testo integrale con note e bibliografia

In questa breve esposizione si cercherà di dare conto degli interventi, diretti ed indiretti, che nel periodo dal dopoguerra ad oggi lo Stato ha effettuato per incidere, con atti aventi forza di legge, sul quantum retributivo dei lavoratori subordinati.
Il primo e più ampio intervento diretto si è avuto con l’emanazione della legge 741/1959 (cd legge Vigorelli) mediante la quale si è provveduto alla legificazione dei contratti collettivi ai fini di sostegno economico ai lavoratori, obbligando, in un periodo di grande debolezza sindacale, i datori di lavoro ad applicare i ccnl di settore sottoscritti dai sindacati maggiormente rappresentativi con il meccanismo dei decreti delegati.
La legge fu prorogata per consentire l’estensione del sistema a tutti i settori mediante la legge 1027/1960, la quale, tuttavia, è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale con sentenza 106/1962 con la motivazione che “anche una sola reiterazione della delega toglie alla legge i caratteri della transitorietà e dell’eccezionalità e finisce con il sostituire al sistema costituzionale un altro sistema arbitrariamente costruito dal legislatore e pertanto costituzionalmente illegittimo”.
Di conseguenza furono travolti tutti i contratti recepiti nei decreti delegati emanati in base alla legge 1027/1960.
Il sistema dell’intervento diretto sulle retribuzioni è stato quindi abbandonato ed è stato ripreso in forma diversa solo nel secondo decennio degli anni 2000 con la previsione di un credito di imposta di 80,00 euro mensili in favore dei percettori di reddito di lavoro dipendente di importo non superiore a euro 24.000,00 annui, poi portati a 26.000, (cd Bonus Renzi) introdotto in via sperimentale con il DL 24 aprile 2014 n.66 e poi divenuto definitivo con l’approvazione della legge di bilancio 2015.
Dal 1 luglio 2020 si è passati al trattamento integrativo di 100,00 euro mensili per redditi sino a 28.000,00 euro l’anno (DL 3/2020 cd Cura Italia) ed infine dal 1 gennaio 2024 il trattamento fiscale si è trasformato con la legge di bilancio 2024 in esonero contributivo di sei punti percentuali, se la retribuzione imponibile mensile del lavoratore dipendente non supera i 2.692,00 euro al mese, e di sette punti percentuali, se non supera i 1.923,00 euro al mese.
Da ultimo, con il decreto 1 maggio 2024, è stato introdotto il cd bonus tredicesima da pagarsi a gennaio 2025 per i lavoratori monoreddito con almeno moglie (o marito) e un figlio a carico e un reddito ricompreso fra 8.500 e 28.000 euro annui: l’importo è di euro 100,00 ma non è né un credito fiscale né un’esenzione contributiva, ma un reddito lordo su cui applicare la ritenuta fiscale a tassazione separata del 23%.
La differenza fra questi ed i precedenti interventi del 1959/1960 consiste nel fatto che mentre questi ultimi tendevano ad incrementare il costo del lavoro a carico degli imprenditori, i primi scaricano sulla fiscalità generale e quindi anche sugli stessi lavoratori beneficiati (ricordiamo che per gli incapienti non è mai stato previsto alcun aiuto) gli incrementi di reddito da lavoro dipendente.
Sotto diverso profilo, altra possibilità di incidere sull’inquadramento e quindi sulla corretta retribuzione dei lavoratori è data dalla possibilità concessa agli Ispettori del lavoro di diversamente inquadrare i lavoratori in base alle disposizioni del contratto collettivo a norma dell’art 14 dlgs 124/2004, che prevede la possibilità di intervento “in tutti i casi di irregolarità rilevate in materia di lavoro e legislazione sociale purché tali sanzioni non siano già soggette a sanzioni penali o amministrative”.
Il Consiglio di Stato con la sentenza 2778/2024 ha confermato che il riferimento della norma è alla materia del lavoro in generale, con possibilità, pertanto, di intervento anche per valutare il corretto inquadramento del personale e quindi il loro corretto trattamento economico.
La seconda e più praticata via seguita dal legislatore per intervenire sul quantum della retribuzione dei lavoratori dipendenti è quella indiretta di obbligo per talune categorie di imprese di aderire al trattamento economico (e anche normativo) previsto dai contratti collettivi di categoria.
Tra i casi più conosciuti e di ampia applicazione abbiamo quello previsto in tema di soci lavoratori di cooperative, per i quali l’art 3 c.1 l 142/2001 prevede l’obbligo di corrispondere una retribuzione comunque non inferiore ai minimi previsti dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o categoria affine.
Norma, questa, da integrarsi con quanto previsto dall’art. 7 del dl 248/2007, che per le cooperative che svolgono attività ricomprese nell’ambito di applicazione di più contratti di categoria, impone trattamenti economici non inferiori a quelli dettati dai ccnl stipulati dalle OO.SS. datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale di categoria.
La Cassazione (sent. 4951/2019) ha dato una interpretazione rigorosa della norma stabilendo che “questo è il trattamento minimo ritenuto dal legislatore per soddisfare i requisiti di sufficienza e proporzionalità della retribuzione e non è consentito al datore di lavoro applicare altro ccnl, anche se iscritto alla relativa associazione datoriale, se riferito ad altro settore non sovrapponibile”.
Recentemente, in esito a due gravissimi infortuni sul lavoro a Firenze ed in Emilia Romagna, il legislatore è nuovamente intervenuto introducendo un nuovo comma all’art 29 dlgs 276/2003, il comma 1 bis, che a seguito delle modifiche intervenute in sede di conversione in legge 52/2024 del dl 19/2024, così dispone: “al personale impiegato nell’appalto di opere e servizi e nel subappalto spetta un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello previsto dal ccnl nazionale e territoriale stipulato dalle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, applicato nel settore e per la zona strettamente connessi con l’attività oggetto dell’appalto e del subappalto”
Fra le tante questioni interpretative che questa norma pone vi è quella del rapporto con l’art 3 l. 142/2001, in quanto mentre per i soci lavoratori tale disposizione limita l’obbligo al rispetto dei soli minimi previsti dalla contrattazione collettiva di settore mentre il trattamento normativo potrebbe essere derogato dal regolamento della cooperativa, tale deroga non parrebbe essere ammessa in caso di appalto o subappalto nei quali casi la normativa speciale dovrebbe prevalere su quella generale e consentirebbe alla cooperativa di applicare due diversi regimi normativi contrattuali: quello del CCNL di settore ai lavoratori addetti a lavorazioni in appalto o subappalto, quello del regolamento per gli altri.
Vedremo come sul punto si orienterà la giurisprudenza.

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