testo integrale con note e bibliografia

Premessa
L’individuazione dell’oggetto dell’obbligazione retributiva nell’ambito del rapporto di lavoro non definisce esaustivamente l’oggetto delle correlate obbligazioni contributiva e previdenziale. L’esistenza di tre distinte obbligazioni disciplinate da differenti regole, anche se tutte trovano genesi e fondamento nel medesimo evento, il sorgere e lo svolgimento dell’attività lavorativa, impedisce di poter ricondurre ad unicum la determinazione monetaria della retribuzione che deve essere posta a base di calcolo di ciascuno degli indicati rapporti obbligatori. È pur vero che la definizione dell’ammontare minimo dovuto in forza dell’art. 36 della Costituzione costituisce il nucleo essenziale dal quale prendere le mosse per definire concretamente l’importo di ciascuna obbligazione di pagamento, tuttavia le regole che disciplinano ognuna di esse declinano in maniera differente il metodo attraverso il quale individuare le somme dovute. E tale differenziazione porta conseguenzialmente a diversi risultati.

Il salario contributivo
Per come è noto, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato l’obbligazione di pagamento della contribuzione è posta a carico del datore. È parimenti noto che la prestazione corrispondente ha ad oggetto una somma di denaro per la cui determinazione è necessario individuare l’importo della retribuzione corrisposta (o da corrispondere) al dipendente. La somma dovuta a titolo di contribuzione, infatti, deve essere individuata calcolando la percentuale di essa che il legislatore ha stabilito essere l’importo da corrispondere.
Appare di lapalissiana evidenza che il presupposto fondamentale per la determinazione della contribuzione è costituito dall’individuazione della retribuzione sulla quale deve essere calcolato l’importo dovuto a tale titolo. Orbene, secondo il combinato disposto degli artt. 12 della legge 30 aprile 1969, n. 153, e 49 (ex art. 46) del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ai fini che ci occupano, la retribuzione del lavoratore dipendente è costituita da tutto ciò che il lavoratore medesimo riceve (rectius, ha diritto di ricevere) dal datore, in denaro o in natura, in dipendenza del rapporto di lavoro. Rimangono fuori dal detto calcolo, in quanto non concorrono a formare il salario contributivo, le somme corrisposte per determinati titoli retributivi specificatamente indicati dall’art. 51 (ex art. 48) del d.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917.
La somma di denaro così determinata costituisce la base imponibile sulla quale vanno calcolati gli importi da versare all’Ente previdenziale a titolo di contributi.
L’esistenza di un preciso metodo di definizione dell’imponibile contributivo non risulta tuttavia esaustivo. Può capitare, infatti, che il descritto procedimento di calcolo porti alla formazione di una somma ritenuta esigua dal legislatore. Ed è proprio per questo motivo che si è stabilito che, a prescindere dalla retribuzione di fatto percepita dal lavoratore, ai fini contributivi, l’importo della somma da considerare come controprestazione lavorativa non può essere inferiore al 7,50% dell’importo del trattamento minimo mensile di pensione a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti in vigore al 1° gennaio di ciascun anno. Tale limite minimo, originariamente previsto dall’art. 7 comma 1 del decreto legge 12 settembre 1983, n. 463, conv. in l. 11 novembre 1983, n. 638, è stato elevato al 9,5% dall’art. 1 comma 2 del decreto legge 9 ottobre 1989, n. 338 conv. in l. 7 dicembre 1989, n. 389.
Acclarato il metodo accertativo della retribuzione contributiva occorre adesso esaminare e definire quale deve essere la retribuzione da prendere come base di computo.
La specificazione risulta contenuta nel primo comma dell’art. 1 decreto legge 338 del 1989. Questa norma prevede che “La retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo”. L’indicata disposizione è stata autenticamente interpretata dall’art. 2 comma 25 legge 28 dicembre 1995, n. 549 la quale ha previsto che, “in caso di pluralità di contratti collettivi intervenuti per la medesima categoria, la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi è quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative nella categoria”. È questo quello che viene definito come il contratto collettivo nazionale leader.
Il dato normalmente adoperabile per l’individuazione del minimale contributivo è, all’evidenza, il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro. Da esso ci si può discostare solo se i salari indicati negli altri accordi o nel contratto individuale sono uguali o maggiori di quelli convenuti nel CCNL di riferimento.
Una particolare disputa interpretativa ha riguardato l’individuazione del minimale contributivo nel caso in cui il C.C.N.L. applicabile al singolo rapporto di lavoro, ma di fatto non applicato, prevede la corresponsione di somme ulteriori rispetto al minimale retributivo costituzionalmente proporzionato ex art. 36 Cost.
La questione era stata risolta in maniera non uniforme dalla Giurisprudenza di legittimità. Da alcuni si opinava che il minimale contributivo dovesse essere identico al minimale retributivo . Un diverso filone giurisprudenziale reputava, invece, che i due concetti sono tra loro differenti. Secondo i sostenitori di quest’ultima tesi nel salario contributivo, oltre il salario minimo costituzionale, ovviamente, sono da ricomprendere anche gli elementi retributivi eccedenti il detto minimale purché, in ogni caso, siano previsti dal CCNL di riferimento .
Il contrasto appena descritto è stato risolto delle Sezioni Unite della Suprema Corte.
Secondo il Supremo Organo Giurisdizionale l’interpretazione corretta è quella espressa dal secondo dei descritti orientamenti.
Si è ritenuto, infatti, che l’art. 1 decreto legge n. 338 del 1989, nel fare riferimento alla contrattazione collettiva, non prevede che siano apportate limitazioni ad alcuna delle voci retributive ivi indicate, sicché, l’eventuale loro esclusione sarebbe certamente illegittima in quanto non si tratta di calcolare la giusta retribuzione, ma, piuttosto, di stabilire il rapporto tra retribuzione oggetto del rapporto di lavoro e retribuzione parametro ai fini contributivi. Peraltro, d’altro lato, non solo sarebbe non legittima alcuna esclusione, siccome non prevista, ma, ad un tempo, sarebbe contraddittorio riconoscere la (ovvia) vincolatività dell’art. 1 in questione con la conseguente applicazione delle fonti normative ivi indicate, e, poi, però, subordinarne l’operatività nel caso concreto soltanto ove siano applicabili ex art. 36 Cost. o siano applicate dai datori di lavoro nel concreto rapporto.
La possibile divaricazione tra retribuzione corrisposta (o da corrispondere ex art. 36 Cost.) e retribuzione virtuale, assunta come parametro ai fini contributivi, anche se il CCNL di riferimento non viene applicato, consente il conseguimento di una migliore tutela assicurativa dei lavoratori, di un equilibrio finanziario della gestione previdenziale e della parità delle condizioni tra le imprese, a prescindere dalla loro adesione alle organizzazioni sindacali più rappresentative.
La descritta possibile divaricazione ha superato, peraltro, anche il vaglio di Costituzionalità. La Corte delle Leggi, infatti, nel valutare la conformità alla Carta Fondamentale dell’art. 28 d.P.R. 27 aprile 1968, n. 488, che nel settore dell’agricoltura, determinava la retribuzione utile ai fini contributivi sulla base delle retribuzioni medie di cui ai contratti collettivi vigenti annualmente per ogni provincia, ha ritenuto legittima la norma “in combinato disposto con l’art. 1, primo comma, decreto legge n. 338 del 1989, convertito in legge n. 389 del 1989”, rilevando che tale ultima disposizione consente di effettuare un bilanciamento d’interessi, realizzato attraverso l’utilizzazione di contratti collettivi come modelli generali o parametri validi per la generalità dei datori di lavoro, senza peraltro conferire ai contratti collettivi medesimi efficacia “erga omnes” per quanto attiene al rapporto di lavoro, essendo questo del tutto distinto da quello previdenziale .
L’interpretazione della norma di riferimento (art. 1 decreto legge 338/1989) comporta che deve tenersi nettamente distinto il minimale retributivo dal minimale contributivo.
Il primo è costituito dal salario minimo ex art. 36 della Costituzione mentre il secondo rappresenta la retribuzione minima da prendere a base per il calcolo dei contributi previdenziali e assicurativi posti a carico del datore di lavoro.
Deve ricordarsi, infine che, in ogni caso, è previsto il c.d. minimo dei minimi costituito dal 9,5% dell’importo del trattamento minimo mensile di pensione a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti in vigore al 1° gennaio di ciascun anno determinato su base giornaliera. A prescindere da tutte le altre previsioni determinative della retribuzione, l’ammontare così individuato costituisce la soglia minima base per la determinazione dei contributi dovuti dal datore di lavoro.
Il minimale contributivo va calcolato su base mensile moltiplicando il valore del minimale giornaliero per 26.

Il salario previdenziale
Il salario previdenziale è quello che viene individuato come base di calcolo delle prestazioni previdenziali.
Sull’argomento è opportuno premettere che, malgrado l’art. 12 della legge 30 aprile 1969, n. 153, al comma 10 prevede che “La retribuzione imponibile (contributiva n.d.r.), è presa a riferimento per il calcolo delle prestazioni a carico delle gestioni di previdenza e di assistenza sociale interessate”, tale regola risulta derogata dalle varie disposizioni che disciplinano le singole prestazioni. Peraltro, l’interpretazione in combinato disposto dell’indicata disposizione con l’art. 1 del d.l. n. 338 del 1989, convertito in legge n. 389 del 1989, impedisce una correlazione complessiva tra i due salari pur rimanendo la valenza del citato art. 12 (con il rinvio alla determinazione del reddito da lavoro dipendente contenuta nell’art. 48, oggi 51, del T.U. dell’imposte sui redditi di cui al d. l.vo 22 dicembre 1986 n. 917) nell’individuazione della retribuzione come tutte le erogazioni in denaro o in natura corrisposte “in relazione al rapporto di lavoro”.
L’impossibilità di applicazione generalizzata del descritto precetto normativo nell’interpretazione sinergica proposta, unitamente all’importanza ed al numero delle prestazioni previdenziali per le quali tale riferimento risulta derogato determina l’impossibilità di poter affermare l’esistenza di una equiparazione tra il salario contributivo ed il salario previdenziale.
Quest’ultimo, infatti, risulta individuato, alcune volte sulla base del salario contributivo ed altre sul salario retributivo.
Dall’esame delle regole che disciplinano le singole prestazioni previdenziali risulta chiaramente quanto appena riferito.
La prima disciplina che ci accingiamo ad analizzare riguarda la determinazione delle prestazioni pensionistiche, siano esse di vecchiaia o anticipate (le vecchie pensioni di anzianità). Le pensioni possono essere liquidate con il solo sistema contributivo (per i lavoratori che hanno iniziato l’attività dopo il primo gennaio 1996) ovvero con il sistema retributivo (per i lavoratori che potevano far valere 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995 e che si sono pensionati prima del 31 dicembre 2011) ovvero ancora con il c.d. sistema misto, in parte retributivo ed in parte contributivo, (per chi ha cominciato a lavorare prima del primo gennaio 1996 ma da meno di diciotto anni). Orbene, se per il calcolo della pensione contribuiva, dovendosi tenere conto della sola contribuzione versata o dovuta, si può affermare che il salario contributivo coincide con quello retributivo, per le pensioni retributive o per quelle miste tale coincidenza non è dato più verificarla. La pensione retributiva, infatti, così come la quota retributiva della pensione mista, va calcolata prendendo a base “le retribuzioni percepite in costanza di rapporto di lavoro” (arg. ex art. 3 comma 7 legge 29 maggio 1982 n. 297). Si deve tenere conto, cioè, della retribuzione lavorativa e non della retribuzione contributiva.
Analoghe discrepanze si verificano nella determinazione delle prestazioni previdenziali temporanee. Per queste ultime, infatti, la disciplina di ciascuna di esse stabilisce in modo differente quale deve essere la retribuzione di riferimento.
Per la NASPI, l’art. 4 del d. l.vo n. 22 del 4 marzo 2015 prevede che la prestazione deve essere liquidata sulla base della “retribuzione imponibile ai fini previdenziali”.
Lo stesso riferimento non vale per le altre provvidenze.
L’art. 3 del d. l.vo 148 del 14 settembre 2015 prevede che l’integrazione salariale, sia essa ordinaria o straordinaria, deve essere pari “all'80 per cento della retribuzione globale che sarebbe spettata al lavoratore per le ore di lavoro non prestate”.
Simile indicazione risulta formulata per le prestazioni legate alla maternità ed alla paternità. Le prestazioni dovute per l’astensione obbligatoria, secondo quanto prevede l’art. 23 del d. l.vo 26 marzo 2001 n. 151 devono essere quantificate prendendo a base “la retribuzione media globale giornaliera del periodo di paga quadrisettimanale o mensile scaduto ed immediatamente precedente a quello nel corso del quale ha avuto inizio il congedo”. Per il congedo parentale, ai sensi dell’art. 34 del citato d. l.vo 151 del 2001, l’indennità è determinata nella misura “pari al 30 per cento della retribuzione”, lavorativa, ovviamente.
Nello stesso solco risulta inserita anche l’indennità per il congedo straordinario massimo biennale per l’assistenza alle persone con disabilità grave. Secondo quanto prevede l’art. 42 del più volte citato d. l.vo 151 del 2001 “il richiedente ha diritto a percepire un'indennità corrispondente all'ultima retribuzione, con riferimento alle voci fisse e continuative del trattamento”.
Anche l’indennità di malattia viene calcolata sulla base della retribuzione lavorativa. L’allegato unico al d. l.vo luogotenenziale n. 213 del 19 aprile 1946 prevede che l’indennità in argomento vada calcolata sulla base della retribuzione media globale giornaliera percepita nei due ultimi periodi di paga precedente al giorno d'inizio della malattia. E tale retribuzione deve comprendere, in base all’art. 12 della legge 153 del 1969, tutto ciò che il lavoratore riceve in danaro o in natura dal datore come corrispettivo della sua prestazione lavorativa.
L’incidenza del salario costituzionale nei rapporti contributivo e previdenziale.
Dall’esame delle regole che disciplinano i criteri di individuazione del salario di riferimento per la determinazione dell’obbligazione contributiva, da un lato, e dell’obbligazione previdenziale, dall’altro, si evince che, in ogni caso, la retribuzione di riferimento non può essere inferiore a quella minima determinata ai sensi dell’art. 36 della Costituzione.
Per quanto riguarda la retribuzione contributiva occorre riflettere sulla circostanza che la sua individuazione per come specificata dalle Sezioni Unite del Supremo Consesso deve essere individuata, sì, sulla base del salario indicato nel CCNL di riferimento, ma questo salario deve risultare comprensivo del salario minimo costituzionale e delle ulteriori provvidenze che risultano dovute in forza delle ulteriori clausole contenute nel medesimo accordo collettivo.
Analoga considerazione, anche se in forma differenziata, vale per il salario previdenziale. Anche in quest’ultima fattispecie, infatti, il salario minimo costituzionale deve essere ritenuto il nucleo essenziale per tutte le possibili ipotesi di determinazione del salario previdenziale. Se si esamina ciascuna delle fattispecie sopra descritte si riscontra che ogni prestazione pone alla base della sua quantificazione quantomeno il minimo salariale ex art. 36. Nell’ipotesi della NASPI tale minimo costituirà, all’evidenza, il riferimento del salario contributivo e, attraverso di esso, anche il minimo previdenziale, mentre in tutte le altre fattispecie il rinvio alla retribuzione percepita deve essere inteso anche come retribuzione (minima) dovuta a prescindere, se inferiore, da quella effettivamente corrisposta.
Le considerazioni appena svolte non risultano inficiate dalla circostanza che ciascuno dei descritti minimi è da riferire a diverse e distinte obbligazioni. Il soggetto attivo di ciascuna di esse, invero, può certamente pretendere che il soggetto obbligato al pagamento rispetti i limiti minimi che la legge prevede. Se poi tale legge è la Legge Fondamentale in una sua rappresentazione direttamente precettiva quale è l’art. 36, risulta di tutta evidenza che qualsiasi obbligazione ad essa correlata deve necessariamente essere rispettosa del disposto in essa contenuto.
In quest’ottica non può essere messo in discussione che l’Ente previdenziale deve pretendere il pagamento della contribuzione in misura parametrata quantomeno al salario costituzionale. E se tale livello minimo viene eluso anche dal contratto collettivo, ben può, il medesimo Ente pretendere il rispetto dell’indicata disposizione primaria e chiedere al datore l’adempimento dell’obbligazione contributiva basandosi sulla retribuzione minima dovuta. Nondimeno, è lo stesso art. del d.l. n. 338 del 1989 che prevede che “La retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi …”. E la legge primaria, peraltro direttamente precettiva, che deve essere applicata al riguardo è certamente l’art. 36 della Costituzione.
Anche nell’ambito del rapporto previdenziale trovano applicazione i medesimi principi. Il lavoratore ove il datore abbia corrisposto una retribuzione inferiore a quella minima costituzionale ben può, in forza del principio di automatismo di cui all’art. 2116 1° comma c.c., chiedere che la prestazione previdenziale dovutagli sia parametrata al medesimo salario.
La tutela della posizione assicurativa del lavoratore
Le azioni che consentono al lavoratore subordinato la salvaguardia della propria posizione contributiva risultano differenziate in relazione al momento in cui vengono esercitate ed alle condizioni in cui il lavoratore medesimo si trova. Il primo mezzo di tutela, anche in ordine di tempo, che gli è attribuito è rappresentato dal principio di automatismo di cui all’art. 2116, comma 1, c.c. Tale principio nella sua accezione più ampia può realizzarsi attraverso due differenti forme: la richiesta di pagamento della prestazione previdenziale ovvero la domanda di costituzione della posizione assicurativa. La prima delle indicate azioni consiste nel richiedere all’Ente previdenziale semplicemente il riconoscimento ed il pagamento della prestazione anche nelle ipotesi in cui il datore non ha versato la contribuzione, a condizione, però, che la contribuzione medesima sia ancora dovuta. A condizione, cioè, che il diritto al relativo pagamento non si sia già prescritto. In queste ipotesi il lavoratore dovrà dimostrare di possedere i requisiti necessari per l’attribuzione della specifica provvidenza richiesta e, sul piano contributivo, dovrà provare l’avvenuto svolgimento dell’attività lavorativa per il tempo occorrente a realizzare il corrispondente requisito contributivo. In questo contesto la presentazione della domanda amministrativa vale a cristallizzare il diritto del lavoratore nel senso che l’eventuale prescrizione della contribuzione che si dovesse verificare in un tempo successivo, dovuta, ovviamente, all’inerzia dell’Ente previdenziale, non potrà avere alcun effetto sul diritto alla prestazione non potendosi far ricadere detta omissione sul lavoratore incolpevole il quale, ricordiamolo, non è parte del rapporto contributivo e, conseguenzialmente, non può sostituirsi all’Ente previdenziale ed interrompere lui il termine prescrizionale.
L’ulteriore azione che trova fondamento sempre nell’art. 2116, 1° comma c.c. è quella che consente al lavoratore di chiedere che venga accreditata sulla propria posizione assicurativa tutta la contribuzione corrispondente al lavoro svolto e che, per qualsiasi motivo, il datore non ha pagato.
La Corte Costituzionale occupandosi dell’argomento ha avuto modo di affermare che il principio di automaticità delle prestazioni nella sua accezione più ampia appena descritta “costituisce una fondamentale garanzia per il lavoratore assicurato, intesa a non far ricadere su di lui il rischio di eventuali inadempimenti del datore di lavoro in ordine agli obblighi contributivi, e rappresenta perciò un logico corollario della finalità di protezione sociale inerente ai sistemi di assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti.” . In questo contesto interpretativo il detto principio di automaticità delle prestazioni, proprio in quanto diretto ad impedire che possa frustrare la realizzazione del diritto alle prestazioni previdenziali trova fondamento e tutela nell’art. 38, comma 2 della Carta Fondamentale.
Diversa e distinta dalla salvaguardia fondata nel più volte citato 1° comma dell’art. 2116 c.c. è quella accordata per le ipotesi nelle quali la contribuzione è già prescritta.
Ove si verifichi siffatta evenienza al lavoratore ed al datore, sono riconosciute differenti possibilità che consentono di porre rimedio, risarcitorio, al mancato versa mento dei contributi.
Ai sensi dell’art. 2116, comma 2, c.c., ove l’omissione è divenuta definitiva, al lavoratore compete il risarcimento dei danni che gli sono derivati dall’omesso versamento. Questo diritto è cosa differente e ben distinta dalla prestazione previdenziale. Esso sorge solo nel caso in cui l’Ente previdenziale non può riconoscere la prestazione richiesta dall’assicurato per mancanza dei contributi non pagati dal datore ed ormai prescritti.
Accanto, e parzialmente in alternativa, alla tutela accordata dalla richiamata norma codicistica, l’ordinamento consente, ai sensi dell’art. 13, L. n. 1338/1962, al datore o al lavoratore di porre rimedio all’avvenuta estinzione per prescrizione dell’obbligazione contributiva, attraverso la proposizione di una domanda di autorizzazione al versamento di una somma pari alla riserva matematica corrispondente alla contribuzione omessa che avrà gli stessi effetti della contribuzione versata. Il diritto corrispondente alla facoltà di cui si è appena riferito può essere riconosciuto solo se la prova del rapporto di lavoro è fondata su documenti di data certa, dai quali possa trarsi la effettiva esistenza del rapporto di lavoro. L’opzione riparativa in argomento, nelle ipotesi i cui non vi abbia provveduto il datore, e fatto salvo il risarcimento del danno, è concessa pure al lavoratore. Anche per lui vale la regola della necessità di prova scritta.
Riguardo ad essa è d’uopo ricordare che il citato art. 13, L. n. 1338/1962, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo “nella parte in cui, salva la necessità della prova scritta sull’esistenza del rapporto di lavoro non consente di provare altrimenti la durata del rapporto stesso e l’ammontare della retribuzione” .
Alla luce di quanto finora esposto, in caso di definitiva prescrizione del credito contributivo, al lavoratore sono riconosciute due azioni a tutela dei propri diritti: una risarcitoria ed una restitutoria. La prima può essere fatta valere se e quando il lavoratore medesimo ha raggiunto l’età pensionabile e può far valere gli ulteriori requisiti che la legge richiede per il riconoscimento del trattamento di quiescenza. Prima di tale momento la medesima azione risarcitoria può essere anticipata chiedendo una sentenza di condanna generica eventualmente al fine di costituire delle garanzie sul credito risarcitorio futuro. Il danno corrispondente coinciderà con i ratei di pensione o la parte di essi non pagati per la mancanza dei contributi omessi. La seconda tutela, quella restitutoria, invece, consiste nel diritto del lavoratore di chiedere la restituzione della somma eventualmente da lui versata in sostituzione del datore ai sensi dell’art. 13, L. n. 1338/1962.
Il complesso normativo-interpretativo delineato è il prodotto di una consolidata valutazione giurisprudenziale e dottrinaria ultracinquantennale.
Malgrado la graniticità dell’opzione ermeneutica riferita, deve darsi atto che recentemente la Suprema Corte se ne è discostata arrivando a differenti approdi interpretativi giungendo, addirittura, a negare l’esistenza del diritto alla giusta posizione contributiva.
Si è sostenuto che non è prevista la regolarizzazione della posizione assicurativa in ipotesi di omesso versamento dei contributi da parte del datore di lavoro, neppure nel caso in cui l’Ente previdenziale, pur se messo a conoscenza dell’inadempimento datoriale prima della decorrenza del termine di prescrizione, non si sia attivato per l’adempimento nei confronti del soggetto obbligato. La tutela del lavoratore rimane affidata soltanto all’uso della procedura di costituzione della rendita ai sensi dell’art.13, L. n.1338/62. Si è precisato, richiamando peraltro inopinatamente un precedente della medesima Corte (Cass. Civ. n. 7459 del 2002) che la costituzione della posizione assicurativa è possibile solo nel caso in cui “il lavoratore non aveva potuto, né avrebbe potuto in futuro, sopperire ricorrendo ai rimedi apprestati dal legislatore per i casi di inadempimento datoriale”.
La contraddizione contenuta nelle riferite affermazioni appare di tutta evidenza.
Prima si afferma che il diritto alla giusta posizione contributiva non esiste e poi si sostiene che la posizione assicurativa può essere costituita solo se il lavoratore non può sopperire al mancato versamento facendo uso dei rimedi approntati allo scopo dall’ordinamento che, a parere della Corte, è quello contenuto nel più volte citato art. 13 l. 1338/1962.
Ma allora questo diritto esiste o non esiste? Non appare certamente sostenibile affermare che un diritto, sempre lo stesso, possa esistere solo in presenza di determinate particolari condizioni fattuali.
In un altro successivo arresto la Suprema Corte, dopo aver ribadito le riferite affermazioni contrastanti, è arrivata ad attuare, di fatto, un aberrante parziale effetto abrogativo dell’art. 18 Stat. lav.
La fattispecie relativa al giudizio posto al vaglio della Corte di Cassazione riguardava un caso nel quale un lavoratore, ottenuta una sentenza dichiarativa di illegittimità del licenziamento e di condanna del datore al pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali, dopo il passaggio in giudicato della decisione e di fronte al perpetuarsi dell’inadempimento datoriale, aveva chiesto all’I.N.P.S. di provvedere alla regolarizzazione della sua posizione contributiva.
L’Ente previdenziale aveva rigettato la domanda.
Orbene, anche in questa seconda decisione del Supremo Consesso si è affermato che “è parimenti consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui, in caso di omesso versa mento dei contributi da parte del datore di lavoro, il nostro ordinamento non prevede un’azione del l’assicurato volta a condannare l’ente previdenziale alla ‘regolarizzazione’ della sua posizione contributiva, nemmeno nell’ipotesi in cui l’ente previdenziale, che sia stato messo a conoscenza dell’inadempimento contributivo prima della decorrenza del termine di prescrizione, non si sia tempestivamente attivato per l’adempimento nei confronti del datore di lavoro obbligato, residuando unicamente in suo favore il rimedio risarcitorio di cui all’art. 2116 c.c. e la facoltà di chiedere all’I.N.P.S. la costituzione della rendita vitalizia ex art. 13, L. n. 1338/1962”.
Il principio che viene riferito come consolidato, non solo non è tale, ma i precedenti arresti che vengono indicati come conformi (a parte Cass. Civ. n. 2164 del 2021 di cui si è detto sopra) esprimono principi perfettamente opposti a quelli affermati.
La sentenza (Cass. N, 6569 del 2010 ) citata nella motivazione della decisione che ci sta occupando riguardava una questione nella quale un lavoratore aveva chiesto il riconoscimento del diritto alla pensione di anzianità in forza del principio di automatismo. In quel caso, peraltro, l’I.N.P.S. era venuto autonomamente a conoscenza del mancato pagamento dei contributi e non aveva provveduto ad attivarsi per il recupero. La Corte, rilevato che il credito contributivo si era prescritto, ha ineccepibilmente affermato che “Non è invece prevista la regolarizzazione della posizione assicurativa, in ipotesi di omesso versamento dei contributi da parte del datore di lavoro, per l’ipotesi in cui l’Istituto assicuratore, pur se messo a conoscenza dell’inadempimento contributivo prima della decorrenza del termine di prescrizione, non si sia attivato per l’adempimento nei confronti del soggetto obbligato; anche in tale ipotesi, infatti, in difetto di previsione di diverso segno, la tutela del lavoratore deve ritenersi affidata al ricorso alla descritta procedura di costituzione della rendita”. La motivazione appena riportata non merita alcuna censura. La Corte non poteva che prendere atto dell’avvenuta prescrizione del credito contributivo prima della presentazione della domanda di regolarizzazione della posizione assicurativa e, applicando in maniera ineccepibile l’art. 2116 1° comma c.c., ha rigettato la domanda esprimendo il riferito condivisibile principio. Ma, si ripete, in quel caso il credito contributivo si era prescritto.
Anche l’altra sentenza (Cass. Civ. n. 3491 del 2014 ) citata come precedente conforme dalla decisione che stiamo esaminando esprime concetti diametralmente opposti a quelli che ad essa vengono riferiti. In quel caso la fattispecie oggetto della decisione riguardava una vicenda in cui con un verbale ispettivo dell’I.N.P.S. erano stati annullati alcuni periodi contributivi. Detto verbale era stato impugnato dai lavoratori e il Giudice di primo grado aveva dichiarato il diritto dei lavoratori subordinati ad effettuare i versamenti contributivi. La Suprema Corte, dopo aver ribadito che le parti del rapporto contributivo sono solo il datore e l’ente previdenziale, ha affermato che “i lavoratori non …. omissis …. potevano chiedere di sostituirsi al datore di lavoro nel pagamento dei contributi, essendo loro attribuiti nel caso di omissione contributiva solo il rimedio previsto dall’art. 2116 c.c., e la facoltà di richiedere all’INPS la costituzione della rendita vitalizia, ex art. 13 L. n. 1338 del 1962. ….. omissis ……. Sussisteva quindi il loro difetto di legittimazione processuale, sicché il processo deve concludersi con una decisione in rito in quanto l’azione non poteva essere proposta”. Ineccepibilmente la Suprema Corte ha ritenuto che i lavoratori non possano sostituirsi al datore e pagare i contributi. In caso di omissione contributiva a loro sono attribuiti solo i rimedii di cui agli artt. 2116 c.c. e 13 L. n. 1338/1962. Il riferimento all’art. 2116 c.c. nella sua interezza, senza distinguere tra primo e secondo comma non può essere inteso, come ha fatto Cass. Civ. n. 6722/2021, nel senso che il rimedio di cui all’art. 2116 sia solo quello risarcitorio.
Tale assunto Cass. Civ. n. 3491 del 2014 non lo ha detto né è minimamente possibile trarlo dalla lettura della medesima sentenza.
Ma vi è di più.
Più avanti in un altro passo della motivazione della stessa Cass. Civ. n. 6722 del 2021 che merita di essere riportato si legge: “senza qui entrare nel merito della vexata quaestio dell’ammissibilità di un’azione volta all’accertamento della regolarità della posizione contributiva (invero ammessa da non recente giurisprudenza di questa Corte sul rilievo che tratterebbesi di situazione giuridica che, sebbene normalmente strumentale all’accesso alle prestazioni previdenziali, sarebbe suscettibile di autonoma lesione a prescindere dalla maturazione di un diritto a specifiche prestazioni previdenziali allorché vi sia una pregiudizievole situazione di incertezza in ordine al rapporto assicurativo: così Cass.n.17223 del 2002, 13648 del 2003)”.
L’illogicità dell’impianto motivazionale riferito appare incontrovertibile: il diritto alla giusta posizione contributiva è inesistente per consolidata giurisprudenza, o l’ammissibilità della medesima azione è una vexata quaestio peraltro ammessa da non recente giurisprudenza?
Ma la summa della non condivisibile opzione ermeneutica si raggiunge attraverso la sostanziale sterilizzazione dell’art. 18 dello Statuto.
Secondo gli Ermellini della decisione ora in commento, anche in ipotesi di condanna al pagamento della contribuzione a seguito di reintegra per licenziamento illegittimo, se il datore non adempie a questa sua obbligazione, il lavoratore, pur se la contribuzione non si è ancora prescritta, può soltanto chiedere il risarcimento del danno ex art. 2116, comma 2, c.c. ovvero la costituzione della rendita ai sensi dell’art. 13, L. n. 1338/62.
La conseguenza ineluttabile è che la previsione di condanna al pagamento dei contributi ex art. 18, L. n. 300/70 è una vana disposizione che, di fatto, non può essere eseguita. La legittimazione di tali effetti lascia veramente ammutoliti.
Deve darsi ancora atto che l’inesistenza del diritto alla giusta posizione contributiva è stata da ultimo ancora ribadita da Cass. Civ. Sez. Lav. N. 701 del 9 gennaio 2024.

Conclusioni
Il lavoratore subordinato è titolare del diritto alla giusta posizione contributiva il quale, costituzionalmente fondato nell’art. 38 della Carta Fondamentale, trova origine ed attuazione nell’art. 2116, comma 1, c.c. Il medesimo diritto può essere esercitato nei confronti dell’Ente previdenziale fino a quando la contribuzione non si è prescritta. In questo contesto la tempestività della domanda richiesta deve essere valutata in riferimento al momento della sua presentazione. L’auspicio è che la Suprema Corte riveda i recenti approdi cui recentemente è giunta sull’argomento e venga ripristinata una soluzione che prima non era mai stata messa in discussione.

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.