testo integrale con note e bibliografia
1. Premessa.
La garanzia costituzionale della retribuzione proporzionata e sufficiente , come aspetto del più generale tema “Salario e dignità” del 53° Convegno Nazionale del Centro studi di diritto del lavoro “Domenico Napoletano”, consente una duplice riflessione: come nasce il parametro dell’art. 36, primo comma, Cost. e come è stato applicato dalla Corte costituzionale in numerose pronunce.
Per un verso è utile richiamare i lavori dell’Assemblea costituente; per l’altro può ripercorrersi la giurisprudenza costituzionale a partire dalle prime pronunce degli anni sessanta fino a quelle più recenti, anche di quest’anno (2024).
2. Come nasce il parametro dell’art. 36, primo comma, Cost.
La riflessione sulle origini della garanzia costituzionale della retribuzione proporzionata e sufficiente, di cui dall’art. 36, primo comma, della Costituzione – parametro questo ripetutamente venuto all’esame della Corte in giudizi incidentali di costituzionalità – può muovere da un breve sguardo ai lavori nell’Assemblea costituente e prima ancora nella Commissione dei 75 incaricata di redigere il progetto della nuova Costituzione.
Quando la Terza Sottocommissione, che aveva il compito specifico di predisporre le norme sui rapporti economici e sociali, si accinse ad elaborare una proposta sulla retribuzione dei lavoratori, nel contesto della tutela del lavoro, nel settembre del 1946 il punto di partenza era il codice civile che all’art. 2099 c.c. conteneva una regolamentazione ispirata a una logica di stretta sinallagmaticità delle prestazioni. In quell’ottica la regolamentazione era limitata al criterio di calcolo (a tempo o a cottimo) e alla sua misura rimessa alla determinazione della contrattazione collettiva dell’epoca, quella corporativa. Solo in mancanza della contrattazione collettiva, valeva l’accordo tra le parti; e da ultimo, in via residuale, soccorreva la determinazione del giudice.
Con questa scansione – contratto collettivo, accordo individuale, determinazione del giudice – era individuato quello che la dottrina dell’epoca, precedente la Costituzione, denominava “salario corporativo” , al quale era estranea ogni valutazione di proporzionalità e sufficienza.
Però, nel settembre 1946 il sistema corporativo era venuto meno già da due anni in quanto soppresso dal d.lg.lgt. 23 novembre 1944, n. 369, anche se le norme corporative già esistenti sarebbero rimaste in vigore fino alla loro cessazione di efficacia a seguito della regolamentazione della materia ad opera della contrattazione collettiva di diritto comune (art. 43).
Nella seduta dell'11 settembre 1946, la terza Sottocommissione della Commissione per la Costituzione prende in esame il diritto all'assistenza e alla previdenza, partendo dalla relazione dell'on. Togni.
Della seduta c’è un resoconto sommario, non già stenografico che sarà riservato ai lavori dell’Assemblea.
Interviene l’on. Fanfani che registra la preoccupazione di trovare un ponte fra l'articolo già approvato sul diritto al lavoro e l'articolo proposto sul diritto all'assistenza e alla previdenza. Occorre inserire fra i due articoli una norma che garantisca, oltre al diritto al lavoro, un minimo di retribuzione in relazione allo sforzo e alle necessità del lavoratore.
L’on. Fanfani propone quindi il seguente articolo, in due commi: «Ogni lavoratore ha diritto ad un reddito proporzionato alla quantità e alla qualità della prestazione e alle sue necessità personali e familiari. // La Repubblica predisporrà il godimento di questo diritto con norme sulle retribuzioni vitali previdenziali e familiari».
La proposta aveva quindi un duplice contenuto: il primo comma aveva una portata prescrittiva perché riconosceva al lavoratore il diritto ad una retribuzione conformata secondo il criterio della proporzionalità; il secondo comma, invece, aveva una portata di principio, era una “norma di scopo” (per usare la terminologia di Crisafulli).
È singolare, comunque, che il concetto di “proporzionalità” della retribuzione, che ritroveremo nel primo comma dell’art. 36 della Costituzione, si affacci subito ai Costituenti e rimarrà sostanzialmente inalterato nel corso dei lavori della Terza Sottocommissione e poi dell’Assemblea.
La proposta incontra l’opposizione, in particolare, dell’on. Di Vittorio che ritiene che in questo modo lo Stato invada un campo che è specifico del sindacato e manifesta la sua perplessità circa l'opportunità di inserire nella Costituzione una norma, secondo la quale la remunerazione del lavoratore deve essere proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato.
Alla fine, dopo un prolungato dibattito con tentativi di mediazione, nella seduta del 18 settembre viene approvato il primo comma (leggermente riformulato), mentre il secondo comma è respinto. Il primo comma recita: «Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro e adeguata alle necessità personali e familiari». Al canone della proporzionalità si aggiunge quello dell’adeguatezza.
Il testo rifluisce nel Progetto di Costituzione e diventa il primo comma dell’art. 32.
Nella sua relazione il Presidente della Commissione per la Costituzione Meuccio Ruini sottolinea soltanto che «[s]ono direttive generali anche il criterio di rimunerazione del lavoro e la parificazione, a tali effetti, della lavoratrice al lavoratore».
Il dibattito prosegue in Assemblea.
Ritornano le obiezioni dell’on. Di Vittorio. C’è chi parla di espressione troppo vaga.
La critica più argomentata viene dall’on. Nitti, che propone la soppressione della disposizione, svolgendo un prolungato intervento molto articolato, da economista qual era e politico di grande esperienza, attento al sociale (era stato Presidente del Consiglio prima del Governo Mussolini e poi era rimasto in esilio fino alla caduta del fascismo). L’on. Fanfani, con un pizzico di perfidia toscana, gli ricorda che proprio in quei giorni veniva pubblicato un volume di Nitti (“Meditazioni dell’esilio”), dove si dava risalto alla legislazione sociale alla quale era ispirata la proposta di inserire in Costituzione il diritto del lavoratore alla retribuzione.
Il dibattito prosegue con varie proposte emendative.
Vi è anche la proposta di aggiungere un comma ulteriore: «Il salario minimo individuale e familiare e la durata della giornata lavorativa sono stabiliti dalla legge»; proposta che, in questi termini, viene respinta dall’Assemblea. Rimarrà solo la garanzia della durata massima della giornata lavorativa.
Alla fine è approvato il testo definitivo (al criterio dell’adeguatezza è, però, sostituito da quello della sufficienza), che, nella formulazione limata dal Comitato di redazione, diventa il primo comma dell’art. 36 della Costituzione: Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.
3. Norma programmatica o precettiva?
Il dibattito che si sviluppò, appena entrata in vigore la Costituzione (1° gennaio 1948), si concentrò sulla natura programmatica o precettiva del primo comma dell’art. 36.
La dottrina prevalente (Pugliatti, Cessari, Giugni, Nicolò, Scognamiglio, Natoli) si schierò in favore del carattere precettivo della norma, che ben presto trovò l’avallo della giurisprudenza di legittimità in una prima storica sentenza . La Suprema Corte espressamente parlò di «diritto soggettivo alla minima retribuzione sufficiente» e affermò in termini molto chiari: «Una pattuizione che non fosse in armonia con quel principio non potrebbe sfuggire alla sanzione di invalidità, e sarebbe demandato al giudice , così come avviene per il caso in cui manchi l’accordo tra le parti, ai sensi dell’art. 2099, di determinare in concreto la giusta retribuzione».
La tesi opposta, sostenuta in dottrina (Barassi, Napoletano, Scialoja) e in alcune pronunce della giurisprudenza di merito , sarà poi ripresa da Pera , secondo il quale solo dalla contrattazione collettiva possono derivare «concreti e perfetti diritti soggettivi dei singoli prestatori d’opera».
La questione oggi non si pone più essendo pacifico il carattere precettivo del parametro nella forma della c.d. Drittwirkung, secondo cui i principi fondamentali contenuti in Costituzione possono trovare applicazione diretta anche nei rapporti fra privati e tale è anche quello al quale fa riferimento l’art. 36, primo comma.
Ma dietro questa pur risolta problematica c’è un’altra questione ancora rimasta aperta, quella della mancata attuazione dell’art. 39 Cost., quanto all’efficacia della contrattazione collettiva, e quella della rappresentatività sindacale.
Comunque è certo che l’art. 36, primo comma, costituisca parametro per la verifica della legittimità costituzionale della legge. Ed è ciò che si viene ora a dire con riferimento ai plurimi giudizi incidentali in cui ciò è avvenuto.
4. La prima pronuncia della Corte sull’art. 36, primo comma, Cost. (sentenza n. 30 del 1960).
Con la sentenza n. 30 del 1960 la Corte ha affermato che il salario minimo costituzionale costituisce un diritto subiettivo perfetto, previsto appunto dall’art. 36, primo comma. Ed ha aggiunto che la retribuzione del lavoratore «va riguardata nello stesso tempo sotto duplice aspetto: quello della proporzionalità della retribuzione alla quantità e qualità del lavoro prestato e quello dell'idoneità della retribuzione al sostentamento del lavoratore e della sua famiglia».
La questione concerneva un’ipotesi di conglobamento della retribuzione, quanto all’indennità di contingenza, che era riconosciuta dalla disposizione censurata in misura più elevata in favore del “capo famiglia”. Si è affermato che il canone di proporzionalità della retribuzione alle esigenze personali e della famiglia giustificasse questa differenziazione. La pronuncia, che è di non fondatezza, è rilevante proprio per aver ritenuto il carattere immediatamente precettivo del parametro.
5. La legge Vigorelli (sentenza n. 106 del 1962).
Intanto da anni ferveva il dibattito sull’attuazione dell’art. 39 Cost. e sulle numerose proposte di “legge sindacale” che si sono affacciate nel primo decennio dopo l’entrata in vigore della Costituzione, quale il d.d.l. Rubinacci (di oltre 40 articoli, che regolava l’associazionismo sindacale, la contrattazione collettiva e il diritto di sciopero).
Si arriva infine al d.d.l. Vigorelli, di cui è stato relatore di maggioranza proprio l’on. Rubinacci, ridotto a pochi articoli (alla fine la legge approvata ne aveva solo 9). L’obiettivo, come indicato nello stesso titolo della legge, era quello di porre norme transitorie per garantire minimi di trattamento economico e normativo ai lavoratori; ossia di attuare proprio l’art. 36, primo comma, Cost.
Si sono posti subito problemi di costituzionalità della legge, che da subito fu denominata “Vigorelli” (legge 14 luglio 1959, n. 741), focalizzati sulla dubbia compatibilità proprio con l’art. 39 Cost.
La Corte (sentenza n. 106 del 1962 ), investita delle questioni, ritiene che vi sia una eccezionale limitazione dell’autono¬mia collettiva compatibile con il disegno costituzionale, tanto più che per i lavoratori vi è il beneficio di un trattamento minimo. Ha, quindi, innanzi tutto dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale delle norme contenute negli artt. 1, 2, 3, 4, 5 e 8 della l. 14 luglio 1959, n. 741; questioni sollevate in riferimento agli artt. 3, 39, 71, 76 e 77 Cost.
La Corte in particolare esclude che l’art. 39 Cost. contenga una riserva, normativa o contrattuale, in favore dei sindacati, per il regolamento dei rapporti di lavoro. Però ha dato grande rilevanza a quella che chiama “inadempienza costituzionale”. Ciò giustifica la pronuncia di non fondatezza: si tratta di una legge transitoria, provvisoria ed eccezionale, la cui applicazione era limitata ad un anno (art. 6).
La garanzia dell’art. 36, primo comma, Cost., pur non evocato come parametro, è sullo sfondo e viene in rilevo indirettamente. Afferma la Corte che esso non soltanto consente, ma impone al legislatore di emanare norme che, direttamente o mediatamente, incidono nel campo dei rapporti di lavoro per garantire minimi di trattamento economico e normativo ai lavoratori.
Ha aggiunto che l’art. 39 Cost. pone due principi, che possono intitolarsi alla libertà sindacale e alla autonomia collettiva professionale. Col primo si garantiscono la libertà dei cittadini di organizzarsi in sindacati e la libertà delle associazioni che ne derivano; con l’altro si riconosce alle associazioni sindacali la vocazione a regolare i conflitti di interessi che sorgono tra le contrapposte categorie mediante il contratto, al quale poi si attribuisce efficacia obbligatoria erga omnes, una volta che sia stipulato in conformità di una determinata procedura e da soggetti forniti di determinati requisiti.
La legge impugnata – ribadisce la Corte – assume il significato e compie la funzione di una legge transitoria, provvisoria ed eccezionale. Del che è conferma la norma contenuta nell’art. 7, comma 2, che limita l’efficacia delle norme delegate fino al momento in cui non siano intervenuti accordi e contratti validi per tutti gli appartenenti alla categoria. Le norme delegate erano quindi ad tempus, nonché recessive. Sicché si può dire che la legge mirasse a collegare il regime dei contratti di diritto comune con quello dei contratti con efficacia generale, a mezzo di un regolamento transitorio; circostanza questa che la poneva al riparo dal contrasto con l’art. 39 Cost.
Ma una legge che cercasse di conseguire il risultato della efficacia obbligatoria erga omnes per tutti gli appartenenti alla categoria alla quale il contratto collettivo si riferisce in maniera non riconducibile a quella stabilita dall’art. 39 Cost. sarebbe illegittima. E aggiunge la Corte: “Né si può dire che la questione di costituzionalità, posta in questi termini, possa essere superata col richiamo alla norma contenuta nel primo comma dell'art. 36 della Costituzione”.
La Corte ha, in particolare, ritenuto non fondate le censure mosse all’art. 5 l. n. 741/1959, secondo il quale le norme delegate non potevano essere in contrasto con norme imperative di legge. L’art. 5, in realtà, si poneva fuori dei confini della delega e non ne rappresentava un limite. Agiva direttamente sui contratti ai quali il Governo doveva conformare le proprie norme, ma non aveva come destinatario il Governo. La Corte ha, quindi, ritenuto che spettasse al giudice ordinario di accertare volta per volta se sussisteva il contrasto di queste clausole contrattuali, seppur recepite in legge con efficacia erga omnes, con le norme imperative di legge e, in caso affermativo, di disapplicarle.
Con la stessa citata sentenza, la Corte ha ritenuto, invece, illegittima la seconda legge (n. 1027 del 1° ottobre 1960) che per un verso prorogava di quindici mesi l’originario termine annuale previsto dall’art. 6 della legge precedente, per l’altro prevedeva che il Governo dovesse uniformarsi altresì a tutte le clausole dei singoli accordi economici e contratti collettivi, anche intercategoriali, stipulati entro i dieci mesi successivi alla data di entrata in vigore della stessa l. n. 741/1959.
La legge n. 1027/1960, in tal modo, estendeva il campo di applicazione della delega oltre la data del 3 ottobre 1960 e allargava l’efficacia agli accordi e ai contratti stipulati dopo questa data. Anche una sola reiterazione della delega (a tale riducendosi la proroga prevista dall’art. 1 della legge impugnata), toglieva alla legge i caratteri della transitorietà e dell’eccezionalità finendo col sostituire al canone costituzionale dell’art. 39 Cost. un altro sistema arbitrariamente costruito dal legislatore e pertanto illegittimo.
Vi è ancora il riferimento all’art. 36, primo comma, Cost., che – puntualizza la Corte – non vale a superare il vulnus all’art. 39.
6. Le pronunce successive alla legge Vigorelli (sentenze n. 129 del 1963, n. 156 del 1971, n. 196 del 1975).
Pronunciandosi ulteriormente sulla legge Vigorelli la Corte (sentenza n. 129 del 1963 ) ha risolto con una sentenza interpretativa di rigetto la questione di legittimità costituzionale che investiva il già cit. art. 7 della legge n. 741 del 1959; disposizione questa che prevedeva che i trattamenti economici e normativi minimi, contenuti nelle leggi delegate, si sostituivano di diritto a quelli in atto, salvo le condizioni, anche di carattere aziendale, più favorevoli ai lavoratori e conservano piena efficacia anche dopo la scadenza o il rinnovo dell'accordo o contratto collettivo cui il governo si era uniformato sino a quando non fossero intervenute successive modifiche di legge o di accordi e contratti collettivi aventi efficacia verso tutti gli appartenenti alla categoria. La Corte, rettificando il presupposto interpretativo dal quale muoveva il giudice rimettente, ha escluso che tale disposizione inibisse l’intervento del giudice nella determinazione dell’equa retribuzione «trovando questo un suo preciso e diretto fondamento nell’art. 36 della Costituzione». Sicché, nel caso ipotizzato dal giudice rimettente nessun dubbio poteva esserci circa la legittimazione dei lavoratori, non associati ai sindacati firmatari di contratti collettivi recepiti nella legge, di chiedere e ottenere la rivalutazione del trattamento economico nei contratti medesimi in diretta applicazione dell’art. 36, primo comma, Cost.
La Corte ha, comunque, escluso che la legge potesse inibire l’intervento del giudice nella determinazione dell’equa retribuzione «trovando questo un suo preciso e diretto fondamento nell’art. 36 della Costituzione».
Per altro verso la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni delegate (contenute in d.P.R. attuativi della legge Vigorelli) per aver esteso erga omes disposizioni che non concernevano minimi di trattamento economico e normativo ai lavoratori .
Investita successivamente di altre questioni di legittimità costituzionale della stessa disposizione, la Corte (sentenza n. 156 del 1971 ), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, secondo comma, della legge n. 471/1959 per violazione dell’art. 36 Cost., «nella parte in cui esclude che la sopravvenuta non corrispondenza dei minimi economici al salario sufficiente conferisca al giudice ordinario i poteri che gli vengono dall'art. 36 della Costituzione». Negli stessi termini la pronuncia di illegittimità costituzionale ha investito anche l'articolo unico del d.P.R. 11 settembre 1960, n. 1326, nella parte in cui escludeva che la sopravvenuta non corrispondenza dei minimi salariali fissati nel contratto collettivo nazionale di lavoro 1° ottobre 1959, per i dipendenti delle industrie grafiche e affini, conferiva al giudice ordinarie l'esercizio del potere derivante dall'art. 36 della Costituzione.
Poi in via conseguenziale la Corte ha adottato una pronuncia di incostituzionalità “omnibus” , ossia avente un oggetto “aperto” a gli articoli unici di tutti i decreti del Presidente della Repubblica con forza di legge, emanati in base alla delega di cui agli artt. 1 e 7 della legge 14 luglio 1959, n. 741, limitatamente alla parte in cui escludevano che la sopravvenuta non corrispondenza dei minimi salariali fissati nei contratti collettivi, resi con essi validi per tutti gli appartenenti alle rispettive categorie, conferisse al giudice ordinario l'esercizio del potere attribuito dall'art. 36 della Costituzione.
La Corte riprende le considerazioni fatte in precedenza nella cit. sentenza n. 129 del 1963, secondo cui l'art. 7 in contestazione fosse da interpretare non già alla stregua della sua formulazione letterale, bensì con riferimento alle finalità che si era voluto perseguire e, perciò, era da applicare in modo tale da non porre ostacolo all'intervento correttivo dell'autorità giudiziaria. Però – osserva la Corte – quest'interpretazione non aveva convinto i giudici a quibus, tra i quali vi era proprio la Corte di cassazione.
La Corte costituzionale “replica” alle argomentazioni dei giudici rimettenti e conclude che tutto ciò dovrebbe portare alla conclusione della infondatezza delle censure di incostituzionalità. Tuttavia – osserva alla fine la Corte - in presenza dei dubbi sull'interpretazione prospettata e fatta valere con la precedente sentenza, e in considerazione dell'eventualità, sia di una loro persistenza, con conseguente futura proposizione di altre questioni di eguale contenuto, sia di quella, ancora più grave, che si giunga, sulla base di una interpretazione letterale degli artt. 1 e 7, al disconoscimento del diritto al salario sufficiente da parte di giudici di fronte ai quali non venga prospettata la questione di costituzionalità, o che non la sollevino di ufficio, deve pervenirsi invece a dichiarare fondata la denunciata censura di violazione proprio dell'art. 36, primo comma, Cost.
Insomma – ha chiarito la Corte - con la legge di delegazione il legislatore non ha inteso inibire al giudice di adeguare (al di sopra dei minimi prescritti dai decreti delegati) il trattamento economico previsto dai contratti individuali di lavoro alle situazioni sopravvenute.
Successivamente la Corte (sentenza n. 196 del 1975 ) è nuovamente intervenuta sulla prima legge Vigorelli (l. n. 741/1958) con riferimento a una specifica normativa delegata: il d.P.R. 28 agosto 1960, n. 1273, di recepimento dell'accordo interconfederale 15 gennaio 1957, relativo alla scala mobile dei dipendenti delle imprese industriali, censurato nella parte in cui conteneva un meccanismo per cui accordi contrattuali successivi avrebbero potuto modificare il contenuto di norme delegate.
La Corte osserva che il conferimento di efficacia erga omnes ai contratti collettivi di lavoro, non può consentire che clausole contrattuali, pur non estranee all'oggetto della delega, siano contrarie a norme imperative o a precetti costituzionali. Ma tali clausole, in quanto non suscettibili di essere recepite in legge, conservano l'originario carattere contrattuale, con la conseguenza che spetta al giudice ordinario, e non alla Corte, pronunziarsi sull'asserito contrasto di esse con norme imperative di legge e con precetti costituzionali.
La Corte ha quindi ritenuto inammissibile la questione perché spettava al giudice comune «pronunziarsi sull’asserito contrasto di esse con norme imperative di legge e con precetti costituzionali e, in base ai risultati dell’accertamento, definire il giudizio, riconoscendo o negando loro forza di legge».
Particolarmente significativa è la qualificazione delle norme delegate: esse conservano l'originario carattere contrattuale, con la conseguenza che il giudice ordinario ne può sindacare la legittimità.
Benché non connessa con la legge Vigorelli, può ricordarsi, in epoca più recente (quarant’anni dopo), la sentenza n. 51 del 2015 , che concerne una tematica connessa alle pronunce appena citate. La Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 4, del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248. Questa disposizione stabiliva che, «[f]ino alla completa attuazione della normativa in materia di socio lavoratore di società cooperative, in presenza di un pluralità di contratti collettivi della medesima categoria, le società cooperative che svolgono attività ricomprese nell'ambito di applicazione di quei contratti di categoria applicano ai propri soci lavoratori, ai sensi dell'articolo 3, comma 1, della legge 3 aprile 2001, n. 142, i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria».
La Corte ha precisato che l'articolo censurato si propone di contrastare forme di competizione salariale al ribasso, in linea con l'indirizzo giurisprudenziale che, da tempo, ritiene conforme ai requisiti della proporzionalità e della sufficienza (art. 36, primo comma, Cost.) la retribuzione concordata nei contratti collettivi di lavoro firmati da associazioni comparativamente più rappresentative.
Ha affermato la Corte che il censurato art. 7, comma 4, del d.l. n. 248 del 2007, congiuntamente all'art. 3 della legge n. 142 del 2001, lungi dall'assegnare ai predetti contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, efficacia erga omnes, in contrasto con quanto statuito dall'art. 39 Cost., mediante un recepimento normativo degli stessi, richiama i predetti contratti, e più precisamente i trattamenti economici complessivi minimi ivi previsti, quale parametro esterno di commisurazione, da parte del giudice, nel definire la proporzionalità e la sufficienza del trattamento economico da corrispondere al socio lavoratore, ai sensi dell'art. 36, primo comma, Cost.
La Corte ha aggiunto che è conforme ai requisiti della proporzionalità e della sufficienza (art. 36, primo comma, Cost.) la retribuzione concordata nei contratti collettivi di lavoro firmati da associazioni comparativamente più rappresentative.
In epoca ancora più recente la Corte è stata investita delle questioni di legittimità costituzionale relative ai contratti aziendali di prossimità (sentenza n. 52 del 2023 ). La Corte ha dichiarato inammissibili le sollevate questioni, procedendo ad una perimetrazione della fattispecie legale del contratto collettivo aziendale di prossimità. In particolare occorre che l’accordo riguardi «la regolazione delle materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione» con riferimento a specifici aspetti del rapporto di lavoro, tra cui non compare la retribuzione (art. 8 d.l. 138/2011).
7. La prescrizione dei crediti retributivi (sentenza n. 63 del 1966 e n. 174 del 1972).
Il lavoratore ha diritto alla retribuzione proporzionata e sufficiente, diritto che ha uno speciale regime di protezione quanto alla prescrizione.
Con una pronuncia storica (sentenza n. 63 del 1966 ), che riconobbe al lavoro subordinato una fondamentale tutela della retribuzione, la Corte dichiarò la illegittimità costituzionale degli artt. 2948 n. 4, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, c.c. limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro. Pur negando che il diritto alla retribuzione possa iscriversi tra quelli indisponibili, come tali non soggetti a prescrizione (art. 2934, secondo comma, c.c.), e pur essendo esso non rinunciabile (arg. ex art. 36 Cost.), la Corte – pronunciandosi prima dell’introduzione della legge sulla giusta causa e giustificato motivo di licenziamento e prima ancora dello Statuto dei lavoratori – ha osservato che, in un rapporto non dotato di quella resistenza, quale quello che caratterizza invece il rapporto d'impiego pubblico, il timore del licenziamento può indurre il lavoratore a non far valere il suo diritto in costanza di rapporto. La “situazione psicologica del lavoratore” (il metus) è tale che egli può essere indotto a non esercitare il proprio diritto alla retribuzione. Cosicché «la prescrizione, decorrendo durante il rapporto di lavoro, produce proprio quell'effetto che l'art. 36 ha inteso precludere vietando qualunque tipo di rinuncia». Quindi la prescrizione non può decorrere (nel senso che il suo decorso è sospeso ex lege) durante il rapporto di lavoro, il cui regime legale, all’epoca della pronuncia, era quello della libera recedibilità.
Successive pronunce della stessa Corte hanno escluso che analoga illegittimità costituzionale potesse dichiararsi con riferimento ai crediti retributivi nel rapporto di impiego con la pubblica amministrazione , nonché con le aziende pubbliche di trasporto o con enti pubblici economici , perché esso era caratterizzato da stabilità, talché non c’era nei dipendenti pubblici una situazione psicologica di timore a far valere i propri crediti come nel lavoro privato. Si sottolineò la particolare forza di resistenza che caratterizza il rapporto di pubblico impiego, data da una disciplina che normalmente assicura la stabilità del rapporto e dalle garanzie di rimedi giurisdizionali contro l'illegittima sua risoluzione, le quali escludono che il timore del licenziamento possa indurre l'impiegato a rinunziare ai propri diritti.
Questa particolare tutela, costituita dalla sospensione del decorso della prescrizione ordinaria in costanza di rapporto di lavoro subordinato privato, concernente la retribuzione spettante al lavoratore , è stata rivisitata dopo l’introduzione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 1970).
È la stessa Corte costituzionale (sentenza n. 174 del 1972 ) a stabilire un collegamento tra sospensione della prescrizione e tutela nei confronti dei licenziamenti illegittimi.
La Corte muove dalla sua precedente pronuncia del 1966, ma considera la successiva modifica del quadro normativo: è intervenuta la legge n. 604 del 1966, che ha previsto che il licenziamento non possa avvenire se non per giusta causa, o per giustificato motivo, ponendo a carico del datore di lavoro l'onere di fornirne la prova; è stato approvato lo Statuto dei lavoratori, che ha introdotto il regime della tutela reale nei confronti del licenziamento illegittimo. E, pur dichiarando l’incostituzionalità della normativa denunciata (riguardante peraltro una speciale ipotesi di decadenza e non già di prescrizione del diritto alla retribuzione), isola, estraendolo dalla propria giurisprudenza , il principio secondo cui la sospensione della prescrizione ordinaria non può trovare applicazione tutte le volte che il rapporto di lavoro subordinato sia caratterizzato da una particolare forza di resistenza, quale quella che deriva da una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca le garanzie di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione. Questa stabilità può ritenersi introdotta nel lavoro privato da tale nuova normativa di tutela nei confronti dei licenziamenti illegittimi – legge n. 604/1966 e articolo 18 – di cui quest’ultimo «deve considerarsi necessaria integrazione della prima, dato che una vera stabilità non si assicura se all'annullamento dell'avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare». Quindi – afferma la Corte – la sospensione della prescrizione non opera «in tutti quei casi (come sono per esempio quelli risultanti dall'art. 11 della legge n. 604 del 1966) per i quali le disposizioni sulla giusta causa non trovano applicazione».
In sostanza la speciale protezione della retribuzione, che, a seguito della richiamata pronuncia del 1966, aveva una portata generale perché riguardava tutto il lavoro privato, ha visto un marcato ridimensionamento per opera della stessa giurisprudenza costituzionale alla sola fattispecie del rapporto non garantito nei confronti del licenziamento illegittimo e quindi non stabile.
La portata di questa nuova pronuncia del 1972, che in sostanza ha introdotto in via interpretativa una limitazione, prima non sussistente, alla declaratoria di illegittimità costituzionale del 1966, è stata poi precisata dalla Corte di cassazione, a sezioni unite , che, investita della composizione del contrasto di giurisprudenza, insorto su questo tema, non mancò di osservare che «stante l’indisponibilità e la definitività degli effetti delle sentenze dichiarative di illegittimità legislative […], la Corte costituzionale non è in grado né di vincolare gli organi giurisdizionali con interpretazioni ‘autentiche’ dei propri anteriori giudizi, né di far rivivere disposizioni delle quali essa, dichiarandole illegittime, ha provocato l’eliminazione dall’ordinamento». Richiamando soprattutto quella giurisprudenza costituzionale che aveva posto in evidenza come possa parlarsi di “particolare forza di resistenza” del rapporto solo se c’è una disciplina che normalmente assicura la stabilità del rapporto, con garanzie di rimedi giurisdizionali contro il licenziamento illegittimo, sì da escludere che il timore del licenziamento possa indurre il lavoratore a rinunziare ai propri diritti, le Sezioni Unite da ciò dedussero che questa “stabilità” può essere riconosciuta solo se è applicabile il regime della reintegrazione di cui all’articolo 18 e non anche se si verte nell’area della tutela obbligatoria della legge n. 604/1966, come sembrava che fosse secondo la citata pronuncia della Corte costituzionale del 1972.
Questo arresto giurisprudenziale delle Sezioni Unite, nella sostanza, si colloca a metà strada tra le due opzioni possibili (quella della sentenza di illegittimità costituzionale del 1966, secondo cui il decorso del termine di prescrizione era sospeso durante lo svolgimento del rapporto di lavoro, senza ulteriori condizionamenti, e quella della pronuncia del 1972, che in via interpretativa sembrava limitare la sospensione all’area della libera recedibilità).
Quando poi la Corte costituzionale ha avuto modo di pronunciarsi nuovamente sul tema, ha tenuto conto dell’arresto delle Sezioni Unite e, nella sostanza, ha anche chiarito, in conformità a queste ultime, la portata della sua precedente pronuncia del 1972, affermando che la stabilità del rapporto richiede che ricorra «la duplice condizione puntualizzata nella sent. 174/1972»: ossia l’applicabilità della legge n. 604 del 1966 e dell’articolo 18; sicché l’applicabilità della sola tutela obbligatoria non è sufficiente ad escludere la sospensione del decorso del termine di prescrizione.
Questo complessivo arresto giurisprudenziale – integrato dall’affermazione che è onere del datore di lavoro provare la sussistenza del requisito occupazionale della stabilità reale ai fini della decorrenza del termine in costanza di rapporto di lavoro – è stato ripetutamente confermato in seguito diventando, sul punto, diritto vivente . Ma il tema è tornato nuovamente attuale dopo lo “spacchettamento” delle tutele nell’articolo 18, operato dalle riforme degli anni duemila (legge Fornero n. 92 del 2012 e Jobs Act, d.lgs. n. 23 del 2015).
8. La disciplina sulla scala mobile e dei meccanismi perequativi automatici (sentenze n. 124 del 1991, n. 242 del 1999 e n. 470 del 2002).
Il diritto alla retribuzione proporzionata e sufficiente ha anche una proiezione diacronica: è la tematica della dinamica retributiva (scala mobile) e dei meccanismi perequativi automatici.
Può ricordarsi, innanzi tutto, la pronuncia (sentenza n. 141 del 1980 ) che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità della l. 10 dicembre 1976, n. 797, di conversione, con modificazioni, del d.l. 11 ottobre 1976, n. 699, recante disposizioni sulla corresponsione degli aumenti retributivi dipendenti da variazioni del costo della vita; questioni sollevate in riferimento agli artt. 1, 3, 4, 23, 36, 39, 53 Cost. Con riferimento agli stessi parametri le questioni erano state sollevate anche nei confronti del d.l. 1 febbraio 1977, n. 12, conv. nella l. 31 marzo 1977, n. 91, che aveva dettato nuove norme per l’applicazione dell’indennità di contingenza.
La Corte – con riferimento segnatamente all’art. 2 d.l. n. 12/1977 – ha affermato che «[s]ino a quando l’art. 39 non sarà attuato, non si può né si deve ipotizzare – nei termini proposti – conflitto tra attività normativa dei sindacati e attività legislativa del Parlamento e chiamare questa Corte ad arbitrarlo. […] Sino a quando non sarà disciplinata la loro registrazione, l’individuazione dei sindacati legittimati alla contrattazione collettiva (collettiva nel senso che alla parola può essere riconosciuto a seguito della soppressione dell’ordinamento corporativo) non può non essere affidata al gioco delle forze sociali, che, al di là dei non sempre sussistenti vincoli associativi, si trovano a rappresentare di fatto, e che di cotale esigenza sono stati consapevoli Governo e Parlamento nel dare vita alla normativa del 1977 la quale presta – e non può non prestare – il fianco a valutazioni, critiche o favorevoli, di estrazione economica, finanziaria e sociale, e fornirà motivi di contesa sul quomodo della realizzazione normativa e della concreta attuazione nelle controversie processuali individuali e sindacali, ma non apre utile adito a incidenti di costituzionalità fondati sull’asserito ostracismo decretato alle forze sociali».
La Corte ha, in particolare, considerato che l’assorbimento, nella normativa del 1977, della contrattazione del settore industriale rappresentava un passo verso l’attuazione del principio di uguaglianza quanto al trattamento retributivo costituito dall’indennità di contingenza. Era possibile, in vero, che ci fosse un appiattimento in peius di tale trattamento, ma – ha sottolineato la Corte – il principio della derogabilità a favore del solo lavoratore non ha carattere generale, né assoluto né ancor meno fondamentale, nella Costituzione. Insomma il livellamento al trattamento previsto dalla contrattazione del settore industriale, ove in peius, «non coinvolge l’attività della Corte, che non può né deve farsi carico delle offese a detto principio inferte dalle norme impugnate».
Il tema della scala mobile è tornato nella sentenza n. 34 del 1985 , che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3 del d.l. n. 70/1984, recante misure urgenti in materia di tariffe, di prezzi amministrati e di indennità di contingenza, e dell’articolo unico, ultimo comma, della l. 12 giugno 1984, n. 219, sollevate in riferimento agli artt. 3, 36, 39, 70 e 77 Cost. Era stata censurata la prescrizione in virtù della quale, per il semestre febbraio-luglio 1984, i punti di variazione della misura della indennità di contingenza e di indennità analoghe, per i lavoratori privati, e della indennità integrativa speciale per i dipendenti pubblici, restavano determinati in numero di due dal 1° febbraio e non potevano essere determinati in misura maggiore dal 1° maggio 1984 (il c.d. controverso taglio dei punti di scala mobile).
La Corte ha negato, in conformità alla sua giurisprudenza, che dall’art. 39 Cost. derivi «una riserva, normativa o contrattuale, in favore dei sindacati, per il regolamento dei rapporti di lavoro». È stato ritenuto decisivo che – nel prevedere il taglio di singoli punti di variazione dell’indennità di contingenza e dell’inden¬nità integrativa speciale, senza sovrapporre una nuova ed organica disciplina di questo trattamento retributivo – il legislatore avesse perseguito finalità di carattere pubblico, trascendenti l’ambito della libertà di organizzazione sindacale e della corrispondente autonomia negoziale.
In seguito la Corte (sentenza n. 297 del 1988 ) ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2, comma 1, e 4 del d.l. n. 12/1977, cit., nella parte in cui prescrivevano che gli effetti delle variazioni del costo della vita o di altra forma di indicizzazione non potessero essere computati, a pena di nullità di ogni clausola contrattuale contrastante, in difformità della normativa prevalente posta dagli accordi interconfederali o dai contratti del settore dell’industria per i corrispondenti elementi retributivi e limitatamente a tali elementi. Secondo i giudici rimettenti sarebbe stato violato l’art. 39, comma 4, Cost. in quanto, operando un rinvio formale ad accordi indeterminati nell’esistenza e nel contenuto la norma censurata avrebbe attribuito ad essi efficacia erga omnes. La Corte, nel ritenere non fondata la questione, ha sottolineato la peculiarità dell’emergenza economica che aveva legittimato l’introduzione dei limiti alla contrattazione collettiva. La scelta del legislatore, per finalità di contenimento del costo di lavoro e di contrasto della crisi economica congiunturale, di prevedere come modello la contrattazione vigente nel settore dell’industria è apparsa corretta e – ha osservato la Corte – non ha rappresentato un’estensione, con efficacia erga omnes, dei contratti stipulati in un settore ad altri settori e sovrapposizione alle clausole contenute nei contratti in questi vigenti. È stata la stessa legge a sancire la nullità delle clausole contrattuali difformi.
Sul blocco della scala mobile c’è stata infine la pronuncia (sentenza n. 124 del 1991 ) che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, sopravvenuta dal 28 febbraio 1986, della medesima disposizione già scrutinata nel 1988 (art. 2, comma 1, d.l. n. 12/1977, cit.) nella parte in cui non consentiva la computabilità dell’indennità di contingenza su elementi retributivi diversi da quelli previsti dalla contrattazione collettiva prevalente nel settore dell’industria.
La Corte, partendo dal riconoscimento alla contrattazione collettiva della funzione di fonte regolatrice dei modi di attuazione della garanzia costituzionale del salario sufficiente, sancisce il principio per cui la limitazione della libertà delle parti sociali può avere solo un carattere eccezionale e transitorio in vista del raggiungimento di generali obiettivi di politica economica, una volta conseguiti i quali la conservazione di tali vincoli confligge «non solo con l’art. 39 Cost., ma anche con l’art. 36 del quale la contrattazione collettiva, secondo un’interpre¬tazione costituzionale consolidata, è lo strumento di attuazione». Di qui, la dichiarazione di illegittimità costituzionale “sopravvenuta” della disposizione impugnata.
Questa inversione di tendenza, nel senso del superamento della situazione di emergenza che aveva giustificato gli interventi del 1977 e del 1984, è sopraggiunta quando c’è stata la riforma strutturale dell’indennità di contingenza per il settore privato, attuata dalla l. 26 febbraio 1986, n. 38, sullo stampo della nuova disciplina dell’indennità integrativa speciale nel settore pubblico (d.P.R. 1° febbraio 1986, n. 13). Essa ha introdotto il sistema del punto in percentuale e ha conservato al nuovo meccanismo valore di limite massimo solo nei confronti dei contratti collettivi “vigenti”, mentre per il futuro esso costituiva una norma-standard, alla quale i datori di lavoro avrebbero dovuto attenersi fino a quando non fossero intervenuti nuovi accordi collettivi introducendo una disciplina diversa, eventualmente più favorevole ai lavoratori (da stipularsi a livello interconfederale, come prevedeva l’art. 1, comma 2, l. 13 luglio 1990, n. 1991).
La Corte ha quindi ritenuto che la data di entrata in vigore della l. n. 38/1986 (28 febbraio 1986) fosse, perciò, il più sicuro termine di riferimento del giudizio di sopravvenuta illegittimità costituzionale della norma censurata.
In seguito vi sono ulteriori pronunce sul blocco della perequazione retributiva: in particolare una di interpretazione conforme, l’altra di non fondatezza
La prima è la sentenza n. 242 del 1999 .
Il giudice rimettente dubitava, in riferimento all'art. 36, primo comma, Cost., della legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 5, del decreto-legge n. 384 del 1992, convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre 1992, n. 438, nella parte in cui – precludendo la possibilità di corrispondere aumenti automatici – consentiva che la retribuzione oraria dovuta per il lavoro straordinario fosse inferiore a quella per il lavoro ordinario.
La Corte ha ritenuto che «norme simili [...] sarebbero in contrasto con l’art. 36 della Costituzione se consentissero di retribuire un’ora di lavoro straordinario, notoriamente più gravosa, in misura inferiore rispetto a un’ora di quello ordinario».
L'art. 7, comma 5, citato, va pertanto interpretato nel senso che la norma ha avuto riguardo unicamente ai meccanismi automatici di indicizzazione e soltanto su questi ultimi ha prodotto effetti di "blocco". In quei casi, invece, in cui la dinamica retributiva sia agganciata non a voci indicizzate, ma a voci contrattate (come, appunto, nel caso del compenso per lavoro straordinario), la crescita di queste, che non è vietata dal citato art. 7, comma 1, non impedisce neppure la crescita del compenso per lavoro straordinario. In questo senso, del resto, si è consolidata la giurisprudenza della Corte di cassazione, formatasi con riferimento a norme di identico contenuto rispetto a quella di cui dubita il pretore di Torino.
Successivamente la Corte (sentenza n. 470 del 2002 ) ha operato una più ampia interpretazione del parametro dell’art. 36, primo comma, Cost.; viene affermata, in modo chiaro e categorico, la necessità di una valutazione complessiva della retribuzione; ciò che un po’ limita la portata del parametro, mentre la precedente pronuncia n. 242 del 1999 sembrava aver affermato una valutazione anche differenziata.
La proporzionalità ed adeguatezza della retribuzione va riferita, dunque, non già alle sue singole componenti, ma alla sua globalità. In precedenza la Corte, nella sentenza n. 164 del 1994 , aveva affermato che «il silenzio dell'art. 36 Cost. sulla struttura della retribuzione e sull'articolazione delle voci che la compongono significa che è rimessa insindacabilmente alla contrattazione collettiva la determinazione degli elementi che concorrono a formare, condizionandosi a vicenda, il trattamento economico complessivo dei lavoratori, del quale il giudice potrà poi essere chiamato a verificare la corrispondenza ai minimi garantiti dalla norma costituzionale».
Quindi, la valutazione di conformità all’art. 36 Cost. non può essere delimitata a singole e particolari voci retributive, ma può essere espressa solamente con riguardo all’ammontare complessivo della retribuzione percepita dal lavoratore.
9. Rivalutazione e interessi sui crediti di lavoro (sentenza n. 459 del 2000).
Contigua alla tematica della retribuzione proporzionata e sufficiente è quella che concerne la speciale disciplina della rivalutazione dei crediti retributivi e degli interessi in caso di ritardato adempimento.
La Corte (sentenza n. 459 del 2000 ) ha scrutinato la norma che prevede che, per gli emolumenti di natura retributiva, pensionistica ed assistenziale, per i quali non sia maturato il diritto alla percezione entro il 31 dicembre 1994, spettanti ai dipendenti pubblici e privati in attività di servizio o in quiescenza, l'importo dovuto a titolo di interessi è portato in detrazione dalle somme eventualmente spettanti a ristoro del maggior danno subito dal titolare della prestazione per la diminuzione del valore del suo credito (art. 22, comma 36, legge n. 724 del 1994). La norma – ha ritenuto la Corte – risulta in contrasto con l'art. 36 della Costituzione e va, pertanto, dichiarata incostituzionale, limitatamente alle parole "e privati", venendo in tal modo ricondotta a legittimità la disciplina dei rapporti di lavoro di diritto privato.
Quindi la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della disposizione censurata nella parte in cui estendeva all'ipotesi dell'inadempimento dei crediti retributivi dei lavoratori subordinati privati la regola della non cumulabilità degli interessi e della rivalutazione monetaria, già prevista per i crediti previdenziali dall'art. 16, comma 6, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, così sottraendoli al regime di cui all'art. 429, terzo comma, c.p.c..
Successivamente la Corte (sentenza n. 82 del 2003 ) ha considerato che la ratio decidendi della precedente sentenza n. 459 del 2000 non può essere automaticamente estesa al datore di lavoro pubblico. La pubblica amministrazione, infatti, conserva pur sempre – anche in presenza di un rapporto di lavoro ormai contrattualizzato – una connotazione peculiare, sotto il profilo della conformazione della condotta cui essa è tenuta durante lo svolgimento del rapporto al rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento, cui è estranea ogni logica speculativa.
D'altro canto, la norma impugnata prevede per gli accessori dei crediti di lavoro pubblico una disciplina comunque diversificata rispetto a quella dei crediti comuni, e per taluni aspetti più favorevole per il lavoratore, giacché gli attribuisce automaticamente il beneficio della rivalutazione a titolo di maggior danno e lo esonera dall'onere della relativa prova.
10. Retribuzione e trattamento pensionistico (sentenza n. 234 del 2020).
Il principio della retribuzione proporzionata e sufficiente (art. 36, primo comma, Cost.) non si estende automaticamente ai trattamenti pensionistici.
La Corte (sentenza n. 234 del 2020 ) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 261, della legge 30 dicembre 2018, n. 145, nella parte in cui stabilisce la riduzione dei trattamenti pensionistici ivi indicati «per la durata di cinque anni», anziché «per la durata di tre anni»
L’art. 1, comma 260, di tale legge n. 145 del 2018 ha stabilito che, per il periodo 2019-2021, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici è riconosciuta nella misura del 100 per cento soltanto per quelli complessivamente pari o inferiori a tre volte il minimo INPS, mentre, per quelli superiori a tre volte, la rivalutazione è riconosciuta in misura decrescente (tra il 97% e il 40%).
Le questioni relative all’art. 1, comma 260, della legge n. 145 del 2018, sollevate in riferimento agli artt. 3, 36 e 38 Cost., sono state dichiarate non fondate.
La Corte (sentenze n. 250 del 2017 e n. 173 del 2016 ) ha più volte evidenziato che, nella prospettiva dell’art. 38, secondo comma, Cost., la perequazione automatica è uno strumento di natura tecnica volto a garantire nel tempo l’adeguatezza dei trattamenti pensionistici, dei quali salvaguarda il valore reale al cospetto della pressione inflazionistica.
Essa è altresì funzionale all’attuazione dei principi di sufficienza e proporzionalità della retribuzione, sanciti dall’art. 36, primo comma, Cost.; ciò senza che possa tuttavia configurarsi un rigido parallelismo tra la garanzia di cui all’art. 38 Cost. e quella di cui all’art. 36 Cost., tenuto conto che la prima è agganciata alla seconda «non in modo indefettibile e strettamente proporzionale».
Nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale di tale disposizione, anche allora sollevate in riferimento agli artt. 3, 36 e 38 Cost., la sentenza n. 316 del 2010 ha affermato che «dev’essere riconosciuta al legislatore – all’interno di un disegno complessivo di razionalizzazione della precedente riforma previdenziale – la libertà di adottare misure, come quella denunciata, di concorso solidaristico al finanziamento di un riassetto progressivo delle pensioni di anzianità, onde riequilibrare il sistema a costo invariato».
Invece con riferimento ai parametri di cui gli artt. 3, 23, 36 e 38 Cost., le questioni relative all’art. 1, comma 261, della legge n. 145 del 2018 sono state ritenute fondate – dalla cit. sentenza n. 234 del 2020 – limitatamente alla durata della riduzione dei trattamenti, nella parte in cui questa è stabilita «per la durata di cinque anni», anziché «per la durata di tre anni».
11. Mutamento di mansioni e relativo trattamento retributivo (sentenza n. 71 del 2021 e ordinanza n. 78 del 2024).
L’adeguatezza della retribuzione, che deriva dall’art. 36, primo comma, Cost., è naturalmente misurata con riferimento alle caratteristiche qualitative e quantitative della prestazione lavorativa e quindi essenzialmente alle mansioni svolte.
La Corte (sentenza n. 115 del 2003 ) è intervenuta in tema di retribuzione e mutamento di mansioni.
Il giudice remittente riteneva che la disposizione di una legge regionale (art. 24, comma 3, della legge della Regione Lombardia 26 aprile 1990, n. 25) confliggesse con l'art. 36, primo comma, Cost., nella parte in cui prevedeva, nei confronti dell'assistente sociale coordinatore che avesse svolto le mansioni di dirigente responsabile del servizio di assistenza sociale, l'attribuzione soltanto del trattamento economico spettante per la qualifica di appartenenza e delle indennità connesse all'esercizio delle mansioni concernenti la qualifica superiore, e non anche del trattamento fondamentale corrispondente a tale ultima qualifica.
La Corte, nel dichiarare non fondata la sollevata questione, ha comunque ribadito che il principio di proporzionalità della retribuzione, di cui all'art. 36, primo comma, Cost., richiede che «il temporaneo svolgimento delle mansioni superiori sia sempre aggiuntivamente compensato rispetto alla retribuzione della qualifica di appartenenza, ma non impone la piena corrispondenza al complessivo trattamento economico di chi sia titolare di quelle funzioni appartenendo ad un ruolo diverso ed essendo stata oggettivamente accertata con apposita selezione concorsuale la maggiore qualificazione professionale, significativa di una più elevata qualità del lavoro prestato». In altri termini, lo svolgimento di mansioni superiori non implica l'automatica applicazione del corrispondente trattamento economico, ben potendo essere non pienamente omogenee le prestazioni lavorative effettuate
Successivamente la Corte (sentenza n. 17 del 2014 ) ha svolto ulteriori considerazioni sul tema. In applicazione del principio della retribuzione proporzionata (alla quantità e qualità del lavoro prestato) di cui all’art. 36, primo comma, Cost., da sempre ritenuto applicabile anche al pubblico impiego, il lavoratore illegittimamente preposto a mansioni superiori ha pur sempre diritto alla differenza di trattamento con la qualifica più elevata, purché le relative mansioni gli siano state attribuite in modo prevalente sotto il profilo quantitativo, qualitativo e temporale. Però la norma regionale impugnata, dichiarata costituzionalmente illegittima, imponeva al funzionario di grado più elevato di assumere funzioni dirigenziali «in caso di assenza o impedimento del dirigente derivante da qualsiasi motivo», ma gli riconosceva il più favorevole trattamento economico corrispondente indipendentemente dalla valutazione dell’impegno concreto, sotteso all’espletamento delle mansioni superiori, in termini di preminenza qualitativa, quantitativa e temporale.
Secondo la giurisprudenza della Corte, il lavoratore preposto a mansioni superiori ha diritto alla differenza di trattamento con la qualifica più elevata in virtù del principio della retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, di cui all’art. 36, primo comma, Cost., applicabile anche al pubblico impiego.
In particolare la Corte (sentenza n. 108 del 2016) ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del combinato disposto dei commi 44 e 45 dell'art. 1 della legge 24 dicembre 2012, n. 228 – che, di fatto, produceva l'azzeramento del compenso per le mansioni superiori, in quanto il trattamento complessivo in godimento è già pari o superiore a quello previsto come trattamento tabellare per la qualifica iniziale – nella parte in cui non escludeva dalla sua applicazione i contratti di conferimento delle mansioni superiori di direttore dei servizi generali ed amministrativi stipulati antecedentemente alla sua entrata in vigore. Ha affermato, in generale, che «non è consentito che la fonte normativa sopravvenuta incida irragionevolmente su un diritto acquisito attraverso un contratto regolarmente stipulato secondo la disciplina al momento vigente».
La questione era stata sollevata nell'ambito del giudizio promosso da una dipendente del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, con qualifica di assistente amministrativo, la quale svolgeva su domanda funzioni superiori di reggenza di direttore dei servizi generali ed amministrativi (DSGA) presso un istituto scolastico.
Quindi, per effetto della nuova disposizione, in luogo del criterio in precedenza adottato (che prendeva a riferimento le retribuzioni tabellari nelle rispettive qualifiche iniziali dell'assistente amministrativo e del DSGA), si doveva tenere conto dell'intero trattamento economico complessivamente goduto dall'assistente amministrativo incaricato. Ne conseguiva che la valorizzazione dell'intero trattamento goduto dall'assistente amministrativo, in ogni caso di rilevante anzianità di servizio (superiore a 21 anni), produceva l'azzeramento del compenso per le mansioni superiori, in quanto il trattamento complessivo in godimento era già pari o superiore a quello previsto come trattamento tabellare per la qualifica iniziale di DSGA.
Più recentemente la Corte (sentenza n. 71 del 2021 ) è ritornata sul tema considerando che, alla stregua della normativa censurata, a decorrere dall’anno scolastico 2012-2013, agli assistenti amministrativi incaricati di svolgere le mansioni di direttore dei servizi generali e amministrativi (DSGA) viene riconosciuto un trattamento economico pari alla differenza tra quello previsto per quest’ultimo al livello iniziale della progressione economica e quello complessivamente goduto dall’assistente amministrativo incaricato. La Corte ha, quindi, dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto dei commi 44 e 45 dell'art. 1, sollevate in riferimento agli artt. 3 e 36, primo comma, della Costituzione.
Come già rilevato dalla Corte (sentenza n. 108 del 2016, cit. ), l’attuale meccanismo, in quanto ancorato al differenziale tra il trattamento complessivo percepito dall’assistente amministrativo che ha ricevuto l’incarico e quello tabellarmente previsto come iniziale per il DSGA, comporta, dopo i 21 anni di anzianità, l’azzeramento del compenso per le mansioni superiori.
Ciò, tuttavia, non contrasta con l’art. 36, primo comma, Cost.
Anzitutto, «la garanzia apprestata dall’art. 36 della Costituzione non esclude la legittimità di una prestazione volontariamente resa senza la previsione di un compenso» e tale è da considerare l’incarico di DSGA svolto da un assistente amministrativo che abbia raggiunto o superato il citato livello di anzianità, posto che esso trova fondamento volontaristico sia nella manifestazione di disponibilità all’assegnazione delle mansioni superiori che nel successivo contratto a tempo determinato stipulato con l’amministrazione. In secondo luogo, la Corte «si è ripetutamente pronunciata sul punto della necessità di una valutazione complessiva della retribuzione, ai fini del giudizio sulla sufficienza e la proporzionalità della stessa al lavoro prestato».
Più recentemente la Corte (ordinanza n. 78 del 2024 ) ha ribadito tali principi.
Con riferimento ad altra fattispecie la Corte (sentenza n. 145 del 2022 ) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1-bis del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, conv. in l. 14 settembre 2011, n. 148, nella parte in cui disponeva, per le fattispecie sorte prima della sua entrata in vigore, che il trattamento economico complessivamente spettante al personale dell’Amministrazione affari esteri, nel periodo di servizio all’estero, anche con riferimento allo stipendio e agli assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l’interno, non includesse l’indennità di amministrazione.
L’incostituzionalità riguarda le fattispecie sorte prima della entrata in vigore della disposizione censurata. Per queste, e solo per queste, il trattamento economico complessivamente spettante al personale dell’Amministrazione affari esteri, nel periodo di servizio all’estero, anche con riferimento allo stipendio e agli assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l’interno, deve includere l’indennità di amministrazione.
Invece per le fattispecie successive rimane il divieto di cumulo.
12. Il trattamento di fine servizio (sentenze n. 159 del 2019, n. 130 del 2023 e n. 73 del 2024).
La retribuzione, coperta dalla garanzia dell’art. 36, primo comma, Cost., non è solo quella spettante periodicamente al lavoratore in costanza di rapporto di lavoro, ma anche quella differita; tali sono il trattamento di fine rapporto e, in precedenza, l’indennità di anzianità, nonché emolumenti analoghi spettanti al lavoratore alla cessazione del rapporto di lavoro.
Recentemente la Corte si è pronunciata in tema di indennità di servizio spettante ai dipendenti pubblici.
Con sentenza n. 159 del 2019 la Corte ha scrutinato le disposizioni di legge che prevedono un pagamento differito e rateale dei trattamenti di fine servizio, comunque denominati, spettanti ai dipendenti pubblici (art. 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79, e dell’art. 12, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78), quanto ai trattamenti di anzianità, ossia quelli diversi dai trattamenti di vecchiaia, spettanti a seguito della cessazione dall’impiego per raggiungimento dei limiti di età o di servizio o per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio. La Corte ha dichiarato non fondate le questioni che hanno investito tali disposizioni nella parte in cui prevedono il pagamento rateale delle indennità spettanti a seguito di cessazione dall’impiego nelle ipotesi diverse dalla «cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamento applicabili nell’amministrazione».
Per un verso la Corte ha escluso la denunciata disparità di trattamento tra il settore pubblico e il settore privato, quanto ai tempi di liquidazione delle indennità di fine rapporto.
Poi, oltre al principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), è venuto in rilievo il diritto di percepire una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto (art. 36, primo comma, Cost.).
Il carattere di retribuzione differita, comune a tali indennità, le attira nella sfera dell’art. 36, primo comma, Cost., che prescrive, per ogni forma di trattamento retributivo, la proporzionalità alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e l’idoneità a garantire, in ogni caso, un’esistenza libera e dignitosa.
La Corte richiama la valutazione della globalità del trattamento retributivo (sentenza n. 213 del 2018 : la sufficienza e la proporzionalità della retribuzione devono essere valutate avendo riguardo al trattamento complessivo e non a una singola sua componente, quale è l’importo del contributo previdenziale soppresso.
Il regime di pagamento differito e rateale – analizzato nel peculiare contesto normativo di riferimento, nelle finalità e nell’insieme delle previsioni che caratterizzano la relativa disciplina – non risulta complessivamente sperequato.
La Corte, però, ha segnalato al Parlamento l’urgenza di ridefinire una disciplina non priva di aspetti problematici, nell’àmbito di una organica revisione dell’intera materia, peraltro indicata come indifferibile nel recente dibattito parlamentare.
La disciplina censurata ha smarrito un orizzonte temporale definito e la iniziale connessione con il consolidamento dei conti pubblici che l’aveva giustificata.
Successivamente la Corte è stata investita nuovamente dal TAR Lazio che, con riguardo ai trattamenti di vecchiaia, ha dubitato della legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997, come convertito, e dell'art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito, in riferimento esclusivamente all'art. 36, primo comma, Cost.
La Corte (sentenza n. 130 del 2023 ) ha ribadito che la natura retributiva attira le prestazioni in esame nell'ambito applicativo dell'art. 36 Cost., essendo l'emolumento di cui si tratta volto a sopperire alle peculiari esigenze del lavoratore in una «particolare e più vulnerabile stagione dell'esistenza umana». Ha considerato il quadro macroeconomico in cui il sensibile incremento della pressione inflazionistica acuisce l'esigenza di salvaguardare il valore reale della retribuzione, anche differita, posto che il rapporto di proporzionalità, garantito dall'art. 36, primo comma, Cost., tra retribuzione e quantità e qualità del lavoro, richiede di essere riferito «ai valori reali di entrambi i suoi termini». Pertanto «non sarebbe tollerabile l'eccessivo protrarsi dell'inerzia legislativa in ordine ai gravi problemi individuati dalla presente pronuncia».
Secondo la Corte il termine dilatorio di dodici mesi quale risultante dall'art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997, come convertito, e successive modificazioni, oggi non rispetta più né il requisito della temporaneità, né i limiti posti dai principi di ragionevolezza e di proporzionalità.
A differenza del pagamento differito dell'indennità di fine servizio in caso di cessazione anticipata dall'impiego – in cui il sacrificio inflitto dal meccanismo dilatorio trova giustificazione nella finalità di disincentivare i pensionamenti anticipati e di promuovere la prosecuzione dell'attività lavorativa – il ( più breve) differimento operante in caso di cessazione dal rapporto di lavoro per raggiunti limiti di età o di servizio non realizza un equilibrato componimento dei contrapposti interessi alla tempestività della liquidazione del trattamento, da un lato, e al pareggio di bilancio, dall'altro.
In sostanza la Corte ha ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale sulla disparità di trattamento fra TFR e TFS in ragione del differimento della corresponsione dei trattamenti di fine servizio componente integrante della retribuzione, spettanti ai dipendenti pubblici cessati dall’impiego per raggiunti limiti di età o di servizio. Violato è il principio della giusta retribuzione, che «si sostanzia non solamente nella congruità dell’ammontare corrisposto, ma anche nella tempestività della erogazione». La Corte, però, riconosce di non potere «allo stato, porre rimedio, posto che il quomodo delle soluzioni attinge alla discrezionalità del legislatore», aggiungendo poi che il legislatore dovrebbe formulare «una soluzione che, in ossequio ai richiamati principi di adeguatezza della retribuzione, di ragionevolezza e proporzionalità, si sviluppi muovendo dai trattamenti meno elevati per estendersi via via agli altri». Spetterà al legislatore individuare «i mezzi e le modalità di attuazione di un intervento riformatore che tenga conto anche degli impegni assunti nell’ambito della precedente programmazione economico-finanziaria».
La pronuncia è stata quindi di inammissibilità della questione; però contiene una valutazione di illegittimità costituzionale accertata, ma non dichiarata (sul modello della decisione di incompatibilità, la cosiddetta Unvereinbarkeitserklärung, del Bundesverfassungsgericht).
Infine può ricordarsi la recente sentenza n. 73 del 2024 , in tema di T.F.S. (trattamento di fine servizio) spettante agli Avvocati dell’Inail. La Corte ha dichiarato non fondate le censure mosse avverso tale disciplina nella parte in cui non consente che la quota delle competenze e degli onorari giudizialmente liquidati in favore degli enti pubblici non economici, attribuita dall'art. 26, quarto comma, della stessa legge agli appartenenti al ruolo professionale legale da essi dipendenti, sia computata, neanche in parte, nel calcolo dell'indennità di anzianità a costoro spettante. Tale disciplina era stata censurata con riferimento all'art. 36, primo comma, Cost., in quanto escluderebbe «ogni ragionevole proporzione» tra l'indennità di anzianità spettante al dipendente parastatale appartenente al ruolo professionale legale e il trattamento economico di attività dallo stesso percepito nel corso e al termine della sua carriera. La Corte ha ribadito che lo scrutinio sulla conformità di una disciplina sulla retribuzione – e dunque anche sulla retribuzione differita – all'art. 36, primo comma, Cost. non può essere svolto atomisticamente, dovendo investire il trattamento economico del lavoratore nel suo complesso e non i singoli elementi che lo compongono, né le prestazioni accessorie. Spetta alla discrezionalità del legislatore individuare, nel rispetto del principio di eguaglianza e delle garanzie sancite dall'art. 36, primo comma, Cost., la base retributiva delle singole indennità di fine servizio nonché i modi e la misura delle stesse.