TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1.- Premessa
Non è agevole per me che sono stato relatore delle prime tre sentenze della serie, pubblicata nell’ottobre del 2023, riferire della giurisprudenza di legittimità in materia di salario minimo costituzionale che ha indubbiamente suscitato tanto interesse e reazioni di diverso spessore e contenuti, in vari ambienti e livelli.
Ed allora, piuttosto che esporre nei dettagli i contenuti delle pronunce oramai note, proverò a confrontarmi con chi mi ha preceduto e rispondere ai dubbi ed ai rilievi critici che sono stati sollevati in proposito; ed a segnalare quelle che, a mio giudizio, potrebbero essere prospettive e potenzialità suscitate dalla stessa giurisprudenza.
È fondamentale ricordare in esordio quale fosse l’oggetto dell’intervento della Corte.
La domanda che le era stata rivolta era se le retribuzioni erogate in base ai contratti collettivi sottoscritti dai sindacati comparativamente più rappresentativi fossero sottratte al sindacato di conformità richiesto dall'art. 36 della Costituzione.
Ed in questa domanda erano implicate due questioni essenziali. Anzitutto se esista un minimo costituzionale che si imponga su tutto, compresi i contratti collettivi di cui sopra, e quale sia questo minimo, come si determina la sua misura.
La seconda questione, dibattuta in alcune di quelle cause, era cosa accada quando la retribuzione erogata ad un lavoratore sia prevista da un contratto collettivo il cui rispetto sia imposto da una legge di sostegno della contrattazione (come per i soci lavoratori di cooperativa) .
Questo il quadro essenziale dei problemi giuridici che la Corte era chiamata a dipanare; certamente in base alle regole in vigore e confrontandosi con la giurisprudenza che era intervenuta copiosa sul tema dei rapporti tra retribuzione ed art. 36 Cost., fin dagli anni ‘50.
2.- Sei sentenze sul lavoro povero
È noto che nella soluzione di ogni problema giuridico conta molto anche il metodo con cui l’interprete approccia la questione che gli è devoluta. E nel diritto del lavoro conta soprattutto se egli intende tenersi o meno alla larga dalla realtà sociale o se invece considera che nessuno dei problemi di cui si deve occupare possa essere anche soltanto compreso, senza confrontarsi con il contesto nel quale quel problema viene generato e si colloca.
Nel nostro caso la scelta metodologica era in qualche modo obbligata: perché le sentenze dell’ottobre scorso sono state sei e questo dato della pluralità dei casi, da affrontare in un'unica udienza, era di per sé indicativo dell’esistenza di un problema più generale emerso da tempo in varie sedi contenziose, persino penali ed amministrative.
Un problema cresciuto molto in questi ultimi anni, su cui c’è stata una attenzione nuova della dottrina, ma anche delle forze politiche nazionali ed europee, tanto che l’Unione Europea è giunta ad emanare nel 2022 la direttiva n. 2041 in materia di adeguatezza dei salari per conseguire, essa dice, gli obiettivi della dignità del lavoro, l’inclusione sociale e il contrasto alla povertà; considerando altresì che la salvaguardia e l’adeguamento dei salari minimi «contribuiscono a sostenere la domanda interna».
Questo problema sociale di fondo – su cui pure la Corte di Cassazione è stata infine chiamata a confrontarsi- è esattamente quello dei salari troppo bassi che esistono nel nostro paese e del “lavoro povero”: che non è un ossimoro, come si dice, ma la risultante di un processo di precarizzazione dei diritti del lavoro intrapreso da diversi decenni.
L’Italia è l’unico paese dell’Occidente industrializzato dove negli ultimi 30 anni i salari non solo non sono cresciuti, ma sono scesi in termini reali di valore. Lo dice anche il Rapporto dell’Istat pubblicato il 7 maggio 2024. Mentre la recente relazione del governatore della Banca d’Italia relativa al 2023 conferma che a causa dell’andamento inflazionistico, solo nel biennio 2022-23 i lavoratori italiani hanno subito una perdita netta del potere di acquisto di circa il 10 per cento.
Ora, dinanzi a questo stato di cose, la Corte di Cassazione ha cercato di fornire in primo luogo una risposta argomentata e comprensibile, in connessione con i problemi del tempo e con lo stesso dibattito sociale suscitato dall’intervento del legislatore europeo.
Alcuni commentatori hanno contestato persino l’organicità della risposta: avrebbero preferito forse la giustizia sorda o tralaticia, quella che si risolve con il rinvio a qualche precedente contenuto nel massimario? Perché in effetti erano anni che sul tema del rapporto tra salario, contrattazione collettiva e Costituzione venivano pronunciate sentenze, anche di legittimità, anche con le stesse soluzioni, ma senza che nessuno se ne fosse nemmeno accorto (ad es. tra le tante Cass. nn. 38666/21, 17698/22).
Forse perché in queste decisioni non veniva dichiarato del tutto l’ordine necessario delle cose che pure deve esistere nell’ordinamento; posto che quelli di proporzionalità e sufficienza sono principi di spessore costituzionale proprio perché dall’alto della piramide devono prevalere gerarchicamente sul contratto individuale, sul contratto collettivo, sulle leggi che richiamino i contratti collettivi.
Nelle decisioni di cui ci occupiamo la Corte di cassazione ha scelto invece di soffermarsi, ed anche con una certa pignoleria, sullo scenario socio economico che faceva da sfondo alla questione che era chiamata ad affrontare. Ed ha evidenziato le diverse questioni che vengono dibattute in questo contesto, tra le quali la frammentazione della rappresentanza sindacale; la proliferazione abnorme del numero dei CCNL; la moltiplicazione del fenomeno della disparità di retribuzione a parità di lavoro; il ritardo abituale dei rinnovi dei contratti collettivi.
Ma c’era un altro e più specifico elemento di contesto da cui nessun giudice pur volendo può prescindere, ed esso era costituito dai fatti di causa. Perché il lavoro viene sempre reso in un determinato contesto organizzativo dentro cui va sempre calata la norma; e nei casi sottoposti al giudizio della Corte, i lavoratori (addetti al servizio di vigilanza privata) lamentavano che, da un appalto all’altro, si fosse prodotto il risultato paradossale di una diminuzione della loro retribuzione, pur nell’identità dell’attività di lavoro da essi svolta alle dipendenze dello stesso datore: e ciò proprio in virtù dell’applicazione di CCNL sempre diversi e peggiorativi, via via sottoscritti anche dalle OO.SS. maggiormente rappresentative.
Questo era il fatto concreto, invero sconcertante, sotteso a quei giudizi in cui i lavoratori - a fronte di salari da 800/900 euro lordi al mese per 40 ore di lavoro settimanali – chiedevano l’adeguamento della retribuzione alla Costituzione invocando l’art.36 secondo il paradigma classico della immediata precettività della norma; disatteso invece dai giudici di appello con la motivazione che i contratti collettivi sottoscritti da organizzazioni sindacali maggiormente rappresentativi non si potessero disapplicare.
3.- Bassa misura dei salari, frammentarietà del lavoro e anomia contrattuale: un unico articolato problema
La bassa misura dei salari nel nostro Paese dipende in generale dalla perdita di valore del lavoro negli ultimi trent’anni, della sua dimensione politica, prima ancora che economica. Ma è anche la risultante di una regolamentazione incongrua, lacunosa, in alcuni tratti incomprensibile; e dovrebbe perciò interpellare molto i giuristi del lavoro.
Sotto il profilo regolativo, conta in primo luogo il modello organizzativo frammentario e di impresa pulviscolare favorito dalle normative soft introdotte negli ultimi decenni in materia di appalti di servizi, subappalti, cambi appalti, cooperative, ecc. Una normativa che si è rivelata anche border line se è vero che, come constatiamo ogni giorno nelle aule di giustizia, in tutte le più grandi imprese del Paese si fa uso non solo dell’appalto ma anche del caporalato; e le cause di lavoro sempre più spesso vengono oramai precedute da procedimenti penali (in materia di somministrazione illecita di manodopera, sfruttamento del lavoro, frodi fiscali per operazioni inesistenti).
E nel sistema di appalti e sub appalti che impera nel nostro Paese il marcio è sempre a monte. Perché il committente guadagna sempre e tanto; e chi sta in basso, e deve lavorare, perde sempre e non poco, perché il sub appalto a cascata richiede inesorabilmente di ridurre il costo del lavoro.
Da qui nascono l’instabilità del rapporto, la mancanza di una paga dignitosa, l’attentato alla salute ed alla sicurezza nei luoghi di lavoro (i morti del cantiere di Firenze, quelli della ferrovia a Brandizzo, quelli della diga di Suviana, i morti sconosciuti di ogni giorno nei lavori in appalto o sub appalto).
Perché, se c’è una verità che abbiamo appreso - dalla realtà del lavoro nel nostro Paese - in tutti questi anni di esercizio della giurisdizione, è che nel rapporto di lavoro i diritti e le tutele sono tutti collegati e si tengono assieme; e che l’insicurezza sul lavoro è figlia anche dell’insicurezza del lavoro e delle paghe basse.
Ma non solo. Questa situazione è pure frutto dell’anomia e della macchinosità che contraddistingue il nostro sistema di relazioni industriali.
Non esiste solo la frantumazione oggettiva della contrattazione riferita alla perimetrazione e alle categorie professionali (aldilà della distinzione storica dei settori tra piccole e grandi imprese, artigianato e cooperative). Anche il versante dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo non è soddisfacente: regolato ancora dal diritto comune, ogni associazione sindacale e datoriale può darsi il contratto collettivo che desidera. E soprattutto – salvo alcuni settori coperti da un rinvio legale alla contrattazione di categoria - ogni datore può applicare il CCNL che vuole: dando vita ad un sistema che, svincolato dal rispetto dei criteri della categoria merceologica, finisce per esaltare in realtà un'unica volontà negoziale. Ne è prova il recente caso con cui la Corte di Cassazione ha dovuto regolare (ordinanza n. 7203/24) la pretesa di un datore di lavoro di applicare ad libitum CCNL differenti all’interno della medesima impresa ( una pretesa che era stata riconosciuta fondata nei due precedenti gradi di merito).
A questo profilo della libertà del datore di lavoro di scegliere il contratto per lui più conveniente sotto il profilo retributivo, si associa poi, per i profili contributivi e previdenziali, l’obbligo di rispettare sempre il contratto collettivo nazionale di categoria; e non un qualsiasi CCNL ma appunto quello sottoscritto dai sindacati comparativamente più rappresentativi.
Ed anche questo doppio registro - retributivo e contributivo - genera una evidente distonia, difficilmente giustificabile a lume di ragione se si considera la copertura e la connessione che caratterizza sul piano costituzionale entrambi i diritti del lavoratore (previdenziali e retributivi).
Resterebbe da spiegare (anche interpellando la Corte Costituzionale) come sia possibile rapportare l’adeguatezza della prestazione previdenziale prevista dall’art. 38, 2 comma Cost. ad una retribuzione la cui percezione non viene però in concreto garantita dall’ordinamento ad ogni lavoratore.
Ora, proprio all’interno di questa contorta situazione (sociale, politica e giuridica) può accadere ed accade di fatto che la contrattazione collettiva e la libertà sindacale - presidi massimi ed ineliminabili per la tutela dei diritti dei lavoratori, tutelati dall’art. 39 Cost. - possano entrare in tensione con il principio del salario minimo e proporzionato previsto dall’art. 36 della Costituzione.
E se c’è stato un tempo in cui bastava in effetti rinviare all’unico CCNL di categoria per assicurare la dignità del lavoro, oggi questo schema non funziona più. Perché se in ogni settore ci sono 4 o 5 o più contratti collettivi, che si fanno concorrenza al ribasso, qualcuno alla fine deve pur scegliere e porre un limite, per il rispetto dovuto all’art.36 Cost. E questo qualcuno, almeno per ora, nel nostro ordinamento, non può che essere il giudice (salvo che si voglia lasciar fare all’infinito, senza porre nessun freno allo sfruttamento dei prestatori di lavoro).
E nella articolata situazione appena descritta, l’obiettivo della giusta retribuzione è divenuto oggi un problema (sociale, politico e giuridico) che non dipende sempre dalla produttività del lavoro, né come pure si è detto - in una logica economicistica - dalla necessità di correggere la distorsione della rendita monopsonistica; trattandosi spesso di impedire il conseguimento di profitti immeritati, legati alla concorrenza al ribasso sul costo del lavoro e sulla pelle delle persone.
4.- Le sentenze dell’ottobre 2023
In questo quadro e su questo coacervo di problemi è intervenuta la giurisprudenza della Cassazione dell’ottobre scorso che ha inteso offrire una risposta a questa tensione costituzionale tra art. 39 (libertà sindacale) e art. 36 (e salario proporzionato e sufficiente) che si è prodotta nel nostro Paese.
Una risposta che deve considerarsi necessitata ed in linea con la giurisprudenza consolidata, perché essa si ricollega – nel suo nucleo essenziale - all’insegnamento con cui, fin dagli anni 50, la Cassazione dichiarò che l’art. 36 è norma inderogabile ed immediatamente precettiva, ad efficacia diretta cioè sul contratto individuale, all’interno del quale conforma - con la mediazione del giudice ex art 2099 c.c. - il diritto al salario costituzionale, nelle sue due inseparabili componenti (di sufficienza e proporzionalità), e senza alcuna dissociazione tra le stesse.
Un diritto che il giudice deve garantire, facendo appunto riferimento esterno, parametrico, ai minimi del contratto collettivo di categoria; non solo in mancanza di determinazione del salario nel contratto individuale, ma anche in sostituzione del salario contrattuale, tanto di quello individuale che di quello collettivo; sia in entrata sia in uscita dal CCNL quindi.
Ed è un punto questo che deve essere rimarcato; perché anche qui, qualcuno di corta memoria, si è dimenticato che mai era stato detto nella giurisprudenza di legittimità che il contratto collettivo non si potesse toccare ex art. 36 Cost. Mentre, al contrario, che il giudice - in sede di applicazione dell’art.36 Cost. - possa cambiare il contratto collettivo di riferimento applicato dal datore al rapporto, non lo ha detto per la prima volta la Cassazione dell’ottobre 2023 (come alcuni continuano ad affermare) ma lo hanno sostenuto a chiare lettere le Sez. Unite (rel. Roselli) con la sentenza n. 2665/1997, mai smentita successivamente.
Precisamente le Sez. unite dissero che in caso di violazione dell’art. 36 il contratto collettivo di diritto comune - applicato al rapporto di lavoro secondo il criterio della volontà – possa essere sostituito dal contratto di categoria da applicare secondo il piu’ consono criterio merceologico, alla stregua del paradigma originario previsto dall’art.2070 c.c. (ai soli fini retributivi e del rispetto dei parametri di sufficienza e proporzionalità di cui si discorre).
E ciò, ovviamente, a prescindere dal requisito della rappresentatività sindacale: perché l’art. 36 Cost. guarda al risultato (della sufficienza e proporzionalità) e non consente di distinguere, di per sé, tra sindacati comparativamente più rappresentativi, maggiormente rappresentativi, solo rappresentativi o sindacati non rappresentativi.
Anche perché qui esiste una gerarchia tra le norme; poiché la libertà sindacale ex art 39, tanto più in una situazione di crisi e di tensione, non può mai fagocitare il diritto alla retribuzione sufficiente ex art. 36 ; che è un diritto che rinvia anche ad un dato primario pregiuridico, come la dignità della persona che tutti sono tenuti a riconoscere: anche il sistema della contrattazione e l’organizzazione sindacale, che si legittimano non per ciò che sono, ma per quello che fanno.
Ed occorre qui citare un giurista certamente non ostile al sindacato – come Massimo D’Antona - secondo il quale la libertà sindacale, l’organizzazione, la contrattazione collettiva costituiscono per la nostra Costituzione soltanto dei mezzi e non certo dei fini: perché il fine non può che essere invece l’eguaglianza sostanziale prevista dall’art.3, secondo comma.
Con parole diverse si potrebbe dire che i due requisiti di sufficienza e proporzionalità costituiscono pure limiti all'autonomia negoziale, anche collettiva. Come lo sono anche quelli che la legge deve dettare in materia di durata massima della prestazione, di riposi e ferie individuali, previsti nei commi 2 e 3 dello stesso art. 36, che pure andrebbero valorizzati nell’ottica della interpretazione sistematica della normativa.
Anche la c.d. libertà sindacale negativa subisce una limitazione di fronte all’art. 36 Cost., che garantisce anche la parità di trattamento nell’area merceologica a livello nazionale a proposito della retribuzione di base e si impone su qualunque diversa decisione dell’impresa, quanto meno ai fini dell’identificazione dei minimi tabellari.
E tutto questo fin da quando esiste nell’ordinamento l’art. 36 Cost., sicché non può ritenersi giustificata, sotto alcun profilo, la tesi secondo la quale la giurisprudenza di legittimità del 2023 sarebbe così nuova e dirompente da doversi applicare solo per il futuro, senza la naturale retroattività rispetto ai fatti cui si riferisce la domanda svolta nel giudizio.
5.- L’art. 36 e la discrezionalità del giudice
Tornando ai contenuti delle sentenze dell’ottobre scorso, va altresì posto in evidenza che nell’opera di attuazione dell’art. 36 della Cost. la giurisprudenza consolidata aveva sempre e tradizionalmente attribuito al giudice una ampia discrezionalità nella determinazione del salario costituzionale; dovendo egli utilizzare i CCNL non come elemento normativo diretto della retribuzione del lavoratore ma come parametri esterni di una determinazione che sarebbe dovuta avvenire essenzialmente secondo equità ( e quindi rimessa alla giustizia del caso concreto ed alla congruità della motivazione, che la stessa Cassazione però non controlla praticamente più come error in procedendo, dopo le sentenze delle Sez. Unite n. 8053 e 8054 del 2014) .
Anche la stessa Corte Cost. n. 51/2015 parla in questi stessi termini, di “criteri equitativi” appunto.
Ora, invece, le sentenze dell’ottobre scorso sono state criticate anche per i criteri economici e statistici che hanno indicato ed invitato i giudici ad utilizzare, tratti dalla scienza economica e dalla Direttiva europea, ai fini di ancorare a dati oggettivi la valutazione sull’insufficienza della remunerazione: forse si preferiva che si continuasse a dire che il giudice può disattendere il contratto collettivo utilizzando “il notorio” o “nozioni di comune esperienza” ed appunto i “criteri equitativi”? perché questo diceva la giurisprudenza fino al 2023 (v. ad es. in Cass. n. 38666/21).
E nemmeno si può dimenticare come la nostra giurisprudenza di legittimità abbia sempre ammesso operazioni ribassiste sul salario stabilito dal contratto collettivo, anche se sottoscritto dai sindacati maggiormente rappresentativi. Senza che nessuno abbia mai gridato al pericolo della delegittimazione sindacale ed alla “lesa maestà” dell’autorità salariale. Mentre lo scandalo sarebbe invece oggi se la contrattazione viene derogata al rialzo, per necessità inevitabile, data l’entità dei compensi di partenza, in un contesto di shopping contrattuale, di frantumazione della categoria contrattuale e di corsa al ribasso delle retribuzioni erogate ai prestatori di lavoro.
6.- Rimessione obbligata alle Sezioni unite?
Ovviamente alla luce di queste premesse, deve essere pure disattesa la pretesa di chi ha rimproverato alla Sez. Lavoro della Cassazione di non aver rimesso la questione alle Sezioni Unite; e ciò perché di questa rimessione mancavano del tutto i presupposti, in quanto nella materia la giurisprudenza di legittimità era granitica. Non solo per le Sez. Unite del 2665/1997 citate, ma anche per i precedenti specifici che si erano pronunciati in controversie analoghe; anche di recente e pure con riferimento alla stessa fuoriuscita dal CCNL Servizi fiduciari su cui la Cassazione ha pronunciato nell’ottobre 2023 ( Cass. nn. 17698/22, 38666/21 cit.).
7.- Necessario il rinvio alla Corte Costituzionale?
Non meno ingiustificata è poi la tesi di coloro che, a proposito del salario richiamato per legge, come per le cooperative (ex art. 7, 4° comma d.l. 248/2007 e l. 142/2001), hanno sostenuto che in questo caso la Corte di Cassazione sia andata oltre i propri poteri istituzionali, perché - per non applicare un salario a cui rinvia una legge - avrebbe dovuto sollevare una questione di costituzionalità.
Premesso che non tutti i casi affrontati dalle sei sentenze riguardavano cooperative o soci di cooperativa, anche questa critica risulta comunque priva di fondamento perché nessuno ha mai contestato il meccanismo di rinvio legale alla contrattazione ed il sostegno alla contrattazione che rimane valido ed indiscusso. Ad essere messo in discussione dalla Cassazione non è stato il meccanismo legale del rinvio al CCNL ma il risultato di questo rinvio; cioè il contratto collettivo. Ciò in conformità con la stessa sentenza n. 51/2015 nella quale la Corte Cost. aveva già affermato testualmente che quei contratti collettivi sono solo “parametri esterni di commisurazione, da parte del giudice, nel definire la proporzionalità e la sufficienza…” ex 36 Cost. Parametri esterni quindi che in quanto tali non possono essere vincolanti, devono soggiacere alla valutazione giudiziale e sono suscettibili di essere disattesi in ipotesi di difformità dalla Costituzione.
In altri termini se un contratto nel settore delle cooperative o degli appalti pubblici o del terzo settore non venisse rinnovato per molti anni ed il salario scemasse a infimi livelli, ad essere messa in discussione non è la legge ma la stessa contrattazione.
Quanto al rapporto tra art. 36 e disciplina legislativa, opportunamente invece la Cassazione ha evidenziato che nel nostro ordinamento una legge sul “salario legale” non possa realizzarsi attraverso un rinvio in bianco alla contrattazione collettiva; posto che il rinvio alla contrattazione va invece necessariamente effettuato nel quadro costituzionale che impone un minimum invalicabile nel caso concreto.
Sicché una legge (come quella in materia di cooperative ed in ogni altro settore) che imponga la determinazione di un salario minimo attraverso la contrattazione deve essere parimenti assoggettata ad una interpretazione conforme all’art. 36 ed all’art 39 Cost.
Solo quando il minimo costituzionale venisse fissato direttamente nel quantum da una norma di legge, in un importo valido per tutti, soltanto in questo caso ovviamente, non potendo disapplicare la legge, il giudice sarebbe tenuto a sollevare la questione di costituzionalità.
Ma questa eventualità non pare all’ordine del giorno, dato che l’iniziativa legislativa promossa dal governo in carica risulta piuttosto che perpetui lo schema del sostegno alla contrattazione, senza alcun minimo legale stabilito direttamente dalla legge: un modello che, come si è visto, non è però idoneo a risolvere tutti i problemi che si pongono nell'attuale scenario di frantumazione della contrattazione collettiva.
8.- Il richiamo alla normativa europea è fuori luogo?
Un altro fronte su cui è stata attaccata polemicamente la giurisprudenza della Cassazione dell’ottobre 2023 è il rapporto con la normativa internazionale e con quella dell’Unione Europea in particolare.
Qualcuno ha trovato eccessive persino le righe che sono state dedicate a questo aspetto dalla sentenza (una pagina e mezza su una quarantina). Ed è stato pure ritenuto erroneo il richiamo alla Direttiva europea n. 2041/2022 perché essa non si applica al nostro ordinamento (essendo la percentuale di copertura della contrattazione collettiva superiore all’ 80% previsto come soglia). Ora preme rilevare che in nessuna parte della sentenza si sia scritto che la Direttiva europea vincoli il nostro Paese a varare un salario legale; o che il giudice debba disapplicare il CCNL insufficiente in virtù della Direttiva europea; o altre amenità di questo tenore.
Nella sentenza si ricorda invero soltanto che, in virtù dell’integrazione del nostro ordinamento a livello europeo ed internazionale, l’attuazione del precetto del giusto salario è divenuta un’operazione che il giudice deve effettuare tenendo conto anche delle indicazioni sovranazionali e di quelle provenienti dall’Unione Europea e dall’ordinamento internazionale.
Si è richiamata la direttiva 2041 solo a proposito degli indicatori che la stessa direttiva trova nella scienza economica e statistica. Mentre dovrebbe essere noto che, secondo la tesi sempre ripetuta dalla Corte di Giustizia UE, nei limiti di congruità e di materia, il giudice interno deve sempre assicurare la massima espansione del diritto dell’UE (di qualsiasi fonte e di qualsiasi natura).
Secondo questi critici, invece, nonostante questo cogente dovere del giudice europeo, mentre l’Unione Europea ha sentito il bisogno di emettere una direttiva sul salario adeguato in ambito europeo, la Corte di Cassazione italiana avrebbe dovuto far finta di nulla, ignorando la questione.
9.- Le novità delle pronunce di legittimità ed il minimo invalicabile.
Si dovrebbe allora dire niente di nuovo sotto il sole? ovvero tanto rumore per nulla? Non credo; al contrario, nelle sentenze di ottobre ci sono delle novità e si tratta anche di questioni sostanziose.
La svolta di cui tanto si parla non è però nell’aver affermato la possibilità del superamento di un CCNL sottoscritto dal sindacato maggiormente rappresentativo, ma è nell’elaborazione di un metodo applicativo nuovo, sistematico e più coerente rispetto alla disciplina costituzionale.
La novità più evidente è aver ribadito, questa volta senza indugi, ed in modo comprensibile per tutti, che esista un minimo costituzionale invalicabile, una soglia di sufficienza che si imponga sopra ogni altra, anche nei confronti dell’autorità salariale, in quanto precetto normativo di valore costituzionale.
E questo precetto è valido per i datori, i sindacati, le associazioni di categoria; ma vale anche per il legislatore e per i giudici.
Ai giudici non si dice più che abbiano soltanto un dovere di motivazione congrua alla luce dei fatti concreti, come prima si diceva, consentendo loro di scendere anche sotto i minimi del CCNL o fare riferimento generico all’equità per determinare il salario ex art 36.
Adesso si dice invece che c’è un minimo costituzionale che è un parametro giuridico che gli stessi giudici sono tenuti a rispettare, anche ex officio, e con il duplice riferimento ai canoni di “proporzionalità” e “sufficienza”.
10.- Quale minimo?
Si arriva così alla seconda domanda insita nelle cause in discorso ed a cui occorreva dare una risposta. Se c’è un minimo invalicabile, come si ricava?
Anche qui mi pare che le sentenze lo dicano abbastanza chiaramente e dettino pure alcune istruzioni per l’uso: individuando sul piano logico giuridico due fasi che devono caratterizzare l’intervento giudiziale: la pars destruens e quella construens (e cioè i criteri di inadeguatezza e i criteri di adeguatezza della retribuzione) .
Rivolgendosi ai giudici di merito la Cassazione dice anzitutto che devono usare anzitutto parametri coerenti rispetto ai due criteri costituzionali, della proporzionalità e della sufficienza.
a.- La Corte dice che non sono parametri congrui per determinare il salario minimo costituzionale la soglia di povertà calcolata dall’Istat, l’importo della Naspi o della CIG, la soglia di reddito per l’accesso alla pensione di inabilità o l’importo del reddito di cittadinanza o altri simili criteri che non sono correlati al lavoro o non sono correlati alla esistenza libera e dignitosa ex art 36.
Posto che la retribuzione sufficiente non è quella che garantisce di non essere poveri, ma quella che assicura qualcosa in più: come si evince anche dal considerando n. 28 della Dir. UE 2022/20241 che suggerisce di determinare il salario adeguato attraverso strumenti che tengano conto, oltre che delle “necessità materiali”, “anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali”.
E qui la cosa curiosa è che è stato rimproverato alla Cassazione pure l’eterogeneità dei criteri di cui stiamo discorrendo, nella parte destruens: anche se la sentenza dice che i giudici di merito non li devono utilizzare ai fini della determinazione del salario! e che possono tenerne solo conto, al più, come indici di orientamento, al fine di valutare se un salario concretamente erogato sia sufficiente o meno.
b.- Nella seconda decisiva fase, quella costruens - di determinazione del salario proporzionato e sufficiente - il giudice deve infatti utilizzare parametri diversi: i parametri di adeguatezza, dicono le sentenze, devono essere ricercati rimanendo anzitutto nell’ambito della contrattazione di categoria facendo riferimento al livello salariale minimo stabilito nella contrattazione per settori affini e per mansioni analoghe.
E quando dovesse mancare il riferimento oppure non ve ne siano di adeguati, i giudici possono utilizzare i criteri della direttiva Europea che indicano come adeguato un salario che si collochi sul 50 per cento del salario medio o sul 60 per cento del salario mediano, come dice il considerando 28 della direttiva (facendo all’occorrenza applicazione dei dati Uniemens).
Qualcuno ha affermato che la sentenza sia in difficoltà sulla pars costruens. Ma questo non sembra affatto, perché qui l’ancoraggio è addirittura alla legge n. 142/2001; alla normativa sul socio lavoratore di cooperative che stabilisce all’art.3, comma 1, che il socio ha diritto ad un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro svolto, stabilendosi che allo scopo si debbano applicare anche contratti collettivi “della categoria affine” “per prestazioni analoghe”.
Ed i lavoratori delle cooperative sono sicuramente più di un milione nel nostro paese, mentre la legge 142 è in vigore da circa 23 anni; e nessuno ha mai sostenuto che questa normativa susciti difficoltà applicative o costituisca un attentato alla sovranità del sindacato.
Ma nelle sentenze vengono effettuate ulteriori precisazioni e dettati altri criteri suscettibili di sviluppi e di cui è opportuno dare conto.
a. Si afferma, in primo luogo, che in ogni giudizio in cui il lavoratore chieda il pagamento di quanto spettantegli sulla base di un contratto collettivo, deve ritenersi implicita, la richiesta di adeguamento della retribuzione medesima alla stregua dell'art. 36 Cost. (Cass.14 dicembre 1982 n. 6885) e scatta l’obbligo del giudice di adeguare anche d’ufficio la retribuzione, anche servendosi di un ctu. Questo non va dimenticato ed è pure esso un vecchio insegnamento delle Sezioni Unite n. 2665/1997.
b. Si aggiunge che il lavoratore «deve provare solo il lavoro svolto e l’entità della retribuzione ricevuta (producendo le buste paga)»; allegare «utili elementi di giudizio indicando i parametri di raffronto»; ma non deve provare l’inadeguatezza del salario che discende dal raffronto con i parametri.
c. Si sottolinea che il lavoratore ottemperi ai propri oneri probatori, anche quando «si limiti ad indicare come termine di raffronto soltanto quello tra paga oraria percepita e retribuzione protetta a livello costituzionale». Sul presupposto che il criterio orario sia quello più giusto per valutare la retribuzione sufficiente perché può essere applicato a qualsiasi contratto, anche part-time.
d. Si sostiene che il confronto con i parametri di inadeguatezza deve essere fatto al netto: perché non appare certo una «valutazione coerente, rispettosa dei criteri giuridici della sufficienza e della proporzionalità» quella che assume a «riferimento un salario lordo e lo confronta «con l’indice Istat di povertà (che ha riguardo alla capacità di acquisto immediata di determinati beni essenziali).
e. Si evidenzia in generale che nella individuazione del salario garantito ai sensi dell’art. 36 non è corretto considerare «il trattamento complessivo della retribuzione comprensivo della retribuzione per lavoro straordinario»; perché si tratta di un emolumento eventuale e non ordinario del lavoro svolto
f. Le pronunce contengono un’apertura anche alla parità di trattamento ed alla retribuzione complessiva: sia perché nel richiamare la disciplina dettata dalla legge n. 142/2001 per i soci lavoratori di cooperativa estendono il trattamento complessivo anche ai lavoratori dipendenti non soci.
g. Ed inoltre perché il rinvio alla attività di settore ed alle mansioni analoghe, consente di superare il criterio volontaristico (potenzialmente disparitario e frammentario) della scelta del contratto collettivo rimessa di fatto alla determinazione unilaterale del datore.
Viene promosso quindi un criterio che tende ad individuare come parametro di riferimento costituzionale un contratto collettivo unico, in qualche modo esclusivo per ogni categoria; che non può non essere il migliore trattamento collettivo della categoria: in aderenza alla funzione storica della contrattazione più rappresentativa di togliere i salari dalla concorrenza e di promuovere il dinamismo e la crescita dei salari, riconosciuta pure dalla stessa sentenza n. 51/2015 della Corte Cost.
Tutt’altro che il “soggettivismo giudiziario” il cui rischio è stato pure ripetutamente evocato ed addebitato alla Corte di legittimità: perché il riferimento “come punto di partenza” al CCNL di categoria, anche per settori affini e mansioni analoghe, porta invece ad individuare una soglia di sufficienza costituzionale minima di categoria che in quanto tale deve essere unica e valida per tutto il territorio nazionale; e rispettata quindi da tutti i giudici del lavoro.
Ovviamente ulteriori precisazioni e messe a punto su vari aspetti implicati nella questione trattata potranno venire anche in futuro.
h. Forse il criterio dello straordinario si può applicare anche ad altre indennità saltuarie o variabili legate a particolari prestazioni aggiuntive e magari disagevoli.
i. Il criterio del trattamento complessivo si potrà estendere dalle cooperative, dagli appalti, dal terzo settore a tutti i settori.
l. Va intanto tenuto conto che lo stesso legislatore (con il c.d. decreto legge PNRR, art.29 lett. c del d.l. 19/2024 conv. nella l. 56/2024) è intervenuto, dopo la sentenza e dopo gravissimi infortuni, nell’ambito degli appalti per allargare l’ambito di applicazione dei contratti sottoscritti dai sindacati maggiormente rappresentativi anche all’interno del settore degli appalti privati.
m. Su questa frammentarietà di discipline e di tutele retributive che oramai è dilagante nell’ordinamento, potrebbe interloquire anche la Corte costituzionale (posto che non si intuisce perché ad es. nel commercio, nel turismo, nel trasporto, industria, ecc. non debba esistere, di per sé, nessuna garanzia legale di un salario minimo complessivo).
n. Ed alla luce di questa frammentarietà è venuto anche il tempo di rimeditare la tralaticia giurisprudenza secondo cui la Costituzione garantirebbe solo il minimo sindacale costituito dalla paga base, dall'indennità di contingenza, dalla tredicesima, e forse dagli scatti di anzianità; mentre non si capisce perché, se un lavoratore del settore turismo ha fatto i turni di notte o le trasferte, non gli dovrebbero essere retribuiti in base alla nostra Costituzione.
o. La stessa operazione di rafforzamento – che agganciando CCNL limitrofi - è stata effettuata con riferimento al parametro inderogabile della sufficienza, si impone allora anche con riferimento al correlato precetto della proporzionalità della retribuzione; anche con riferimento a quelle situazioni, e sono tante, in cui vi sono lavoratori che operano fianco a fianco facendo mansioni simili dal punto di vista professionale, ma grazie al diritto comune ed al sistema degli appalti percepiscono differenze retributive che arrivano anche al 30%.
11.- Conclusione
Se si osserva la realtà quotidiana, si può anche dire che in materia salariale, nel nostro ordinamento, almeno in alcuni settori (logistica, trasporti, servizi, cooperative, agricoltura, lavoro domestico, ecc.), vige una sorta di far west o di pirateria; con perimetri contrattuali frantumati, migliaia di CCNL di dubbia rappresentatività, applicati ad libitum, secondo il diritto comune. Mentre neppure si possono dimenticare le più gravi forme di sfruttamento praticate nei settori limitrofi del lavoro autonomo, a collaborazione, con partita Iva, più o meno genuini.
Di fronte allo stato di cose descritto, allo stallo della risposta politica ed alla debolezza sindacale, la magistratura è stata chiamata a fare la sua parte e l’ha fatta adoperando la Costituzione, perché abbiamo la fortuna di avere una Carta che non si occupa dell'ovvia obbligatorietà del salario, ma regola anche il quantum della retribuzione dettando una soglia di sufficienza minima. E ce ne eravamo forse dimenticati.
Il tema del salario è stato affrontato in queste sentenze pur tuttavia dalla conclusione ed esse hanno cercato soltanto di mettere alcuni punti fermi nel caos predisponendo una cura per la malattia, secondo il modello di intervento tipico della magistratura.
Le sentenze certamente finiscono anche per valorizzare il ruolo del giudice all’interno di una moderna democrazia sociale, come quella delineata dalla nostra Costituzione, ed è quello che alla fin fine a molti non è piaciuto.
Si tratta però di un'assunzione di responsabilità, non c'è smania di protagonismo giudiziario o proclami di nessun tipo in tutto questo. Anche questa sciocchezza è stata detta, purtroppo.
La sentenza ricorda testualmente che l’intervento del giudice sul salario costituzionale è solo di ultima istanza, un intervento residuale dopo che sono falliti gli altri interventi principali ; ed esso “avviene nei limiti e con le difficoltà, le variabili e gli adattamenti di un’operazione di estensione di una regola generale all’interno di ogni concreta controversia individuale”.
Questo dice la sentenza; il cui obiettivo non è certo di dare lezioni al sindacato ma di rilanciarne semmai l’autentica missione ai sensi dell’art.3, 2 comma Cost. di cui parlava Massimo D’Antona.
I giudici sono infatti consapevoli che il problema del salario sia la risultante di un groviglio di questioni che si sono lasciate incancrenire nel nostro Paese. E dinanzi alle quali la magistratura - Costituzione alla mano - non poteva fare finta di nulla; non poteva tirarsi indietro ed eclissarsi nel momento del massimo disagio.
Aldilà dello specifico miglioramento della condizione di vita dei lavoratori del Settore dei Servizi Fiduciari di cui la sentenza si occupa - che sono pur sempre qualche decina di migliaia di persone ed alle quali dopo la sentenza è stato erogato un aumento del 30 per centro del salario - occorre chiedersi in che Paese ci troveremmo oggi se la Corte di Cassazione avesse detto il contrario di quello che ha detto ed avesse distolto gli occhi da questa area di disagio sociale, grande o piccola che essa sia.