testo integrale con note e bibliografia

1. Premessa
Il tema assegnato è tanto articolato quanto stimolante.
Non solo perché di estremo interesse e attualità, in ragione del rilevante contenzioso che da alcuni anni interessa la giurisprudenza di merito e di legittimità (ancor più a seguito delle criticità derivanti dalla definizione dei minimi retributivi di cui all’ultimo C.C.N.L. Servizi Fiduciari), ma soprattutto perché, inserito nella riflessione sul dialogo tra valori e norme, fa propria una prospettiva essenziale: quella che muove dai principi del nostro ordinamento, con l’eredità giurisprudenziale che li accompagna, per cercare di tendere verso quella completezza e coerenza interna dell’interpretazione che è caratteristica irrinunciabile, essenza stessa, della certezza del diritto.

2. La necessità di muovere dai principi
Stante l’assoluta complessità della materia, nell’individuazione dei principali passaggi e questioni che il giudice di merito deve affrontare nelle cause che hanno per oggetto la verifica dell’adeguatezza della retribuzione ex art. 36 Costituzione, deve necessariamente muoversi dalla Costituzione, dal fascio di luce che promana dal principio in essa cristallizzato e che, con tanta chiarezza, tratteggia perimetro e strumenti del sindacato giurisdizionale.
Il più recente orientamento del Supremo Collegio rammenta come la Direttiva 2022/2041/UE ( ) ci consegni una declinazione di sufficienza e proporzionalità della retribuzione che non è funzionale al mero soddisfacimento dei bisogni primari della persona, ma a qualcosa di più, ossia al conseguimento di quei beni materiali e immateriali che risultano essenziali alla piena estrinsecazione della personalità di ciascuno; il riferimento è al Ventottesimo Considerando a mente del quale “i salari minimi sono considerati adeguati se sono equi rispetto alla distribuzione salariale dello Stato membro pertinente e se consentono un tenore di vita dignitoso ai lavoratori sulla base di un rapporto di lavoro a tempo pieno. … Tra gli altri strumenti, un paniere di beni e servizi a prezzi reali stabilito a livello nazionale può essere utile per determinare il costo della vita al fine di conseguire un tenore di vita dignitoso. Oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, si potrebbe tener conto anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali” ( ).
Questo, invero, è principio che la nostra Costituzione ha fatto proprio sin dall’origine, poiché, ai sensi dell’art. 36, co. 1, Costituzione, “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” ( ): principio precipitato dell’imperativo categorico di cui all’art. 35 Costituzione, che impone di tutelare il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, tanto avuto riguardo ai suoi elementi costitutivi, quanto in relazione alle sue condizioni estrinseche ( ).
La retribuzione – concetto più ampio e complesso del salario propriamente inteso – assume, così, il rango di “diritto fondamentale della persona” ( ), quale “complesso di posizioni di potere e dovere, attinenti «non solo all’avere ma all’essere del lavoratore, o alla tutela della sua libertà e personalità»” ( ): tale è, in quanto strumento fondamentale nell’estrinsecazione del diritto al lavoro che – secondo l’insegnamento della Corte Costituzionale – “è da considerare quale fondamentale diritto di libertà della persona umana” ( ).
È una prospettiva, questa, che consente immediatamente di percepire come proporzionalità e sufficienza – unici parametri del sindacato giurisdizionale in materia ( ) – costituiscano due diritti distinti e “coessenziali” (“parti di un unico e indissolubile precetto normativo” ( ) in quanto espressione, rispettivamente, della funzione intrinseca e della funzione estrinseca della retribuzione e, soprattutto, strettamente connessi nel loro tendere a un fine comune e primario.
Il diritto a una retribuzione proporzionata è espressione della funzione intrinseca perché guarda alla relazione lavorativa, al sinallagma quale scambio tra prestazione e corrispettivo ( ), assicurando la “ragionevole commisurazione della… ricompensa alla quantità e alla qualità dell’attività prestata” ( ); è la prospettiva prettamente oggettiva, che impone di determinare la retribuzione in ragione di criteri che considerano la quantità (in termini di durata e intensità) e la qualità (in termini di complessità) della prestazione lavorativa resa.
Si tratta, dunque, di un criterio positivo a valenza generale.
Il diritto a una retribuzione sufficiente, invece, è espressione della funzione estrinseca perché ne valorizza la funzione sociale, assicurando ai lavoratori il diritto di percepire una “retribuzione non inferiore agli standards minimi necessari per vivere una vita a misura d’uomo” ( ); il che significa, come ci ha correttamente rammentato la Direttiva 2022/2041/UE, il diritto a qualcosa di oggettivamente diverso dal mero soddisfacimento dei bisogni essenziali: ciò che l’ordinamento costituzionale vuol salvaguardare è il diritto del lavoratore – quale singolo e quale parte di una realtà familiare – di condurre un’esistenza libera e dignitosa, ossia, ex art. 2 Costituzione, la libera e piena estrinsecazione della personalità di ciascuno, quale individuo e quale parte integrante delle più varie formazioni sociali.
La prospettiva diviene, qui, necessariamente soggettiva e costruisce un limite negativo invalicabile che, tuttavia, è qualcosa di ben più ampio della salvaguardia delle esigenze minime di vita.
In questo senso, è stato opportunamente osservato che il diritto alla sufficienza della retribuzione, assumendo a parametro una situazione esterna alla relazione lavorativa e alle obbligazioni che le son proprie, determina “il progressivo attenuarsi del nesso di corrispettività fra prestazione e retribuzione, a favore della seconda” ( ), poiché con la prestazione il lavoratore diviene parte integrante di una “area di garanzia in cui la sua stessa personalità fisica e morale viene tutelata nel senso più ampio dell’espressione” (8): si tratta, in sostanza, della piena valorizzazione della funzione sociale della retribuzione.
Sotto questo profilo, la precisazione “e in ogni caso” prima di “sufficiente” è oltremodo eloquente.

3. Il sindacato del giudice ex art. 36 Costituzione
Così definito il fine ultimo e gli strumenti del sindacato giurisdizionale in materia, è ora necessario circoscriverne l’ambito oggettivo specifico.

3.1. Il contratto collettivo applicato al rapporto e l’operatività della presunzione di adeguatezza
Il primo passaggio nella definizione del percorso del sindacato è la qualificazione del contratto collettivo applicato al rapporto.
La libertà cristallizzata all’art. 39, co. 1, Costituzione tutela, a livello collettivo, il pluralismo sindacale e, a livello individuale, la libertà dei datori di lavoro di aderire o meno a una organizzazione sindacale e, conseguentemente, di applicare o meno ai rapporti di lavoro un contratto collettivo scegliendone, peraltro, altrettanto liberamente, la tipologia ( ).
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno confermato che il datore di lavoro è libero di applicare tanto contratti collettivi pertinenti, quanto contratto collettivi non pertinenti (ossia “innaturali rispetto alle oggettive caratteristiche dell’impresa”, stipulati da organizzazioni operanti in settori produttivi diversi rispetto a quello nel quale si trovi concretamente a operare) e che, in quest’ultimo caso, il lavoratore “non può aspirare all’applicazione di un contratto collettivo diverso, se il datore di lavoro non vi è obbligato per appartenenza sindacale”, bensì “solo eventualmente richiamare tale disciplina come termine di riferimento per la determinazione della retribuzione ex art. 36 cost., deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto applicato” ( ).
Sotto un profilo di ordine generale – e al netto delle peculiari criticità sollevate dalla più recente contrattazione collettiva, sulle quali vi sarà modo di soffermarsi – il principale effetto dell’applicazione al rapporto di un contratto collettivo non pertinente è l’impossibilità di far operare, nell’avulso contesto di riferimento, quella tendenziale presunzione di conformità ai precetti dell’art. 36 Costituzione che è normalmente riconosciuta ai minimi retribuitivi concordati in sede sindacale ( ).
In questi casi, non potendo “presumersi adeguata e sufficiente la retribuzione corrisposta nella misura prevista in relazione alle mansioni esercitate dal contratto collettivo del settore” ( ), proprio in quanto le mansioni in concreto svolte dal lavoratore non risulteranno espressamente contemplate dal contratto collettivo applicato al rapporto, si avranno due distinte conseguenze: da un lato, risulterà senz’altro attenuato l’onere di allegazione posto in capo al lavoratore; dall’altro, dovrà farsi applicazione oltremodo rigorosa degli oneri della prova gravanti sul datore di lavoro, chiamato a dimostrare la piena adeguatezza del parametro retributivo scelto e, dunque, il corretto adempimento dell’obbligazione retributiva.
E, d’altronde, nelle più recenti decisioni del Supremo Collegio si è affermato che “il lavoratore che deduca la non conformità della retribuzione corrispostagli dal datore di lavoro all’art. 36 Cost., deve provare solo il lavoro svolto e l’entità della retribuzione, e non anche l’insufficienza o la non proporzionalità che rappresentano i criteri giuridici che il giudice deve utilizzare nell’opera di accertamento” ( ).
Nell’operare questo specifico controllo di adeguatezza, il giudice potrà senz’altro far riferimento al contratto collettivo stipulato nel settore produttivo di effettiva appartenenza, tenendo conto delle declaratorie corrispondenti all’attività in concreto svolta ( ); è possibile, tuttavia, come vedremo, che il giudice selezioni il contratto collettivo parametro a prescindere dal requisito di rappresentatività riferito ai sindacati stipulanti.
Uno dei principali effetti del pluralismo sindacale è quello della stipula, nei diversi settori di attività, di molteplici contratti collettivi destinati a regolare in modo differente gli aspetti fondamentali dei rapporti di lavoro, tra i quali, ovviamente, anche i trattamenti retributivi: il datore di lavoro, dunque, ha la possibilità di scegliere tra più contratti collettivi ugualmente pertinenti, ossia applicati – conformemente alla volontà delle parti stipulanti – alle tipologie di attività ivi espressamente considerate ( ).
Si è sviluppato, in questo modo, un fenomeno efficacemente definito in termini di dumping negoziale ( ), favorito dalla coesistenza di più contratti collettivi per singolo settore, una parte dei quali stipulati da organizzazioni sindacali dotate di una minor rappresentatività e propense – per interessi estranei ai lavoratori – a sottoscrivere condizioni economiche deteriori (c.d. accordi pirata); sul punto, si è opportunamente osservato che “…i problemi di competizione legati alla globalizzazione e la gravità della crisi economica hanno fatto sì che, specie in settori ad alta intensità di manodopera (istituti di vigilanza, logistica, portinai di stabili), gli stessi contratti collettivi stipulati da organizzazioni sicuramente rappresentative abbiano previsto minimi salariali particolarmente bassi. Insomma, manifestazioni, tutte, queste, di una crisi generale dei sistemi di relazioni industriali e della ridotta capacità dei rapporti sociali e di lavoro di resistere alle pressioni dei mercati” ( ).
In un simile contesto, che inevitabilmente consente al datore di lavoro di operare scelte al ribasso ( ) rispetto al complessivo trattamento retributivo dei dipendenti, la possibilità del controllo giudiziale non viene meno, ma muta nella sostanza.
Se è vero che la sola esistenza di significative differenze nel trattamento economico previsto dai vari contratti collettivi applicabili al medesimo settore non è, di per sé considerata, prova della violazione del precetto costituzionale; è parimenti vero che significativi scostamenti in peius rispetto ai valori della contrattazione collettiva dotata della maggior rappresentatività rendono più agevole il controllo giudiziale che – sulla base degli “utili elementi di giudizio” forniti dai lavoratori mediante indicazione dei “parametri di raffronto” ( ) – può legittimamente agevolarsi della presunzione di conformità di questi ultimi al parametro di cui all’art. 36 Costituzione.
Ciò, giova precisare, non perché si ritenga a monte sussistente un principio di parità di trattamento, ma in quanto “lo scollamento, infatti, rispetto a quanto [il lavoratore] avrebbe percepito per lo svolgimento delle stesse mansioni, con lo stesso orario, in forza di altri contratti collettivi, è emblematico e idoneo a far cadere la presunzione di conformità all’articolo 36 Cost.... Il paragone con gli altri c.c.n.l. serve, pertanto, a valutare l’adeguatezza della retribuzione perché il fatto che i rappresentanti delle medesime organizzazioni sindacali, nell’ambito di vari altri contratti collettivi, abbiano stimato proporzionata alla stessa quantità e qualità della prestazione una retribuzione nettamente superiore, grava la retribuzione in questione della presunzione contraria” ( ).
È noto, tuttavia, che il contenzioso che sta maggiormente impegnando la giurisprudenza è quello relativo al C.C.N.L. Servizi Fiduciari: contratto collettivo senz’altro pertinente quanto al settore in cui trova applicazione e, peraltro, stipulato da alcuni dei sindacati notoriamente dotati della maggior rappresentatività a livello nazionale.
Questa particolare tipologia di contenzioso sembrerebbe imporre un cambio di rotta nel sindacato giudiziale.
La presunzione di adeguatezza ai principi di proporzionalità e sufficienza fonda le proprie radici sul presupposto che le parti sociali – nel contesto di una dialettica sindacale fisiologica – siano interpreti privilegiate delle “esigenze economiche e politiche sottese all’assetto degli interessi concordato” ( ), e che “il contratto collettivo, in quanto norma formulata, in condizioni che garantiscono la formazione del libero consenso, dalle stesse parti che sono immerse nella realtà da disciplinare, è il più adeguato parametro per determinare il contenuto del diritto alla retribuzione…; e questa generale oggettiva adeguatezza fa sì che ove il giudice, al fine di determinare la giusta retribuzione, intenda discostarsi dal parametro della norma collettiva, ha l’onere di fornire opportuna motivazione” ( ).
Pur tuttavia, per quanto privilegiate interpreti della realtà socio-economica di riferimento e delle specifiche dinamiche di ciascun settore, nemmeno i sindacati maggiormente rappresentativi possono varcare quel limite negativo – costituzionalmente invalicabile – cristallizzato dal parametro della sufficienza, e posto a salvaguardia della libertà e personalità del lavoratore nelle sue più varie declinazioni.
Questo vale, altresì, avuto riguardo alle norme che disciplinano il trattamento retributivo dei soci di cooperativa e al rinvio operato alla contrattazione collettiva “comparativamente più rappresentativa” di cui all’art. 3, co. 1, Legge 142/2001 (e art. 7, co. 4, D.L. 248/2007, convertito in Legge 31/2008): “…neppure tale determinazione per via legale del salario… può portare a violare i contenuti sostanziali precettivi dell’art. 36 Cost., di cui dovrebbe garantire invece l’attuazione. In altri termini anche i salari dettati dalla contrattazione collettiva applicabile alle cooperative, secondo la L. n. 142 del 2001 e la L. n. 31 del 2008, possono essere disapplicati dal giudice ed il trattamento retributivo annullato e sostituito con uno più congruo, che rispetti il minimo costituzionale… Sostenere che nelle medesime ipotesi la parte retributiva del contratto collettivo di diritto comune, sulla cui scorta viene determinata la retribuzione, si sottragga al sindacato del giudice e si imponga sempre e comunque, anche senza il vaglio di conformità all’art. 36 Cost., a prescindere dall’attuazione dell’art. 39 Cost., non già come paramento esterno di comparazione ex art. 36 Cost., ma come disciplina cogente del rapporto di lavoro per la parte retributiva non sindacabile e non assoggettabile a verifica di compatibilità da parte del giudice, esporrebbe tale tesi e le stesse leggi sopra indicate ad una duplice censura di incostituzionalità: sia sotto il profilo della violazione dell’art. 36 Cost., sia sotto il profilo dell’art. 39…” ( ).
Quello di cui si discute, d’altronde, è un “diritto subiettivo perfetto” ( ).
Se allora, per un determinato settore produttivo, è la contrattazione collettiva partecipe della maggior rappresentatività a introdurre parametri retributivi sensibilmente inferiori a quelli previsti da altri contratti collettivi ugualmente pertinenti, la prospettiva del sindacato giudiziale deve necessariamente mutare: non vi è spazio, difatti, per ragionar di presunzione (per quanto iuris tantum, salvo prova contraria), poiché a esser messo in discussione è proprio ciò che normalmente assurge a parametro nel sindacato circa l’adeguatezza dell’altrui contrattazione e che, con ogni evidenza, non può – nemmeno presuntivamente – autolegittimarsi.

3.2. La definizione del trattamento economico fondamentale e l’individuazione del trattamento economico di fatto oggetto di sindacato
Qualificato il contratto collettivo in contestazione e individuato, ove possibile, un contratto collettivo comparabile ai fini della valutazione di adeguatezza costituzionale della retribuzione in proporzione alle mansioni effettivamente svolte, è necessario procedere al loro raffronto.
Il passaggio necessita, da un lato, dell’individuazione dell’ammontare complessivo del trattamento economico in concreto percepito dal lavoratore da sottoporre alla prova di resistenza costituzionale; dall’altro, della selezione degli istituti retributivi che compongono il trattamento economico fondamentale e fissano, dunque, il parametro di legittimità costituzionale cui si potrà fare riferimento.
Per quel che attiene al trattamento retributivo in concreto percepito dal lavoratore ricorrente – oltre a paga base, indennità di contingenza ( ) e tredicesima mensilità – si ritiene che debbano essere, altresì, considerati: l’eventuale superminimo individuale, trattandosi di un quid pluris riconosciuto al lavoratore in ragione dello svolgimento dell’ordinaria prestazione lavorativa e che concorre a comporre il trattamento retributivo del lavoratore; gli scatti di anzianità, quale importo fisso che si aggiunge progressivamente alla retribuzione in ragione della anzianità di servizio; infine, ove percepita, la quattordicesima mensilità, quale erogazione costante aggiuntiva dello stipendio.
Non potrà, per contro, essere considerato il lavoro straordinario, né le relative maggiorazioni, in quanto non può ammettersi che – per conseguire il minimo costituzionale – il lavoratore sia costretto a prestare attività lavorativa oltre l’orario di lavoro ordinario; sul punto, peraltro, è stata oltremodo chiara la Suprema Corte nel rammentare che “…la stessa Corte Cost. non ha mai affermato che per giudicare della compatibilità all’art.36 della Cost. del trattamento complessivo percepito dal lavoratore bisogna tener conto anche del lavoro straordinario. Il che andrebbe escluso in termini generali, sia perché si tratta di un emolumento eventuale e non ordinario del lavoro svolto; sia perché sarebbe incongruo affermarlo quante volte il lavoratore, proprio in ragione della esiguità di base del salario percepito, fosse costretto a svolgere molte ore di lavoro straordinario per raggiungere la soglia minima di conformità richiesta dalla Costituzione” ( ).
Ancora, deve senz’altro essere escluso qualsiasi trattamento integrativo, avente natura non retributiva, ma compensativa e/o indennitaria, estraneo – in quanto tale – al sinallagma contrattuale propriamente inteso e, dunque, al carattere di corrispettività ( ); questo, a maggior ragione ove si tratti di trattamenti erogati da soggetti terzi (si pensi agli assegni per il nucleo familiare corrisposti dall’INPS); nemmeno potranno essere considerati gli eventuali ratei di TFR ricompresi nella retribuzione mensile, posto che “al trattamento di fine rapporto è, infatti, riconosciuta natura di retribuzione differita… rispetto ad esso il diritto del lavoratore nasce solo al momento della cessazione del rapporto… che costituisce elemento della fattispecie costitutiva e non temine di adempimento” ( ).
Non possono neppure essere presi inconsiderazione eventuali ulteriori redditi personali del lavoratore ( ), in quanto si “finirebbe per determinare un’assurda disparità di trattamento per eguali prestazioni lavorative in funzione della diversa condizione patrimoniale dei soggetti che le rendono” ( ) o, comunque, un evidente e inammissibile “sfruttamento del lavoratore” ( ).
Nessuna rilevanza, poi, possono avere il c.d. Bonus Renzi (art. 1, co. 12-15, Legge 190/2014) e il trattamento integrativo introdotto dall’art. 1 Legge 21/2020, che attengono al regime legale del reddito ( ) e che costituiscono un elemento di assistenza al reddito privo di matrice retributiva.
Nessuna rilevanza, del pari, si ritiene possano assumere ulteriori elementi del trattamento economico e normativo complessivamente previsto dal contratto collettivo, quali, per esempio, un numero superiore di ferie e permessi, un periodo di comporto più ampio, il sistema di welfare aziendale.
Non vi è dubbio alcuno che si tratti di elementi partecipi di un oggettivo – per quanto indiretto – valore economico; pur tuttavia, se deve essere verificata l’adeguatezza della retribuzione ex art. 36 Costituzione e aversi riguardo al parametro della sufficienza (dell’attitudine, quindi, del trattamento retributivo a consentire la piena esplicazione della personalità nel complesso considerata), non può che farsi esclusivo riferimento a ciò che incide sull’effettivo e oggettivo potere di acquisto del lavoratore, ossia sulla sua possibilità di far fronte, “oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio… [a]lla necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali” (Ventottesimo Considerando).
Alcune Corti di Merito hanno affermato che la comparazione deve avvenire in ragione della misura dell’impegno profuso, indipendentemente dalle variazioni di struttura del contratto di lavoro che dipendono dalla specifica tipologia della prestazione; in particolare, la prestazione del lavoratore full time a 40 ore sarebbe equiparabile a quella del lavoratore full time con «orario normale» a 45 ore, trattandosi di situazioni in cui ambedue i lavoratori pongono integralmente le proprie energie lavorative a disposizione di un unico datore di lavoro, sulla base di un impiego a tempo pieno ( ). Vi è, tuttavia, chi ha criticato siffatta impostazione osservando che, se “…il richiamo ad altri CCNL non è finalizzato ad affermare un principio di parità di trattamento, ma a verificare l’adeguatezza della retribuzione degli uni rispetto agli altri, detto raffronto non può che avvenire secondo criteri di omogeneità. Ed allora, una retribuzione per il tempo pieno concordata tra le parti sociali in funzione di un certo orario di lavoro settimanale non può essere raffrontabile con la retribuzione prevista sempre per un tempo pieno ma con orario inferiore, proprio per la necessità di adeguare la prima alla seconda e così consentire un effettivo confronto” ( ).
Sul punto, la più recente giurisprudenza di legittimità parrebbe essersi posta in una prospettiva di sostanziale irrilevanza del tema, nella parte in cui ha affermato che “questo profilo diventa superfluo e recessivo nell’economia della sentenza impugnata, una volta affermato che ciò che conta ai fini della sufficienza della retribuzione ex art. 36 cost. è il reddito netto mensile percepito e non la retribuzione oraria” ( ).
Avuto riguardo al trattamento economico fondamentale, il Supremo Collegio ha chiarito che il giudice “non può rapportarsi a tutti gli elementi e gli istituti retributivi che concorrono a formare il trattamento economico, ma deve valutare solo quelli che costituiscono il cd. minimo costituzionale, con esclusione delle voci specificatamente contrattuali (compensi aggiuntivi, scatti di anzianità, quattordicesima mensilità)” ( ).
Se così è, nel minimo costituzionale dovranno sicuramente essere considerati la paga base (ivi incluse le erogazioni incrementali della retribuzione oraria, quali gli AFAC), l’indennità di contingenza (che ha lo scopo di adeguare le retribuzioni al costo della vita) e la tredicesima mensilità (istituto che ha, ormai, assunto portata generale); si condivide, peraltro, l’orientamento che ritiene di considerare anche l’anzianità di servizio sulla base del principio per cui “la giusta retribuzione deve essere adeguata anche in proporzione all’anzianità di servizio acquisita, atteso che la prestazione di lavoro, di norma, migliora qualitativamente per effetto dell’esperienza” ( ).
Nell’ambito dell’operazione di raffronto tra la retribuzione di fatto e quella costituzionale, per procedere a una “valutazione coerente e funzionale allo scopo, rispettosa dei criteri giuridici della sufficienza e della proporzionalità” ( ), si ritiene che debba necessariamente tenersi conto dello stipendio netto, non potendosi assumere a riferimento un salario lordo che non si riferisce a un importo interamente spendibile dal lavoratore.
Tenuto conto, peraltro, che deve essere verificata l’idoneità del trattamento retributivo di fatto a garantire un’esistenza libera e dignitosa del lavoratore e del suo nucleo familiare, la valutazione deve necessariamente considerare la retribuzione mensile di un full time (dato che dovrà, evidentemente, essere riproporzionato ove il giudizio riguardi un lavoratore con orario a tempo parziale): unico parametro che consente effettivamente di ponderare il complessivo impatto della retribuzione sul tenore di vita ( ).

3.3. Il sindacato sull’adeguatezza costituzionale del trattamento economico fondamentale
Individuati i valori di riferimento dovrà, in primo luogo, essere operato il giudizio di adeguatezza costituzionale e bisognerà, dunque, verificare se la retribuzione effettivamente percepita dal lavoratore sia rispettosa del limite negativo invalicabile circoscritto dal parametro della sufficienza.

3.3.1. …nella pars destruens.
Questo passaggio – che potremo definire pars destruens del sindacato giudiziale – può avvalersi di plurimi strumenti di comparazione.
Si è detto, difatti, che la retribuzione sufficiente di cui all’art. 36 Costituzione è altro – e più – rispetto al trattamento retributivo funzionale al soddisfacimento dei meri bisogni essenziali di vita; se così è, allora, non potrà in alcun modo considerarsi sufficiente un trattamento retributivo che si attesti su valori, non solo inferiori, ma anche analoghi e/o prossimi a quelli fissati e/o individuati dalla legge per garantire i livelli minimi di sussistenza.
Il riferimento è, in primo luogo, ai dati ISTAT relativi al valore soglia di povertà assoluta, calcolato ogni anno in relazione a un paniere di beni e servizi essenziali per il sostentamento vitale, che viene differenziato in ragione dell’età, dell’area geografica di residenza del singolo e dei componenti della famiglia.
Chi scrive condivide il rilievo di quanti hanno osservato che, “se… si avesse riguardo ai dati Istat – che, come noto, sono collegati al costo della vita con marcate differenze a seconda della zona d’Italia (Nord, Centro e Sud) – si arriverebbe a legittimare un criterio di per sé discriminante” ( ); cionondimeno, il parametro in questione può comunque rappresentare uno strumento utile nella verifica della violazione del limite invalicabile negativo.
La Direttiva 2022/2041/UE convalida, in più di una disposizione, il riferimento in questa materia agli indicatori ISTAT, tanto avuto riguardo al costo della vita, quanto avuto riguardo alla soglia di povertà; tuttavia, come evidenziato dalla Corte di Cassazione, “i concetti di sufficienza e di proporzionalità mirano a garantire al lavoratore una vita non solo non povera ma persino dignitosa; orientando il trattamento economico non solo verso il soddisfacimento di meri bisogni essenziali ma verso qualcosa in più che la recente Direttiva UE sui salari adeguati all’interno dell’Unione n. 2022/2041 individua nel conseguimento anche di beni immateriali (cfr. considerando n. 28: “oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, si potrebbe tener conto anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali”)” ( ).
Vi è, poi, il reddito di cittadinanza che – come noto – muove dalla “ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di prevedere una misura di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale volta a garantire il diritto al lavoro e a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione, alla cultura mediante politiche finalizzate al sostegno economico e all’inserimento dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro e garantire così una misura utile ad assicurare un livello minimo di sussistenza, incentivando la crescita personale e sociale dell’individuo” (preambolo, D.L. 4/2019): l’ammontare netto mensile del reddito di cittadinanza, nelle intenzioni del Legislatore, è espressamente volto a garantire un livello essenziale di prestazione (art. 1 D.L. 4/2019); medesima riflessione può svolgersi con riferimento all’assegno di inclusione di cui al D.L. 48/2023, voluto – una volta ancora – in ragione della “straordinaria necessità e urgenza di introdurre nuove misure nazionali di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale delle fasce deboli attraverso percorsi di lavoro, di formazione, di istruzione, di politica attiva, nonché di inserimento sociale”, ed espressamente definito “misura di sostegno economico e di inclusione sociale e professionale” (art. 1 D.L. 48/2023). Vi è, altresì, il valore netto massimo della NASpI, prestazione finalizzata a “fornire una tutela di sostegno al reddito ai lavoratori con rapporto di lavoro subordinato che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione” (art. 1 Legge 22/2015).
Si tratta, nel complesso, di “provvidenze meramente assistenziali finalizzate a garantire quel reddito minimale idoneo ad assicurare il soddisfacimento dei bisogni alimentari dell’individuo” ( ).
Una parte della giurisprudenza di merito ha ritenuto utile considerare – nella prospettiva che ci accompagna – anche il minimale contributivo INPS di cui all’art. 7 co. 1, D.L. 463/1983 ( ), il trattamento netto mensile previsto per la cassa integrazione guadagni ordinario ( ), ovvero il limite di reddito previsto dall’ordinamento per il riconoscimento della pensione d’inabilità civile ex art. 12 Legge 118/1971 ( ).
Orbene, in tutti i casi in cui la retribuzione di fatto risulta inferiore, o anche solo prossima, ai valori indicativi della soglia di povertà, a livelli di prestazioni essenziali o, comunque, a mere forme di sostegno del reddito propri di stati di sospensione o perdita dell’occupazione lavorativa, dovrà senz’altro ritenersi violato il limite negativo della sufficienza.
Come opportunamente osservato, difatti, “la retribuzione tabellare di un CCNL non [può limitarsi] semplicemente ad allinearsi a tali parametri, essendo destinata a garantire ben altri valori quali la dignità del lavoro e un’esistenza libera e dignitosa, attraverso una remunerazione della prestazione proporzionata e sufficiente” ( ).
Dunque, ciò che deve essere assicurato, non è il minimo vitale, ma il raggiungimento di un tenore di vita socialmente adeguato ( ).

3.3.2. …nella pars construens.
Ritenuta l’insufficienza del trattamento retributivo in concreto percepito dal lavoratore, dovrà procedersi alla determinazione del quantum di retribuzione costituzionale spettante: se la retribuzione prevista dal contratto di lavoro risulta inferiore al valore soglia della retribuzione costituzionalmente adeguata, la relativa clausola contrattuale è nulla e – giusto il principio di conservazione – il giudice è chiamato ad adeguarla procedendo alla determinazione giudiziale della retribuzione dovuta (così, App. Milano, Sez. Lav., 23 ottobre 2017, n. 1885).
È la cosiddetta pars construens.
Come già osservato più volte dalle Corti di Merito, laddove sia verificato che le previsioni del contratto collettivo “non assicurano al lavoratore una retribuzione rispettosa dei requisiti dall’art. 36 Cost., e una volta conseguentemente appurata la nullità [della previsione contrattuale di riferimento] per contrasto con norma imperativa, in applicazione del principio di conservazione espresso dell’art. 1419, secondo comma, c.c.”, l’autorità giudiziaria “non può esimersi dall’individuare la retribuzione dovuta secondo i criteri dell’art. 36 Cost., in luogo di quella prevista. L’operazione ‘sostitutiva’, inevitabilmente discrezionale, dell’autorità giudiziaria è tuttavia limitata e circoscritta all’individuazione della misura adeguata della retribuzione e non incide su altri aspetti del c.c.n.l. individuato dalle parti come quello destinato a regolare il rapporto di lavoro” ( ).
Il Supremo Collegio ha chiarito che “il giudice è chiamato ad intervenire in ultima istanza, per assicurare, nell’ambito di ogni singolo rapporto di cui è chiamato a conoscere, la rispondenza dei predetti interventi allo statuto del salario delineato a livello generale nella normativa costituzionale; ed in caso di violazione ripristinare la regola violata dichiarando la nullità della clausola individuale e procedendo alla quantificazione della giusta retribuzione costituzionale (in applicazione delle regole civilistiche dell’art. 2099 c.c., comma 2, e dell’art. 1419 c.c., comma 1)”( ); si è precisato, altresì, che “il giudice di merito gode, ai sensi dell’art. 2099 c.c., di un’ampia discrezionalità nella determinazione della giusta retribuzione, potendo discostarsi (in diminuzione ma anche in aumento) dai minimi retributivi della contrattazione collettiva e potendo servirsi di altri criteri di giudizio e parametri differenti da quelli contrattual-collettivi (sia in concorso, sia in sostituzione), con l’unico obbligo di darne puntuale ed adeguata motivazione rispettosa dell’art. 36 Cost.”( ).
In questo, delicatissimo, passaggio del sindacato giudiziale non può, tuttavia, ravvisarsi una compressione della libertà sindacale.
Sul punto, oltremodo chiara la più recente giurisprudenza di legittimità nella parte in cui osserva che “nessuna lesione al principio di libertà sindacale è predicabile… nemmeno quando il giudice non applichi un CCNL di categoria sottoscritto dalla associazione maggiormente rappresentative ancorché richiamato in una legge… nella materia retributiva, non viene in discussione la libertà sindacale nel momento in cui, come si è visto, la stessa norma costituzionale (o anche una norma ordinaria) impone un parametro esterno al rapporto di lavoro ed ad esso eteronomo (anche a soggetti non obbligati all’applicazione del CCNL o anche al di fuori del CCNL altrimenti legittimamente applicato) allo scopo di attuare il principio costituzionale della giusta retribuzione riconosciuto in capo ad ogni lavoratore; anche al fine di un equilibrato contemperamento dei diversi interessi di carattere costituzionale (quand’anche venisse attuato l’art. 39 Cost.; cfr. Corte Cost. n. 106 del 1962, cit.). La nostra Costituzione ha accolto infatti una nozione di remunerazione della prestazione di lavoro non come prezzo di mercato, ma come retribuzione sufficiente ossia adeguata ad assicurare un tenore di vita dignitoso, non interamente rimessa all’autodeterminazione delle parti individuali né dei soggetti collettivi. I due requisiti di sufficienza e proporzionalità costituiscono limiti all’autonomia negoziale anche collettiva, così come del resto accade nei commi successivi dell’art. 36, che, come è stato giustamente osservato, non sempre vengono adeguatamente valutati insieme al comma 1 laddove appongono ulteriori limiti costituzionali alla durata sia della giornata lavorativa, sia della settimana e dell’anno di lavoro” ( ).
Quali siano, tuttavia, i criteri in concreto utilizzabili per individuare la retribuzione dovuta ex art. 36 Costituzione e compiere, quindi, questa operazione sostitutiva è questione particolarmente complessa.
Con un orientamento che si ritiene del tutto condivisibile, la Corte di Appello di Milano ha ritenuto di poter far riferimento, quale mero parametro esterno di quantificazione, alla misura della retribuzione minima prevista da un contratto collettivo di settore diverso da quello scelto dalle parti ove detto differente contratto collettivo, oltre a essere stato sottoscritto da organizzazioni pacificamente munite dei requisiti di rappresentatività nello specifico settore, soddisfi anche – diversamente da quello oggetto di giudizio – i requisiti dettati dall’art. 36 Costituzione, sia pure con il correttivo della necessità di considerare solo gli elementi integranti il cosiddetto minimo costituzionale per come sopra ricostruito.
Nel motivare una scelta che è – inevitabilmente – discrezionale, la Corte milanese ha valorizzato plurimi elementi oggettivi, quali il fatto che il contratto collettivo prescelto rientri tra quelli indicati dal lavoratore nella domanda giudiziale quale possibile parametro di quantificazione della retribuzione, il fatto che il contratto collettivo sia pertinente al settore di riferimento, e il fatto che il suddetto contratto collettivo preveda declaratorie maggiormente “affini” a quello oggetto di sindacato e, soprattutto, “meglio rispondenti all’attività in concreto affidata” al lavoratore ( ).
Un ulteriore elemento valorizzato è che “il medesimo CCNL, pur assicurando una retribuzione proporzionata e congrua al lavoratore, è quello che prevede gli importi inferiori, rispetto a quelli invece contemplati dal CCNL Commercio e Portierato, per la remunerazione di mansioni analoghe a quelle dell’appellante. Il parametro retributivo del CCNL multiservizi è pertanto quello che meno si discosta, pur adeguandoli al dettato costituzionale, dagli importi contemplati dal CCNL servizi Fiduciari” ( ).
Questo passaggio, che rappresenta sicuramente quello più critico del sindacato in esame, risulta condivisibile per due distinti ordini di ragioni.
Si è detto, in apertura, che il fine ultimo cui è imprescindibile tendere è quello della certezza del diritto: il criterio appena enunciato pare destinato a garantire il miglior governo della discrezionalità (e rappresentare un antidoto al rischio di soggettivismo giudiziario), in quanto consente un’individuazione obiettiva e, sotto un certo profilo, automatica del contratto collettivo da assumere a parametro.
Sotto altro profilo, il criterio pare funzionale al pieno rispetto delle prerogative di cui all’art. 39 Costituzione e strumento garantire – secondo l’insegnamento della Suprema Corte – quella massima prudenza che al giudice si impone “giacché difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche e politiche sottese all’assetto degli interessi concordato dalle parti sociali” ( ).
Per quanto soluzione da ricercarsi in via prioritaria, già solo in ossequio dei principi di cui all’art. 39 Costituzione, può accadere che il giudice non abbia – nel perimetro del singolo giudizio – la possibilità di individuare un contratto collettivo con minimi retribuitivi rispettosi dei canoni di cui all’art. 36 Costituzione; tanto si afferma in quanto si ritiene che, sotto questo specifico profilo, il sindacato sia vincolato dagli elementi offerti al giudizio dalle parti (rectius, dal lavoratore ricorrente) e, dunque, dai contratti collettivi invocati a parametro, dovendosi escludere che il giudice di merito possa autonomamente ricercare e applicare un contratto collettivo estraneo alle allegazioni di causa.
In queste ipotesi, risultando comunque necessario portare a termine l’operazione sostitutiva e individuare la retribuzione costituzionalmente adeguata, bisogna comprendere quali siano gli strumenti a disposizione del giudice.
Più voci invitano a considerare il parametro suggerito dal Ventottesimo Considerando della Direttiva 2022/2041/UE: “…Gli Stati membri potrebbero scegliere tra gli indicatori comunemente impiegati a livello internazionale e/o gli indicatori utilizzati a livello nazionale. La valutazione potrebbe basarsi su valori di riferimento comunemente impiegati a livello internazionale, quali il rapporto tra il salario minimo lordo e il 60 % del salario lordo mediano e il rapporto tra il salario minimo lordo e il 50 % del salario lordo medio, valori che attualmente non sono soddisfatti da tutti gli Stati membri, o il rapporto tra il salario minimo netto e il 50 % o il 60 % del salario netto medio…”.
Si ritiene, tuttavia, che il suddetto criterio presenti alcune criticità.
La prima, di maggior rilievo, è quella inerente all’impatto che un simile criterio avrebbe rispetto alle prerogative costituzionalmente riconosciute alle Organizzazioni Sindacali ex art. 39 Costituzione.
La seconda è che questo criterio parrebbe destinato a creare una sorta di corto circuito con la presa d’atto di cui alla prima parte del medesimo Considerando, ove si rammenta che l’adeguatezza dei salari minimi legali deve essere necessariamente ponderata, da ciascuno Stato membro, in ragione “delle proprie condizioni socioeconomiche nazionali, comprese la crescita dell’occupazione, la competitività e gli sviluppi regionali e settoriali”, nonché tenendo conto “del potere d’acquisto, dei livelli e degli sviluppi della produttività nazionale a lungo termine, nonché del livello dei salari, della loro distribuzione e della loro crescita”.
Il Supremo Collegio ha già avuto modo di chiarire che rientra “nel potere discrezionale di detto giudice e fondare la pronuncia, anziché su tali parametri, sulla natura e caratteristiche dell’attività svolta, su nozioni di comune esperienza, od anche su criteri equitativi” ( ); in epoca ben più recente, pronunziandosi su uno dei primi casi affrontati dal Tribunale di Milano in punto di applicazione del C.C.N.L. Servizi Fiduciari ( ), la Corte di Legittimità ha anche affermato che il giudice del merito può motivatamente discostarsi in melius dai parametri previsti dalla contrattazione collettiva applicata al settore di riferimento ( ).
Deve rammentarsi, tuttavia, che la pronunzia in via equitativa non deve mai tramutarsi in mero arbitrio, con la conseguenza che – anche ove il giudice ritenga di dover utilizzare parametri diversi da quelli contrattuali – non viene meno, e invero si rafforza, l’onere motivazionale e, a monte, la necessità di individuare in via obiettiva e inequivoca gli elementi di fatto e/o i criteri impiegati per operare l’adeguamento costituzionale della retribuzione e quantificare il “giusto corrispettivo”.
A tal fine, può allora recuperarsi – seppur con una prospettiva circoscritta alla realtà nazionale – il criterio tratteggiato dal Ventottesimo Considerando, per come richiamato anche dalle più recenti pronunzie della Suprema Corte: “l'individuazione percentuale del salario medio e/o mediano, che nel nostro Paese può essere individuato anche attraverso i dati Uniemens censiti dall'INPS…; suggerimento che il giudice interno può dunque valorizzare ai fini della complessiva valutazione di conformità nei termini equitativi richiesti da questa giurisprudenza ex art. 36 Cost., anche ai sensi dell'art. 432 c.p.c.”( ).
Ricondotto al quadro nazionale, il criterio – che potrebbe essere integrato con una differenziazione per categorie di lavoratori – parrebbe rispettoso delle prerogative di cui all’art. 39 Costituzione, posto che il dato sarebbe il precipitato dei valori retributivi complessivamente previsti dalla contrattazione collettiva del Paese; peraltro, trattandosi di un valore statistico rilevabile dai dati necessariamente censiti dall’Ente Previdenziale, si ritiene che lo stesso possa legittimamente trovare ingresso nel giudizio – ex art. 210 e 421 c.p.c. – senza che si configuri una violazione né del principio del contraddittorio né del principio dispositivo.
Ancora, trattandosi di un dato considerato a livello nazionale, e comprensivo quindi dei dati retributivi di tutti i possibili settori di riferimento, il criterio si prospetta strumento utile a neutralizzare le anomalie riscontrabili in quei singoli settori connotati da una contrattazione eccessivamente al ribasso e da accentuati fenomeni di dumping salariale ( ).
Qualsiasi sia, in ogni caso, il criterio individuato dal giudice per svolgere questa delicata funzione sostitutiva, anche impiegando gli strumenti dell’equità, è imprescindibile che si dia esaurientemente conto del percorso logico-giuridico seguito, dei parametri addottati e dei motivi della scelta così compiuta.
Il giudice, in sostanza, deve compiutamente motivare in merito alle ragioni sottese all’orientamento e all’esercizio della sua discrezionalità: l’onere motivazionale, d’altronde, è baluardo della prudenza del giudicare.

4. Concludendo…
In uno dei primi, autorevoli, commenti della Carta Costituzionale si è affermato che – tra le tre essenziali funzioni economiche considerate dalla Carta, ossia iniziativa, risparmio e lavoro – quest’ultimo, il lavoro, “…merita una particolare attenzione perché impegna nel suo svolgimento tutta la umanità del soggetto. Essa incide sulla natura materiale e su quella spirituale dell’uomo, sulla personalità individuale e su quella sociale del medesimo. Il problema del lavoro nelle sue soluzioni coinvolge problemi psicologici e biologici, di libertà e di dignità umana, di solidarietà sociale e di sviluppo umano… non possiamo prescindere dal fatto che la Costituzione concepisce il lavoro come fondamento primario del vincolo sociale, come fattore creativo di benessere, come fonte originaria della stessa forza politica di una nazione democratica. Sotto questi riflessi il problema del lavoro non è soltanto un problema del lavoratore, che impiegando le sue energie ottiene i beni per l’esistenza; non è soltanto un problema dei lavoratori, come categoria distinta e compartecipante e perciò concorrente con altre alla distribuzione del reddito sociale; ma è anche il problema della società tutta intera, nella considerazione della sua forza e del processo della sua costruzione e del suo sviluppo. Da questa concezione del lavoro discende la necessità della sua tutela” ( ).
È chiaro, dunque, che nel nostro ordinamento costituzionale non può esservi spazio per il cosiddetto lavoro povero o – espressione che meglio palesa la contrarietà rispetto ai principi costituzionali – per situazioni di “povertà nonostante il lavoro”.
Non vi è dubbio alcuno, pertanto, che pur nella consapevolezza delle oggettive criticità dell’attuale contesto storico e sociale, delle peculiari tensioni di alcuni settori di mercato e dell’esigenza di garantire la competitività del sistema economico, sia necessario salvaguardare la piena attuazione del principio di cui all’art. 36 co. 1, Costituzione, non potendosi ammettere che le economie di mercato e la competitività del sistema poggino sulla violazione di principi fondamentali del nostro ordinamento e, soprattutto, sulla negazione del diritto di alcune categorie di lavoratori – e delle relative famiglie – di vivere un’esistenza libera e dignitosa, di partecipare a ciò cui tutti noi quotidianamente e legittimamente aspiriamo.
Da questa prospettiva necessariamente muove il sindacato di merito e la ricerca, ancora in corso, con tutte le complessità che le son proprie, di una piena coerenza del sistema.

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