testo integrale con note e bibliografia
1. A distanza di 58 anni dal primo intervento legislativo in materia di tutela per licenziamenti ingiustificati (L. 15.7.1966 n. 604) il quadro normativo italiano si presenta estremamente frastagliato , potendosi individuare in relazione alla natura dei licenziamenti e dei vizi e delle relative conseguenze quantomeno quindici tipologie differenziate: la residua area di recesso ad nutum ex art. 2118
c.c., le quattro discipline di cui all’art. 18 L. 20.5.1970 n. 300, la disciplina dei licenziamenti per le piccole imprese per i rapporti precedenti al 7.3.2015, quella dei licenziamenti collettivi per gli stessi rapporti, le quattro discipline di cui agli art. 2, 3 e 4 D. Lgs. 4.3.2015 n. 23, le due discipline per le piccole imprese per i rapporti costituiti dal 7.3.2015, quella dei licenziamenti collettivi per gli stessi rapporti, quella particolare per i dirigenti di azienda.
In particolare sussiste allo stato una duplicazione sistemica fra la normativa applicabile ai rapporti costituiti prima del 7.3.2015, considerabile (salvo ogni futuro evento, anche eventualmente derivante dal referendum proposto dalla CGIL) ad esaurimento, e quella, di progressiva rilevanza quantitativa, applicabile ai rapporti costituiti dal 7.3.2015.
Tale più recente disciplina non è peraltro ascrivibile ad una particolare scelta di valori, ma ad una sostanziale velleità, se non vanità, normativa che ha portato fra il 2014 e il 2015, con la Legge delega 10.12.2014 n. 183 e con il D. Lgs. 4.3.2015 n. 23, ad introdurre un nuovo corpus normativo dopo la rilevante modifica introdotta appena tre anni prima con la L. 28.6.2012 n. 92.
La caducità dell’intervento del 2014-2015 è dimostrata sia dalla modifica, in senso diverso e cioè di accrescimento dello spessore quantitativo della tutela indennitaria (da 4-24 a 6-36 mensilità di indennità), introdotta dall'art. 3, comma 1, del D.L. 12.7.2018 n. 87, conv. in L. 9.8.2018 n. 98, sia dagli interventi della Corte Costituzionale che dal 2018 (con la sent. 8.11.2018 n. 194) al 2024 (con le sent. 16.7.2024 n. 128 e 129) hanno trasformato alla radice la disciplina del D. Lgs. 4.3.2015 n. 23.
2. Poiché peraltro restano fra i due sistemi notevoli differenze, può essere opportuno richiamarle nella loro essenzialità.
a) Per i licenziamenti per ragioni soggettive (giusta causa o giustificato motivo soggettivo) l’intervento della Corte Costituzionale di cui alla sentenza 16.7.2024 n. 129 ha attenuato la differenza fra i due regimi, discendendone la tutela reintegratoria sia quando il fatto contestato non sussiste, sia quando è prevista per esso dalla fonte collettiva solo una sanzione disciplinare conservativa.
Rimane però una significativa differenza per quanto concerne gli illeciti contrattuali sussumibili in una norma contrattuale collettiva che preveda l’applicazione di una sanzione conservativa, ma espressa attraverso clausole generali o elastiche:
a) nel regime dell’art. 18 si perviene in tali casi, secondo l’orientamento espresso dalla innovativa sentenza di Cass. 11.4.2022 n. 11665, ad una tutela reintegratoria ;
b) per i rapporti costituiti dal 7.3.2015 la sentenza della Corte Costituzionale n. 129/2024 ha limitato la tutela reintegratoria alle “particolari ipotesi di regolamentazione pattizia alla stregua delle quali specifiche e nominate inadempienze del lavoratore sono passibili solo di sanzioni conservative”, dovendosi applicare negli altri casi, e cioè in quelli di clausole generali o elastiche, la tutela indennitaria.
In ordine a questa sussiste però una rilevante differenza quantitativa, poiché, a fronte dell’escursione fra 12 e 24 mensilità prevista dall’art. 18, 5° comma, L. 20.5.1970 n. 300, il testo attuale dell’art. 3, comma 1, D. Lgs. 4.3.2015 n. 23 prevede un’escursione più ampia, in quanto più limitata nel minimo a 6 mensilità ma più ampia nel massimo che può arrivare a 36 mensilità.
Per cui su questo piano la disciplina del D. Lgs. n. 23/2015 è più favorevole ai prestatori di lavoro, in quanto dotata di efficacia dissuasiva maggiore nei confronti dei datori di lavoro.
b) Ancora sul piano testuale il D. Lgs. 23/2015 contiene una norma specifica di maggiore favore per i lavoratori quale quella dell’art. 1, comma 4, che sancisce la nullità del recesso anche ove sia accertato “il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi della L. 12.3.1999 n. 68”.
Vero è che la giurisprudenza della Suprema Corte è pervenuta con la sentenza 22.5.2024 n. 14307 a ritenere l’applicabilità dei commi 1 e 2 dell’art. 18 in ogni caso di licenziamento di lavoratore disabile effettuato senza ricerca di “accomodamenti ragionevoli” e quindi in violazione degli obblighi posti per rimuovere gli ostacoli che gli impediscono di lavorare in condizioni di parità con gli altri lavoratori, con conseguente limitazione a casi marginali dell’art. 18, comma 7; ma ciò non toglie che la norma dell’art. 1, comma 4, D. Lgs. 4.3.2015 n. 23 abbia una sua oggettiva e univoca valenza testuale, tanto da essere stata assunta quale elemento per l’interpretazione della normativa pregressa dell’art. 18 in un quadro di omogeneizzazione delle discipline.
c) Il D. Lgs. n. 23/2015 contiene anche un’altra norma di maggiore favore per i dipendenti, poiché, mentre per i rapporti costituiti prima del 7.3.2015 può ritenersi che resti in vigore l’art. 4, comma 2, L. 11.5.1990 n. 108 che escludeva l’applicazione dell’art. 18 L. 300/1970 “nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto”, l’art. 9, comma 2, D. Lgs. 23/2015 assicura esplicitamente l’applicazione dell’intero Decreto, e quindi della tutela reintegratoria di cui all’art. 3, comma 2, anche a tali datori di lavoro.
d) Quanto ai licenziamenti per ragioni oggettive l’importante sentenza della Corte Costituzionale 16.7.2024 n. 128 ha rimosso il più macroscopico fattore di differenziazione, stabilendo, all’unisono con la sent. 1.4.2021 n. 59, l’applicazione della tutela reintegratoria anche nel caso di accertata insussistenza della ragione oggettiva esposta nell’atto scritto di licenziamento dal datore di lavoro.
Per cui su questo primo piano le linee dei due regimi sono parificate, anche se resta la questione, comune ad essi, se il lavoratore possa richiedere, in luogo della tutela reintegratoria, quella indennitaria (estendentesi ex art. 3, comma 1, D. Lgs. 23/2015 fino a 36 mensilità), questione da risolvere in senso affermativo in analogia alla facoltà di scelta per l’indennità sostitutiva della reintegrazione e per il favor per soluzioni (ove vi sia il consenso del lavoratore) di definitiva separazione delle due sfere.
L’allineamento dei due regimi è però, anche dopo la sentenza n. 128/2024, solo parziale, e in qualche misura anche molto limitato, poiché proprio tale sentenza ha limitato la dichiarazione di illegittimità dell’art. 3, comma 2, D. Lgs. 23/2015 alle ipotesi “in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore”.
Continua quindi ad applicarsi la tutela indennitaria, sia quando il lavoratore può dedurre che era possibile una sua ricollocazione in azienda in altro posto disponibile e da lui, per la sua professionalità o attitudine, ricopribile, sia, ed è l’effetto connesso e più importante, in caso di violazione dei criteri di scelta.
e) Tale differenza, discendente dalla sent. n. 128/2024, si collega al più importante aspetto di disparità fra i due regimi, che è quello relativo ai licenziamenti collettivi e specificamente alla violazione dei criteri di scelta, per il quale, mentre l’art. 5 L. 23.7.1991 n. 223 assicura ai lavoratori assunti prima del 7.3.2015 la tutela reintegratoria, l’art. 10 D. Lgs. 23/2015 accorda solo la tutela indennitaria di cui all’art. 3, comma 1.
E il fatto che la Corte Costituzionale abbia “salvato” con la sentenza 22.1.2024 n. 7 tale art. 10 esclude, a breve, l’eventualità di nuovi interventi della Corte sullo stesso tema.
f) Ne esce un quadro articolato, in quanto, se pur in linea genericamente complessiva, la disciplina dell’art. 18 L. 300/1970 e dell’art. 5 L. 223/1991 può considerarsi migliore di quella successiva, non mancano nel testo attuale del D. Lgs. 23/2015 spunti interessanti e intrinsecamente più favorevoli ai prestatori di lavoro.
Spetterebbe a un legislatore provvisto di un rilevante impegno valoriale razionalizzare e ricomporre ad unità il quadro normativo, superando la duplicazione attualmente esistente, ma riprendendo del D. Lgs. 23/215 gli aspetti più favorevoli per i lavoratori sopra specificamente evidenziati.
3. Mentre in linea generale si prospetta una ipotetica ricomposizione (o, con l’abrogazione in via referendaria, dell’intero D. Lgs. 23/2015, il ripristino per tutti dell’art. 18 L. 20.5.1970 n. 300 e dell’art. 5 L. 23.7.1991 n. 223), una questione urgente e ormai matura si determina per i licenziamenti intimati da datori di lavoro occupanti (ex art. 18, comma 8, L. 300/1970, richiamato anche dall’art. 9 D. Lgs. 23/2015) non più di 15 dipendenti o non più di 5, se trattasi di imprese agricole .
La questione è esplosa, dopo un cinquantennale ritardo, con la sentenza della Corte Costituzionale 22.7.2022 n. 183 , con la quale, superando la vieta e tralaticia impostazione di cui alle sent. 81/1969, 55/1974, 152/1975, 189/1975, 2/1986 , si è riconosciuto che “Un rimedio adeguato, che assicuri un serio ristoro del pregiudizio arrecato dal licenziamento illegittimo e dissuada il datore di lavoro dal reiterare l’illecito, si impone in forza della «speciale tutela riconosciuta al lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, in quanto fondamento dell’ordinamento repubblicano (art. 1 Cost.)» (sentenza n. 125 del 2022, punto 6 del Considerato in diritto)” e che “Tali esigenze di effettività e di adeguatezza della tutela si impongono anche per i licenziamenti intimati da datori di lavoro di più piccole dimensioni (di cui ai citati commi ottavo e nono dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori)”.
Come è noto, la Corte non è intervenuta direttamente per la pluralità di rimedi applicabili e per lasciare spazio al potere legislativo di adottare una soluzione idonea in grado di soddisfare le suindicate esigenze.
La sentenza si è però conclusa con un monito inequivoco, e cioè con quello con cui, usando un’espressione tipica di queste situazioni, ha chiarito di non poter conclusivamente “esimersi dal segnalare che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà qui descritte (sentenza n. 180 del 2022, punto 7 del Considerato in diritto)” (v. per una formulazione analoga, oltre alla sent. n. 180/2022, le sent. n. 22/2022, 32/2021 e 279/2013).
Poiché a distanza di oltre due anni non solo si è protratta l’inerzia legislativa, ma non è emersa, né dal Governo né dalle forze politiche, alcuna volontà al riguardo (a parte il sostegno dato dalle forze di opposizione alla richiesta di referendum della CGIL), è obbligata la valutazione per cui sono maturi i tempi perché la Corte provveda direttamente con un risolutivo intervento.
4. Proprio perché di questo si tratta, può essere opportuno prospettare le linee di tale intervento.
a) Nonostante i limiti di un criterio distintivo basato sul mero numero dei dipendenti (da intendere complessivamente, e non relativamente alle singole unità produttive), è indubbio che si tratta del criterio più semplice e più aderente all’attuale (e invero consolidato) quadro normativo.
Debbono quindi considerarsi brillanti, ma prive di attendibilità, le proposte basate su altri criteri (fatturato, margine operativo lordo, dati patrimoniali ed economici risultanti da eventuale bilancio …), in quanto segnerebbero un distacco dal dato normativo tale da rendere veramente creativo e paralegislativo un intervento della Corte in tal senso.
b) Analogamente non può trarsi spunto da una sentenza che riguarderebbe solo le piccole aziende per un intervento di larga portata che investa anche i datori di lavoro sopra le soglie numeriche occupazionali di cui all’art. 18, comma 8.
Se in linea generale le misure indennitarie sono, nel sistema dell’art. 18, di 12-24 mensilità per i vizi sostanziali e di 6-12 mensilità per quelli formali e, nel sistema del D. Lgs. 23/2015, rispettivamente di 6-36 e 2-12, e ferma l’esigenza di un onere minore per le piccole aziende, non può pensare di rimettersi in discussione i termini, e in particolare i minimi, previsti per le imprese maggiori.
La via è allora aperta per l’intervento più semplice, più lineare, più aderente al quadro normativo e più consono con le funzioni della giustizia costituzionale, che è quello di espungere dall’ordinamento il limite attuale massimo e cioè quello per cui “l’ammontare delle indennità e dell'importo previsti dall'articolo 3, comma 1, dall'articolo 4, comma 1 e dall'articolo 6, comma 1” “non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”.
Quello che rende l’attuale testo normativo di per sé intrinsecamente inidoneo ad assicurare sia la funzione dissuasiva, sia quella risarcitoria-riparatoria, sia quella sanzionatoria, è infatti proprio il tetto delle sei mensilità, che spinge in taluni casi il datore di lavoro addirittura ad ironizzare sulla sua esiguità e marginalità.
Una volta rimosso (o, meglio, sfondato) tale tetto ed esteso l’ammontare dell’indennità risarcitoria per ingiustificatezza sostanziale del licenziamento fino (almeno nel limite massimo) a 18 mensilità, la normativa di legge assolverebbe alla triplice funzione dissuasiva, reintegratoria e sanzionatoria.
Né può ritenersi che un intervento di questo tipo risulterebbe troppo o ingiustificatamente gravoso.
Poiché la sentenza base della Corte Costituzionale n. 194/2018 ha comunque ribadito che criterio primario per la determinazione dell’indennità risarcitoria resta quello dell’aggancio all’anzianità di servizio, la misura massima, e cioè quella di 18 mensilità, sarebbe tendenzialmente applicabile (salvo che il licenziamento non presenti specifici elementi di particolare gravità) solo per i lavoratori con anzianità di servizio superiore a 18 anni, per i quali il licenziamento verrebbe ad avere effetti di maggiore penalizzazione.
In sostanza, si tratterebbe, pur in modo atecnico, di una indennità di fine rapporto raddoppiata, e quindi giustificata proprio dalla lunga durata del servizio lavorativo svolto.
Il prospettato intervento soddisferebbe anche i condizionamenti indicati nei paragrafi 6 e 6.1 della sentenza 183/2022.
Si tratterebbe infatti di un intervento correttivo collocabile “entro un parametro definito, segnato da grandezze già presenti nel sistema normativo e da punti di riferimento univoci”, quali costituiti dai criteri indennitari già fissati per le imprese maggiori e dal criterio del dimezzamento di tutela per i lavoratori delle piccole imprese, già presente nel sistema normativo ai sensi dell’art. 9 D. Lgs. 23/2015, ma anche ai sensi della modifica dell’art. 8 L. 604/1966, introdotta con L. 108/1990.
La soluzione prospettata avrebbe anche il vantaggio di poter “circoscrivere il carattere manipolativo dell’intervento auspicato”, escludendo anche su tale piano una delle preoccupazioni espresse nella sent. 183/2022 (v. paragrafo 6.1).
La previsione di un limite massimo di 18 mensilità consentirebbe di superare anche quella residua differenziazione derivante dal fatto che, mentre l’art. 8 L. n. 604/1966 consente, per i lavoratori dipendenti da datori di lavoro occupanti non più di 15 dipendenti nella singola unità produttiva, ma non più di 60 dipendenti in totale, una maggiorazione dell’indennità fino a 10 mensilità per i prestatori di lavoro con anzianità superiore a dieci anni e fino a 14 mensilità per i prestatori di lavoro con anzianità superiore a venti anni, il D. Lgs. 23/2015 non ha avuto cura di richiamare tale previsione .
Peraltro la giurisprudenza ha limitato l’incidenza preclusiva del riferimento all’unità produttiva considerando tale solo quella che si caratterizzi, a prescindere dalla relativa ubicazione, per sostanziali condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica ed amministrativa, così che in essa si esaurisca il ciclo relativo ad una frazione o ad un momento essenziale dell’attività produttiva aziendale (v. le sent. di Cassazione 19614/2011, 12349/2003, 12121/2022 e 9881/2011 )
5. Ovviamente quanto sopra dovrebbe valere anche per l’art. 8 L. 15.7.1966 n. 604, i cui termini attuali da 2,5 a 6 mensilità diventerebbero 6-12 per le violazioni sostanziali e 3-6 per quelle formali.
Ma per quanto riguarda l’art. 8 L. n. 604/1966 vi è un’altra osservazione da fare, e cioè che la logica del dimezzamento (ora presente nell’art. 9 D. Lgs. 23/2015) era già alla base del testo attuale dell’art. 8, quale introdotto dall’art. 2, comma 3, L. 11.5.1990 n. 108.
Il testo originario dell’art. 8 della L. 15.7.1966 n. 604 stabiliva infatti, in un’epoca e in un quadro normativo in cui non era prevista la reintegrazione, che il datore di lavoro era tenuto, ove entrambe le parti non fossero d’accordo per una riassunzione, “a risarcire il danno versando una indennità da un minimo di cinque ad un massimo di dodici mensilità”.
La L. 108/1990 fu quindi già espressione della logica del dimezzamento, in quanto, nel momento in cui per la prima volta si introdusse anche per i licenziamenti nelle piccole imprese una tutela, la si fissò in una misura semplicemente pari alla metà di quella originaria precedente.
6. A fronte dell’indicazione semplice, ma lineare, suindicata sono state formulate da più Autori proposte alternative e ulteriori, che vanno distintamente esaminate.
a) La prima proposta è quella di riprendere la suggestione effettivamente presente nella sentenza n. 183/2022 volta a superare, come criterio di applicazione, l’esclusivo riferimento al numero dei dipendenti occupati e di tenere conto di altri criteri (quali, ad es., fatturato, margine operativo lordo, dati patrimoniali ed economici risultanti da eventuale bilancio…), che possano meglio identificare la potenzialità economica e quindi la rilevanza del datore di lavoro .
Il suggerimento è interessante, ma si scontra sia con la difficoltà di individuare un criterio univoco e utilizzabile in ogni caso, sia, per quanto riguarda la Corte Costituzionale, con il carattere oggettivamente creativo di un tale intervento che eccederebbe le funzioni proprie di un organo non avente di per sé potere legislativo.
Deve quindi escludersi che l’idea possa avere effettiva attuazione in sede di giudizio di legittimità costituzionale.
b) Sotto altro profilo, si è proposto di considerare nel numero dei dipendenti anche i titolari di rapporti di collaborazione continuativa e coordinata ex art. 409 n. c.p.c. .
Ma si tratterebbe anche in questo caso di intervento creativo che si allontanerebbe dal criterio base previsto anche da altre norme dell’ordinamento, ad es. in tema di assunzioni obbligatorie di disabili (v. art. 3 L. 12.3.1999 n. 68), basato sul numero dei dipendenti.
D’altra parte, ai “rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente” anche quando “le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”, già si applica, ex art. 2, 1° comma, D. Lgs. 15.6.2015 n. 81, escluse le eccezioni previste dal 2° comma, la disciplina del rapporto di lavoro subordinato, per cui tali soggetti saranno direttamente computabili nel numero dei lavoratori dipendenti.
c) Analogamente potranno essere considerati congiuntamente i dipendenti di più datori di lavoro, ove si tratti di imprese collegate nei casi in cui sia rinvenibile un soggetto unificante che coordini la loro attività alle condizioni e nei limiti tipizzati dalla giurisprudenza.
d) Particolare interesse merita l’indicazione volta a considerare fra i dipendenti anche i lavoratori somministrati , in quanto in questo caso, come in quella ipotizzabile dei lavoratori distaccati, si tratta di soggetti che svolgono una prestazione lavorativa subordinata e la cui presenza in azienda è espressione della rilevanza economica del datore di lavoro.
Ma di nuovo si tratterebbe di un intervento creativo, con il quale si supererebbe il dato formale, rilevante per l’ordinamento, dell’imputazione della titolarità del rapporto di lavoro ad un altro soggetto.
È quindi una riforma che può intervenire per via legislativa, ma non per intervento della Corte Costituzionale.
e) Sotto altro piano, in luogo del dimezzamento delle indennità risarcitorie previste per le imprese maggiori si è proposto di recuperare il limite massimo di 14 mensilità, previsto dall’art. 2, 3° comma, L. 11.5.1990 n. 108 in sede di riscrittura dell’art. 8 L. 15.7.1996 n. 604 per l’ipotesi residuale di lavoratori dipendenti da datori di lavoro con più di 15 dipendenti e non più di 60, ma addetti a unità produttive con non più di 15 dipendenti e con anzianità superiore ai venti anni .
Ma anche questa non può essere considerata una soluzione percorribile, sia per la residualità (e la scarsa applicazione) della norma di riferimento, sia perché incrinerebbe il criterio del dimezzamento che invece ha una sua solida base normativa.
f) Di maggiore rilevanza è la questione relativa alle misure indennitarie minime previste dall’attuale quadro normativo e da quello che potrebbe risultare dall’applicazione del mero criterio del dimezzamento.
Si è osservato in particolare che sia l’attuale misura indennitaria minima di 6 mensilità prevista dall’art. 3, 1° comma, D. Lgs. 4.3.2015 n. 23, sia quella di 3 mensilità che risulterebbe dal dimezzamento per le piccole imprese, sia quella minima per i vizi formali e procedurali (rispettivamente di 2 e 1 mensilità), sarebbero inidonee a svolgere la funzione risarcitoria e sanzionatoria e tanto più quella dissuasiva .
Il rilievo è di per sé condivisibile, ma fa riferimento a un quadro più generale da cui si ritiene che non possa prescindere neppure la Corte Costituzionale.
In realtà, il giudice di merito non è obbligato in alcun caso ad applicare i limiti minimi e può direttamente basare il suo esito decisionale nello spazio di legge (6-36 mensilità, e con dimezzamento 3-18 mensilità) tenendo conto dell’insufficienza del minimo ad assolvere la funzione di un “congruo ristoro”, quale prevista anche dall’art. 24 della Carta sociale europea, adottata a Torino il 18.10.1961 e riveduta, con annesso, a Strasburgo il 3.5.1996, ratificata dall’Italia con L. 9.2.1999 n. 30.
D’altra parte, un intervento sui minimi avrebbe di nuovo una natura creativa, anche perché la soluzione più verosimile, e cioè quella di prevedere anche per i datori di lavoro minori, i limiti minimi previsti per quelli maggiori, comporterebbe un’alterazione rispetto all’esigenza riconosciuta anche dalla sentenza n. 183/2022 di mantenere un regime differenziato.
Sembra quindi di dovere ribadire che la soluzione più lineare resta quella più semplice, e cioè di dichiarare l’illegittimità costituzionale del limite massimo di 6 mensilità, rimettendo ogni ulteriore intervento al potere legislativo .
Tutto quanto sopra non appare rilevantemente inciso dall’esito delle vicende del referendum promosso dalla CGIL per l’abrogazione dell’intero D. Lgs. 4.3.2015 n. 23: ove venisse ammesso e ove, svolgendosi, risultasse valido ed avesse esito positivo, tutte le osservazioni svolte avrebbero valore per dichiarare l’illegittimità costituzionale (che comunque dovrebbe essere dichiarata) dell’art. 8 L. 15.7.1966 n. 604 nella parte in cui prevede “un’indennità di importo compreso fra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità”, invece che “un’indennità di importo dimezzato rispetto a quelli previsti dall’art. 18, commi 5 e 6, L. 20.5.1970 n. 300”.
Peraltro va rilevato che anche il referendum lascerebbe inalterata nella struttura dell’art. 8 L. 15.7.1966 n. 604 la previsione del minimo, poiché il testo della norma, ove il quesito abrogativo referendario venisse approvato, sarebbe nel senso che il datore di lavoro dovrebbe risarcire il danno versando “un’indennità di importo minimo di 2,5 mensilità”, per cui, pur divenendo indeterminato il massimo, resterebbe la conferma della possibilità di un indennizzo minimo di 2,5 mensilità.
7. Quanto infine al valore complessivo e anche storico di un intervento del genere, se si considera che fra il 1966 e il 1970 i lavoratori dipendenti da imprese occupanti fino a 35 dipendenti non usufruivano di alcuna tutela, che parimenti non ne usufruivano i lavoratori dipendenti da datori di lavoro occupanti, in linea generale, fino a 15 dipendenti sino al 1990 e che da allora la soglia massima è stata quella di 6 mensilità, l’elevazione del limite massimo a 18 mensilità per i vizi sostanziali (o a 12 per i rapporti di lavoro costituiti prima del 7.3.2015) segnerebbe un indiscutibile incremento di tutela.
Si ristabilirebbe così quella proporzione con le misure di indennizzo per i lavoratori delle aziende più grandi che dal 2012 e in particolare dal 2018 è venuta meno (attualmente con le abnormi proporzioni di un quarto e di un sesto) e quantomeno verrebbe meno l’ironia con cui alcuni datori di lavoro si approcciano alla questione del licenziamento nelle piccole aziende, potendo avere la prospettiva di un’indennità risarcitoria di 18 mensilità, da maggiorare in caso di licenziamento per giusta causa con l’indennità di preavviso, una valenza più efficacemente dissuasiva.