicarsi ai soli casi in cui il rapporto di lavoro non è regolato dal contratto collettivo stipulato dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale e relativo all’attività svolta dal datore di lavoro.
Quindi una legge che stabilisca una “rete”, una sorta di “paracadute” che fissa il salario minimo e che interviene solo per i casi in cui non viene applicato alcun contratto collettivo o viene applicato un contratto collettivo stipulato da organizzazioni sindacali non comparativamente più rappresentative .
In altre parole, un intervento legislativo che si autoescluda quando il rapporto è interamente regolato dal contratto collettivo stipulato dal sindacato comparativamente più rappresentativo e che, invece, si ponga come sostitutivo della sola retribuzione minima fissata dal contratto collettivo applicato dal datore di lavoro e non sottoscritto dal sindacato comparativamente più rappresentativo (ovviamente laddove in quel caso la retribuzione tabellare sia inferiore a quella legale).
Di qui la differenza rispetto alla proposta di cui al DDL 956 di iniziativa popolare che, invece, prevede di fare un confronto tra la sola paga base oraria del CCNL ed il salario minimo proposto (10 euro lordi), così pretermettendo ogni verifica “ampia” di corrispettività.
La soluzione proposta consente a chi applica un contratto collettivo del settore stipulato dal sindacato comparativamente più rappresentativo di continuare, come in passato, a fare affidamento sul fatto che la retribuzione corrisposta rispetta il precetto di cui all’art. 36 Cost., affidamento che nasce dal soggetto stipulante .
Al contempo essa appare rispettosa della libertà sindacale di chi non vuole applicare alcun contratto o decide di applicare un contratto diverso da quello stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative di quel settore. Costui, infatti, potrà liberamente scegliere la fonte regolativa dei rapporti di lavoro sapendo già in partenza che, però, dovrà corrispondere quantomeno il salario minimo fissato per legge.
Il modello, come ovvio, riprende il doppio binario con intervento esterno residuale che, ad esempio, si ritrova nell’art. 5 legge 223/91 sulla determinazione dei criteri di scelta del licenziamento collettivo ed anche nella 146/90 sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali ed in particolare il dialogo tra contrattazione collettiva e Commissione di garanzia per l’individuazione delle prestazioni indispensabili.
La soluzione proposta può superare una triplice verifica: quella della compatibilità con l’ordinamento interno e unieuropeo, quella dei vantaggi che essa porta con sé ed infine quello dell’assenza di ostacoli insormontabili alla sua attuazione.
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La verifica di compatibilità della proposta con il sistema di tutele multilivello
Un modello così immaginato è certamente compatibile con la direttiva 2041/2022 che da una parte, come noto, non impone, né potrebbe imporre ex art. 153 TFUE , un salario minimo solo legale o solo contrattuale ma anzi sottolinea il ruolo fondamentale che una “solida contrattazione” svolge a tutela del salario, ponendo quindi l’accento sulla necessità di dare sostegno alla contrattazione collettiva .
Altrettanto il modello, nel dare adeguato, ed anzi prevalente spazio alla contrattazione collettiva qualificata, risulta pienamente rispettoso del dettato costituzionale di cui all’art. 36 che va letto nel suo complesso ed alla luce della sua storia .
Infatti, il rinvio alla contrattazione collettiva innanzitutto consente, meglio di qualunque altra fonte, di valorizzare l’altro corno del principio costituzionale che è quello della proporzionalità e quindi della corrispettività .
Inoltre, il dibattito in sede di Assemblea Costituente ricorda che la contrattazione collettiva è stata da sempre ritenuta l’autorità salariale per eccellenza.
Ancora, una simile soluzione non pone problemi di compatibilità con l’art. 39 cost. atteso che essa non impone l’applicazione di un contratto collettivo, ma fa seguire alla libera decisione di applicare un certo contratto collettivo qualificato in relazione ai soggetti che lo stipulano, l’effetto di rendere quel contratto collettivo l’autorità salariale per l’attività svolta, prevedendo al contempo che in assenza di applicazione il lavoratore sia comunque tutelato dalla norma di legge che fissa il salario minimo .
In linea con un orientamento ormai legificato , poi, il rinvio può ben essere a qualunque contratto collettivo, e non solo a quello nazionale, atteso che il criterio selettivo è basato sul soggetto sindacale e non sul livello di contrattazione, così da non mettere in discussione nemmeno la libertà di organizzazione del sindacato.
Infine, a favore della piena compatibilità della proposta con l’assetto interno, depone la possibilità che comunque residua al giudice di verificare il rispetto dei principi di cui all’art. 36 Cost. da parte delle previsioni sia legali che contrattualcollettive .
La prospettata soluzione appare poi ben integrabile nell’ordinamento interno ponendosi in linea di continuità con la strada già intrapresa dal legislatore ed in particolare con il sistema di garanzie già esistente dettato per evitare il dumping attuato attraverso le esternalizzazioni (29 co 1 bis d. lgs. 276/03, art. 7 d.l. 248/2007, art. 57 d. lgs. 36/2023), con quanto previsto dall’art. 47 quater d. lgs. 81/15 sul compenso minimo per i lavoratori tramite piattaforma autonomi nonché con quanto previsto dall’art. 1 DL 338/1989 in tema di retribuzione da prendere a riferimento per il calcolo dei contributi di previdenza ed assistenza, come interpretato ai sensi dell’art. 2 co 25 legge 549/1995.
La soluzione prospettata appare anche in linea con quanto la giurisprudenza costituzionale ha più volte ribadito in ordine al ruolo della contrattazione collettiva nella determinazione della retribuzione sufficiente ex art. 36 Cost. ed ai limiti di intervento del legislatore .
Inoltre, il rinvio al contratto collettivo siglato dal sindacato comparativamente più rappresentativo nel settore relativo all’attività svolta risponde al problema “giuridico” di fondo che ha dato origine al contenzioso che ha portato alle decisioni di ottobre. In quei casi, come noto, la retribuzione era stata fissata facendo di volta in volta riferimento ai minimi tabellari fissati dai contratti collettivi stipulati dai sindacati maggiormente, e non comparativamente più, rappresentativi via via applicati dagli appaltatori che si erano susseguiti sullo stesso appalto che avevano creato la corsa al “ribasso” stigmatizzata dal Tribunale di Torino e dalla Corte di cassazione.
La selezione del contratto comparativamente più rappresentativo impone, infatti, di restringere la cerchia dei concorrenti consentendo di affermarsi quale autorità salariale solo a quel contratto che è più rappresentativo degli altri e dunque può ritenersi effettivamente portatore dell’interesse, mediato, delle parti .
Per questa ragione non pare, invece, condivisibile la proposta di disegno di legge 957 che fa rinvio ai contratti collettivi “maggiormente applicati”: è chiaro, infatti, che il rinvio al contratto applicato pone il serio rischio del potere di accreditamento del sindacato e quindi dell’affermarsi di quella contrattazione pirata che, invece, si vuole sconfiggere.
Non appare, nemmeno, condivisibile la proposta di cui al disegno di legge 1275 che faceva sì riferimento al trattamento economico complessivo previsto dal CCNL in vigore nel settore e stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, ma determinava le voci da tenere in considerazione al fine di verificare il rispetto dei principi costituzionali solo in quelle direttamente retributive (trattamento economico minimo, scatti, mensilità aggiuntive, indennità contrattuali fisse e continuative per attività ordinaria) senza, invece, rinviare al complesso delle pattuizioni di cui al contratto collettivo, comprensivo anche delle prestazioni “indirette” che concorrono ad assicurare comunque un’esistenza libera e dignitosa (es: trattamento di malattia).
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Ls soluzione prospettata alla prova dei suoi vantaggi
L’ipotesi proposta può avere un effetto “benefico” sull’intero sistema delle relazioni sindacali, innanzitutto perché offre alla contrattazione collettiva un sostegno più forte di quello che finora arrivava dalla giurisprudenza che aveva esteso erga omnes i soli minimi tariffari e non, invece, tutte le prestazioni pattuite dalle parti.
Una legislazione promozionale come quella qui ipotizzata, invece, comporta che la scelta che il datore di lavoro deve fare in nome della sufficienza e della proporzionalità/corrispettività della retribuzione, principi che sono inverati dall’insieme delle previsioni del contratto collettivo e non solo dalla retribuzione tabellare, è tra applicare tutto il contratto collettivo comparativamente più rappresentativo oppure non applicare alcun contratto collettivo o applicarne un altro non comparativamente più rappresentativo ma essendo in questo caso tenuto a corrispondere il salario minimo legale.
Dunque, il sostegno viene dato indirettamente a tutto il contratto e non solo alla sua parte economica come è stato finora.
Un altro vantaggio di una simile soluzione è che essa consentirebbe di prevedere un unico salario minimo legale intercategoriale, così sciogliendo un altro dubbio in ordine alla modalità di fissazione, se intercategoriale o per categoria , senza timore di tagliare le gambe alla contrattazione collettiva “genuina” che, essendo alternativa al salario minimo legale, non sarebbe in competizione con quella misura.
Ed anzi potrebbe uscirne incentivata laddove un minimo di legge elevato può spingere verso la scelta alternativa, cioè l’applicazione integrale del contratto collettivo comparativamente più rappresentativo, in cui il sindacato può giocarsi altri scambi che prescindono dalla sola retribuzione tabellare (quale ad esempio la formazione).
A ciò si aggiunga un possibile effetto “educativo”. Innanzitutto, nei confronti del datore di lavoro dal momento che, poiché in caso di rinvio legislativo al CCNL comparativamente più rappresentativo l’onere della prova della rappresentatività è in capo al datore , l’eventuale rischio di genericità del criterio ricade su quest’ultimo che, quindi, ancora una volta sarà indotto ad una good practice e quindi ad una selezione seria.
Ma anche un effetto di doverosa responsabilizzazione del sindacato. A questa fonte il legislatore attribuisce un ruolo sempre più ampio in termini di disciplina dei rapporti di lavoro. Si tratta di una delega del tutto condivisibile ed anzi, forse, indispensabile per consentire che, nel rispetto di principi fondamentali, le regole dei rapporti si adattino alla specificità del settore, del territorio, della singola azienda.
Ma a questa crescente funzione integrativa non può non affiancarsi la parallela consapevolezza del sindacato che deve assumersi la responsabilità delle politiche rivendicative che attua per tornare ad essere il perno affidabile della disciplina dei rapporti di lavoro .
Ed ancora, questa soluzione potrebbe avere un effetto “drenante” nel senso di emarginare la contrattazione collettiva pirata che perderebbe il vantaggio dato dal competere sul dumping salariale.
Una soluzione di questo tipo, inoltre, ridarebbe certezza alle aziende che potrebbero così scegliere e calcolare a priori il costo del lavoro, e quindi anche il prezzo da praticare sul mercato, con un rischio decisamente ridotto (non certamente azzerato stante il controllo ineludibile del giudice) di vedersi attribuire ex post costi non preventivati e che non riuscirebbero poi a ribaltare sul cliente/appaltante con gravi rischi per i bilanci (specie se si considera l’attuale giurisprudenza in tema di prescrizione) .
Da ultimo, la soluzione non dovrebbe spaventare atteso, come si è anticipato, il meccanismo resta sotto il controllo, ineludibile , del giudice che potrà sempre sindacare sotto il profilo del rispetto dell’art. 36 Cost. e della Direttiva 2041/22 sia il contratto collettivo stipulato dal sindacato comparativamente più rappresentativo, sia il minimo fissato per legge.
In quest’opera, però, il giudice potrà essere aiutato da una parte dalla selezione tra contratti data dal criterio della maggiore rappresentatività comparativa, per cui a fronte di più contratti stipulati da sindacati maggiormente rappresentativi, uno solo è quello comparativamente più rappresentativo.
Dall’altra si potrebbe muovere tra due sponde se non certe, almeno meno scivolose: una, il minimo legale, e l’altra, l’intero trattamento del contratto collettivo stipulato dal sindacato comparativamente più rappresentativo, per valutare se il complesso delle tutele offerte al lavoratore dal contratto collettivo stipulato dal sindacato comparativamente più rappresentativo è in grado di garantire un’esistenza libera e dignitosa almeno pari a quella che è garantita dal salario minimo legale da considerarsi senza altre prestazioni contrattuali (es. integrazione malattia, periodo di comporto allungato, ecc.).
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Restano, sicuramente, dei nodi, importanti, da sciogliere
Come anticipato, quella ipotizzata è solo una strada che può aiutare il sistema a ritrovare i suoi meccanismi di autoregolazione “virtuosa”.
Come tutte le strade, anche questa ha i suoi tornanti che la rendono impervia ma non impercorribile.
La prima difficoltà resta quella di individuare il minimo legale da applicare in mancanza di regolazione da parte del contratto collettivo stipulato dal sindacato comparativamente più rappresentativo.
Le proposte sul punto sono tante (9 , 10, 12 euro lordi, altri elementi quali il livello Istat di povertà, altro), ma nella scelta il legislatore sarebbe aiutato nel senso che per le ragioni sopra sintetizzate il minimo legale non avrebbe un impatto di “concorrenza” con la contrattazione collettiva e quindi potrebbe essere più alto del minimo fissato dai contratti collettivi comparativamente più rappresentativi perché interverrebbe laddove quei contratti, con il loro complessivo carico di prestazioni corrispettive e quindi onerose per il datore di lavoro, non fossero applicati.
Ed anzi, la misura del minimo legale (purché sostenibile ed in linea con le legislazioni europee), potrebbe valere come stimolo ad applicare il contratto collettivo comparativamente più rappresentativo.
La difficoltà maggiore, come ovvio, consiste nel trovare il criterio per identificare il contratto comparativamente più rappresentativo applicato nel settore in cui si svolge l’attività, titolato a disinnescare l’applicazione del salario minimo legale .
Ma si tratta di una cruna dell’ago per cui ormai non si può non passare perché dal contratto collettivo comparativamente più rappresentativo passa la pressoché totalità della disciplina giuslavoristica, dettata sia a tutela degli interessi dell’impresa, si pensi alle ipotesi di flessibilità , sia a tutela del lavoratore (si pensi alle già richiamate norme di garanzia nel caso di processi di esternalizzazione/appalti/delocalizzazione) sino ad arrivare all’art. 8 DL 138/11 .
L’identificazione del sindacato comparativamente più rappresentativo, dunque, non può più essere il buco nero che inghiotte l’universo del diritto del lavoro, ma deve diventare il big bang che fa da volano di un sistema virtuoso fondato sulla contrattazione collettiva.
Si tratta, dunque, di un tema che va affrontato presto e seriamente e l’implementazione della Direttiva Europea può esser l’occasione.

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