testo integrale con note e bibliografia

1. Sono molteplici i profili di criticità del sistema sanzionatorio e di tutela dei licenziamenti illegittimi oggetto di recente dell’intervento penetrante della Consulta, in termini del tutto inediti tanto per l’elevato numero in sé delle pronunzie susseguitesi in rapida successione , quanto comunque per le modificazioni anche sostanziali del dettato legislativo indotte in forza della statuita incostituzionalità di sue disposizioni, anche con la riscrittura di fatto di alcune di queste da parte della medesima Consulta.
Al di là delle opinioni divergenti che inevitabilmente si registrano in merito alla generale rimodulazione al ribasso delle sanzioni e delle tutele in tema di licenziamenti indotta dalla legge n. 92/2012 (spec.: art. 1, comma 42) e dal d.lgs. n. 23/2015, è largamente diffusa, come noto, una valutazione di “inadeguatezza” per più versi del vigente regime rimediale in materia di licenziamenti.
Risulta, infatti, un’oltremodo frammentata disarticolazione di tipologia ed entità delle sanzioni e dei relativi standard di protezione, sulla base di parametri e criteri di selezione in parte opinabili e di incerta e comunque problematica interpretazione pure a causa di una formulazione del testo legislativo a volte oscura o comunque poco appropriata.
Si ha anzitutto una differenziazione delle sanzioni alla luce dei diversi vizi inficianti la legittimità del recesso datoriale, sia di natura “sostanziale” (spec., nel caso di illiceità, discriminatorietà, nullità del licenziamento, oppure anche di sua motivazione infondata o comunque inadeguata), sia di ordine “formale” o “procedurale”. Fattore ulteriore di diversificazione dei moduli sanzionatori è dato, al contempo, da determinate caratteristiche ed elementi inerenti alle parti del rapporto di lavoro: quali, dal lato del datore di lavoro, il numero dei dipendenti e la loro dislocazione nelle diverse unità produttive, come anche la sua stessa natura (spec., l’essere o meno un imprenditore o anche un imprenditore agricolo, oppure una cd. organizzazione di tendenza) e, invece, dal lato del lavoratore, la pensionabilità o l’inquadramento quale dirigente. A ciò si aggiunge la netta linea di discrimine tracciata, in base alla data di assunzione, in virtù dell’assoggettamento dei lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 alle cd. “tutele crescenti”, introdotte dal d.lgs n. 23/2015 quale regime sanzionatorio alternativo rispetto all’art. 18, legge n. 300/1970 (riformulato ex legge n. 92/2012) e alla stessa legge n. 604/1966. Mentre, inoltre, in relazione al licenziamento lato sensu economico, la ricorrenza di un cd. licenziamento collettivo, ex artt. 4, 5 e 24, legge n. 223/1991, è posta quale ancora ulteriore elemento di differenziazione dei moduli sanzionatori rispetto al licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo (peraltro in corrispondenza al differente regime cui è riportato in sé il recesso datoriale sempre nel caso di licenziamento collettivo rispetto al licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo).
E’ innegabile che a rilevare siano, in tal senso, differenziazioni di trattamento e regimi sanzionatori e di tutela per più versi difficilmente giustificabili e comunque di opinabile razionalità, giacché non proporzionati né alla gravità dei vizi inficianti i licenziamenti, né ai comportamenti e alle condizioni delle parti del rapporto di lavoro, né al danno o disagio del lavoratore per il suo illegittimo licenziamento e neppure alla funzione deterrente cui deve in ogni caso assolvere la sanzione di un recesso datoriale illegittimo. Senza contare le difficoltà che comunque si pongono sul piano applicativo anche a fronte delle incertezze che si è rimarcato emergere in ordine all’interpretazione del dettato legislativo.
Sono proprio simili carenze del sistema rimediale in tema di licenziamenti ad aprire il campo al recente intervento reiterato di censura e in ogni caso di sua correzione da parte della Corte costituzionale.
Ma resta da stabilire fino a che punto possa addivenirsi ad un più soddisfacente riassetto delle tutele in materia di licenziamento mediante un tale intervento della Consulta e, comunque, quale sia in generale il ruolo che la medesima Consulta è chiamata ad assolvere in proposito.

2. Mentre da più parti e, anzi, dalla stessa Consulta è auspicato un intervento di riordino generale del sistema rimediale dei licenziamenti illegittimi da parte del legislatore , in alcune occasioni è in realtà la medesima Consulta che tende a provvedere direttamente al riguardo: difatti non limitandosi a sancire l’incostituzionalità delle disposizioni di legge non in linea con i dettami costituzionali, ma inducendo essa stessa la riformulazione delle norme censurate in termini “altri” rispetto a quanto già stabilito dal legislatore, così di fatto sostituendosi a questo nell’esplicazione della funzione legislativa.
Così già nel caso del primo intervento in materia della Corte costituzionale con la pronunzia n. 194/2018, che ha infatti importato la ridefinizione dell’indennità ex comma 1, art. 3, d.lgs. n. 23/2015 in forma completamente diversa rispetto a quanto previsto dal legislatore del Jobs Act e, in specie, l’abolizione del meccanismo della predeterminazione automatica della suddetta indennità sulla scorta dell’unico criterio di due mensilità di retribuzione per ogni anno di anzianità che costituiva la base portante dell’impianto delle cd. “tutele crescenti” alla luce delle prescrizioni della legge delega (cfr. art. 1, comma 7, lettera c, legge n. 183/2014). Con la determinazione dell’indennità ex comma 1, art. 3 che, invero, al dichiarato fine di una “personalizzazione del danno subito dal lavoratore” nell’ambito del range tra sei e trentasei mensilità di retribuzione, Corte cost. n. 194/2018 ha rimesso invece alla discrezionalità del giudice, oltre che in base all’anzianità di servizio, sulla scorta degli altri criteri del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica e del comportamento e condizioni delle parti che la Consulta assume desumere dalla “evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti” (cfr. art. 8, legge n. 604/1966 e art. 18, comma 5, legge n. 300/1970 “nuova formula”).
Un’analoga riscrittura delle previsioni del legislatore del Jobs Act la si è poi avuta anche in virtù della sentenza Corte cost. n. 150/2020, che ha censurato l’originario meccanismo di predeterminazione automatica dell’indennità di licenziamento pure in relazione ai vizi formali del recesso datoriale, ex art. 4, d.lgs. n. 23/2015 (id est: secondo il parametro di una mensilità di retribuzione per ogni anno di anzianità di servizio), riportandone anche in proposito la determinazione alla discrezionalità del giudice. E tanto perché, come affermato sempre da Corte cost. n. 150/2020, anche richiamando la precedente sua pronunzia n. 194/2018, “un illecito deve dar luogo ad un risarcimento ‘adeguato e personalizzato’, ancorché forfettizzato”.
Altra modifica sostanziale delle disposizioni del legislatore del Jobs Act si è avuta in forza della stabilita applicazione della tutela reintegratoria “debole” nel caso di “insussistenza del fatto materiale” allegato quale giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Ciò, in particolare, da parte di Corte cost. n. 128/2024, che ha infatti dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 2, art. 3, d.lgs. n. 23/2015 nella parte in cui non prevedeva la tutela reintegratoria “debole” con riguardo a tale ipotesi, al contempo così inducendo la riformulazione del testo originario della norma nel senso dell’estensione di detta tutela reintegratoria “debole” appunto al caso di insussistenza del fatto materiale addotto quale giustificato motivo oggettivo, in ribaltamento anche in proposito di quelle che erano state le previsioni del legislatore del Jobs Act in conformità alle prescrizioni della legge delega in materia (art. 1, comma 7, lettera c, legge n. 183/2014 cit.). E tanto, peraltro, pure con la singolarità dell’esclusione a tal fine del caso della violazione del cd. dovere di repechage (così espressamente, infatti, Corte cost. n. 128/2024) e, quindi, diversamente da quanto reputato dalla medesima Consulta e anche dalla giurisprudenza di legittimità per la violazione dello stesso cd. dovere di repechage in riferimento all’art. 18, comma 7, legge n. 300/1970 per i lavoratori rientranti nell’ambito di applicazione di tale disposizione statutaria giacché assunti prima del 7 marzo 2015 .
Si tratta di aspetti senz’altro cruciali del sistema rimediale dei licenziamenti illegittimi, di fatto ridisciplinati dalla Consulta in termini completamente diversi rispetto a quanto previsto dal legislatore e così sostituendosi ad esso nell’esplicazione della funzione legislativa.
Ma tanto in contraddizione palese con quanto affermato costantemente dalla stessa Consulta riguardo la competenza del medesimo legislatore in ordine alla disciplina dei licenziamenti.

3. Che la regolamentazione della materia dei licenziamenti sia prerogativa riservata alla discrezionalità del legislatore è infatti principio guida del nostro ordinamento ribadito in via reiterata dalla Corte costituzionale, rilevando -già con la sua pronunzia n. 194 del 1970 e, di recente, tra le altre, anche con la stessa sentenza n. 194/2018- che, in base ai principi espressi dall’art. 4 Cost., s’imponga “l'esigenza di un contenimento della libertà del recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro, e quindi dell'ampliamento della tutela del lavoratore, quanto alla conservazione del posto di lavoro”, ma che la “attuazione di questi principi resta tuttavia affidata alla discrezionalità del legislatore ordinario, quanto alla scelta dei tempi e dei modi, in rapporto ovviamente alla situazione economica generale” .
Anche perché, precisa sempre la Consulta, i licenziamenti sono materia in relazione alla quale appunto “non può non esercitarsi la discrezionalità del legislatore”, senza che tuttavia “il bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost. … imponga un determinato regime di tutela” , e con esso legislatore che, pertanto, nei soli limiti del principio di ragionevolezza, “ben può, nell'esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario” .
Onde una discrezionalità molto ampia del legislatore, al quale la Consulta riconosce essere in tal senso rimessa, in relazione alle diverse ipotesi di illegittimità del licenziamento, la determinazione sia della tipologia in sé delle tutele (e quindi la previsione di una tutela reintegratoria, oppure solo risarcitoria o comunque indennitaria), sia del loro “quantum”, nonché dunque la “entità” e, di conseguenza, la gradazione delle medesime tutele in relazione alla fattispecie concreta, così come, più in generale, la stessa determinazione del bene e/o interesse concretamente tutelato e, quindi, il danno o pregiudizio risarcibile o comunque ristorabile a fronte di un licenziamento illegittimo.
Tanto più al cospetto della risaputa “non costituzionalizzazione” di un diritto alla reintegrazione nel caso di licenziamento illegittimo, anch’essa affermata costantemente dalla Consulta, rimarcando il non rilevare della tutela reintegratoria quale “unico possibile paradigma attuativo” dei valori nell’ipotesi da preservarsi e con la precisazione che, in “bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost. … il legislatore ben può, nell'esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del 2011), purché un tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza ... (e) purché sia garantita l'adeguatezza del risarcimento” che, “ancorché non necessariamente riparatorio dell'intero pregiudizio subito dal danneggiato, deve essere necessariamente equilibrato ... tale da realizzare un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto”, essendo in ogni caso da “garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto ... all'interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell'impresa” .
Ove, cioè, fermo il risaputo tendenziale prevalere ai sensi del diritto civile di tecniche di tutela di natura “reale”, “ripristinatoria” ed anche di “coercizione indiretta” che valgano a poter far conseguire il bene giuridico illegittimamente pregiudicato, è riconosciuta dalla Consulta la legittimazione del legislatore a poter optare, invece, anche per moduli di tutela di natura “risarcitoria” oppure solo “indennitaria”, nemmeno necessariamente in misura equivalente al danno determinato dal licenziamento illegittimo, nonché al di là del fatto che, nella specie si è già detto essere in realtà sempre il legislatore che è chiamato a stabilire quale sia bene tutelato e, dunque, il danno o pregiudizio da risarcire e/o da ristorare a fronte di un licenziamento illegittimo. Il tutto sulla base di una valutazione di sintesi dei valori del lavoro e dell’impresa, nonché degli interessi contrapposti in genere rilevanti in tema di licenziamenti e, quindi, in forza delle precise scelte anche politiche cui sempre il legislatore è legittimato a dar corso in relazione agli obiettivi economici e sociali perseguiti.
Il tutto in termini indubbiamente ostativi rispetto all’eventualità di un’opera di natura anche “normativa” della Consulta in via modificativa del dato legislativo in materia di licenziamenti.

4. Si rivela senz’altro emblematico, in proposito, l’intervento della Consulta con la pronunzia n. 194/2018, di censura del comma 1, art. 3, d.lgs. n. 23/2015, che ha infatti indotto, come detto, una modifica sostanziale della disciplina originaria dell’indennità e l’abolizione, in particolare, del meccanismo di sua predeterminazione automatica ivi prefigurato, sulla base del quale è stato strutturato l’impianto delle cd. tutele crescenti dal legislatore del Jobs Act.
Posto l'obiettivo "occupazionale" quale finalità del disegno generale del cd. Jobs Act (id est: “rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione”), in quella sede se ne assume infatti la perseguibilità mediante una correlazione tra le ragioni dell’economia e normativa giuslavoristica e, quindi, in virtù di una revisione al ribasso delle tutele in tema di licenziamenti, il cui snodo di mediazione è appunto individuato dal legislatore delegante nella previsione di “un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio” (cfr., rispettivamente, art. 1, comma 7, primo periodo e lettera c), legge n. 183/2014). Ciò in termini che si ripete aver trovato svolgimento coerente nella versione originaria dell'indennità ex comma 1, art. 3, d.lgs. n. 23 (peraltro in forma in qualche modo anticipata già in sede di cd. riforma “Fornero” e replicata in riferimento ad altri temi anche nella legislazione successiva attuativa del Jobs Act: cfr. rispettivamente, art. 1, comma 1, legge n. 92/2012, nonché dd.lgs. nn. 81/2015, 148-151/2015). al di là, peraltro, delle opinioni divergenti manifestatesi riguardo l’effettiva realizzazione del prefigurato risultato occupazionale positivo in forza appunto della previsione del medesimo “indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio”.
A prescindere dalla validità in sé nel merito dell’impostazione e della relativa previsione economico-occupazionale assunta a base dell’impianto delle cd. tutele crescenti, infatti, deve comunque prendersi atto delle “scelte” effettuate dal legislatore del Jobs Act. E ciò in esplicazione delle prerogative discrezionali che, come detto, proprio la stessa giurisprudenza consolidata della Consulta a riconosce essere riservate al legislatore in tema di determinazione delle garanzie e dei relativi livelli di protezione in materia di licenziamenti e, quindi, riguardo alla stessa eventualità di non prevedere in proposito un regime di tutela di portata "reale" , né, d’altro canto, una medesima tutela risarcitoria integralmente compensativa del pregiudizio patito, in deroga agli ordinari canoni civilistici ex artt. 1218 e 2043 cod. civ. e norme collegate .
Il tutto, in ogni caso, precisa anche la Corte costituzionale, giammai in via ingiustificata da parte del legislatore, ma sempre nell’ineludibile “rispetto del principio di ragionevolezza” e “purché sia garantita l'adeguatezza del risarcimento”, che, “ancorché non necessariamente riparatorio dell'intero pregiudizio subito dal danneggiato, deve essere necessariamente equilibrato ... tale da realizzare un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto” e da “garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto ... all'interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell'impresa” . Con la previsione in proposito di una tutela risarcitoria di livello inferiore rispetto agli standard civilistici del risarcimento del danno che, pertanto, è in linea di principio sì consentita, ma solo a fronte di un valido fondamento razionale a sua giustificazione e comunque soltanto in virtù di una sintesi equilibrata dei contrapposti interessi del "lavoro" e della "impresa" (artt. 4 e 41 Cost.): che, tuttavia, sempre secondo l’insegnamento costante della Consulta, permane prerogativa riservata al legislatore stabilire e definire sul piano normativo.
Ebbene, nel momento in cui, per effetto di Corte cost. n. 194/2018, sono venute meno le caratteristiche di certezza e prevedibilità dell'indennità ex comma 1, art. 3, d.lgs. n. 23, è evidente che risulti vanificata la razionalità e comunque la tenuta dell'ipotesi di equilibrio dei valori in questione prefigurata in sede di istituzione delle cd. tutele crescenti sulla scorta della versione originaria del comma 1, art. 3 cit., nonché, quindi, la stessa giustificazione di una tutela in tema di licenziamenti di portata inferiore rispetto all'ordinaria tutela risarcitoria civilistica così come concepita dal legislatore del Jobs Act.
Mentre a rilevare in luogo del regime delle cd. tutele crescenti è, invece, il differente regime rimediale indotto dalla stessa Corte cost. n. 194/2018, in esautorazione delle prerogative normative demandate al legislatore in tema di licenziamenti e, comunque, in sua vece: in travisamento palese del ruolo che la stessa Consulta riconosce essere riservato al legislatore in ordine alla mediazione dei contrapposti valori e interessi rilevanti in materia di licenziamenti anche in correlazione alle più generali scelte di ordine politico ed economico sempre di pertinenza del medesimo legislatore in un determinato momento storico in relazione agli obiettivi e finalità dell’azione di governo. E tanto quando si ripete essere comunque pure da considerare in proposito anche quanto si è detto essere affermato dalla Corte costituzionale in ordine alla necessaria razionalità e giustificazione di ogni ipotesi di regolamentazione delle tutele in tema di licenziamenti in deroga ai canoni civilistici generali della tutela reale e della stessa tutela risarcitoria integralmente compensativa del pregiudizio patito (artt. 1218 e 2043 cod. civ. e norme collegate) .
Ove, invero, messi da parte da Corte cost. n. 194/2018 la motivazione “occupazionale” e il relativo meccanismo di “un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio” alla base della disciplina dei licenziamenti secondo il sistema delle cd. tutele crescenti, è da convenire che risulti essenzialmente “priva di giustificazione” e comunque del tutto “non in linea” con le scelte e le determinazioni del legislatore in materia anche la deroga a tali canoni generali civilistici ad opera del diverso regime dell’indennità ex comma 1, art. 3, d.lgs. n. 23 indotto da tale pronunzia della Consulta.

5. Quanto appena esposto in merito a Corte cost. n. 194/2018 è da ritenersi valere in forma pressoché analoga anche in ordine alla riformulazione dell’indennità ex art. 4, d.lgs. n. 23/2015 da parte di Corte cost. n. 150/2020, in relazione ai vizi formali del recesso datoriale, atteso che pure in proposito, come visto, si ha di fatto la sostituzione del legislatore da parte della Consulta nella disciplina dei licenziamenti e anche qui con travisamento sia della motivazione “occupazionale” sia del meccanismo di “un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio” alla base del sistema delle tutele crescenti ex d.lgs. n. 23/2015.

6. L’impostazione della disciplina legislativa delle cd. tutele crescenti risulta parimenti del tutto superata anche in forza della riformulazione del comma 2, art. 3, d.lgs. n. 23/2015 indotta dalla recente Corte cost. n. 128/2024 nel senso della prevista applicazione, nel caso di insussistenza del fatto addotto quale giustificato motivo oggettivo, della tutela reintegratoria cd. “debole”. Con l’operare nell’ipotesi di tale tutela che è infatti sancito dalla Consulta in ribaltamento dell’esclusione della tutela reintegratoria per i licenziamenti “economici” stabilita dal legislatore del Jobs Act in attuazione delle prescrizioni della legge delega (art. 1, comma 7, lettera c, legge n. 183/2014 cit.: dove l’espressa “limitazione” del “diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato”), argomentando che la “insussistenza del fatto” addotto quale giustificato motivo oggettivo renderebbe il recesso datoriale “senza causa … e perciò collide proprio con il principio della necessaria natura causale del recesso” .
Non è in discussione tale necessaria “causalità” del licenziamento affermata dalla Consulta.
Ciò non toglie che l’applicazione nel caso della tutela reintegratoria “debole” sia tuttavia stabilita da Corte cost. n. 128/2024 sulla scorta di un’argomentazione articolata fondata su alcuni “distinguo” non di immeditata evidenza e la cui portata resta comunque da verificare. Così, invero, per quanto concerne un’opinata distinzione tra “insussistenza” e “infondatezza” del fatto addotto quale giustificato motivo oggettivo (con relativo affermato operare della sanzione della reintegrazione “debole” per la sola ipotesi della “insussistenza” e, invece, di una mera tutela “indennitaria” per la “infondatezza”). E altrettanto anche riguardo la prospettata differenziazione, sempre da parte di Corte cost. n. 128/2024, tra licenziamento “pretestuoso” (quale appunto è quello “senza causa” per la Consulta) e licenziamento discriminatorio o comunque nullo ex art. 2, d.lgs. n. 23/2015 (assoggettato alla tutela reintegratoria “piena”).
Il tutto mentre permane comunque da verificare quanto argomentato dalla medesima Consulta -sempre a sostegno dell’operare della tutela reintegratoria “debole” nel caso di “insussistenza” del fatto addotto quale giustificato motivo oggettivo- in ordine all’opinato rischio di aggiramento della tutela reintegratoria che altrimenti si avrebbe rispetto al licenziamento “disciplinare” (diversamente disciplinato ex comma 2, art. 3, d.lgs. n. 23), come pure, sotto altro verso, riguardo all’onere della prova del “quid pluris (il motivo discriminatorio)” del quale è gravato il lavoratore per poter accedere alla tutela reintegratoria “piena” ex art. 2, d.lgs. n. 23 cit. (così ancora Corte cost. n. 128/2024).
Ove pare infatti da dubitare che, al fine dell’operare di un determinato “di più” di tutela o comunque di una sanzione più pesante (spec., appunto la “reintegrazione debole” in luogo della mera tutela indennitaria ex comma 2, art. 3 cit. per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo), sia ascrivibile rilievo determinante in sé al rischio di elusione della normativa di legge che altrimenti si avrebbe in relazione ad un’altra fattispecie (id est, il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo), così come, sotto altro verso, agli stessi oneri probatori gravanti a carico del lavoratore in riferimento ad un’ancora ulteriore fattispecie (id est, il licenziamento discriminatorio o nullo ex art. 2 cit.). Tanto più, peraltro, alla luce di quanto diversamente reputato dalla stessa Consulta assumendo la compatibilità con i dettami costituzionali della diversità di regime sanzionatorio in tema di violazione dei criteri di scelta per i licenziamenti collettivi ai sensi, rispettivamente, del comma 3, art. 5, legge n. 223/1991 (come modificato ex comma 46, art. 1, legge n. 92/2012) e comma 4, art. 18, legge n. 300/1970, nonché degli artt. 10 e 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, nonché così quindi ammettendo, in relazione ad una medesima procedura di licenziamento collettivo, la possibilità di aggiramento di fatto, da parte del datore, del regime reintegratorio scegliendo come da licenziare lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015 e non, invece, prestatori rientranti nel campo di applicazione del comma 4, art. 18.
Ma, a parte ogni altra considerazione, a risultare all’esito di Corte cost. n. 128/2024 è, come detto, una regolamentazione “altra” in tema di licenziamenti rispetto a quella prefigurata dal legislatore del Jobs Act, che per di più ne smentisce in toto il principio-guida dell’esclusione della reintegrazione per i licenziamenti “economici” (cfr. comma 2, art. 3, d.lgs. n. 23/2015 e già art. 1, comma 7, lettera c, legge-delega n. 183/2014).
Una regolamentazione “altra”, invero, resa dalla Consulta in luogo del legislatore e, in specie, in contraddizione con le prerogative di “scelta” che la stessa Corte cost. n. 128/2024 ribadisce essere riservate ad esso legislatore tra i “molteplici rimedi” che “possono essere … idonei a garantire una adeguata compensazione per il lavoratore arbitrariamente licenziato”, anche ripetendo che “questa Corte ha … più volte affermato che la reintegrazione non costituisce ‘l'unico possibile paradigma attuativo’ dei principi costituzionali (sentenza n. 125 del 2022, che richiama le sentenze n. 59 del 2021 e n. 46 del 2000)”.
Onde anche in proposito, con l’esautoramento del ruolo del legislatore, il venir meno del bilanciamento dei contrapposti valori e interessi in gioco in tema di licenziamenti alla base dell’impianto delle cd. tutele crescenti e, comunque, l’operare, per effetto di Corte cost. n. 128/2024, di un regime rimediale in materia che, in quanto non espressione dell’azione del legislatore, stenta peraltro a trovare una sua reale giustificazione anche sul piano di una deroga ai canoni generali civilistici della tutela reale, ripristinatoria e/o del risarcimento pieno o comunque commisurato al danno effettivo.

7. Ferma l’ineludibile censura delle disposizioni legislative in tema di licenziamenti che la Consulta valuti non in linea con i dettami costituzionali, è quindi essenzialmente da dubitare che la medesima Consulta possa in tal senso provvedere essa stessa alla riscrittura delle norme censurate. E tanto, peraltro, nel caso delle cd. tutele crescenti ex d.lgs. n. 23/2015, come visto, anche in travisamento delle logiche alla base dell’impianto rimediale posto ex lege a limitazione del recesso datoriale quale sintesi dei contrapposti interessi del lavoro e dell’impresa.
Specie giacché in questo modo, al di là dell’indebita sottrazione al legislatore della sua funzione di disciplina dei licenziamenti, l’intervento “normativo” della Corte costituzionale è spiegato volta per volta in riferimento circoscritto ad una singola misura di tutela (id est, quella di cui alla disposizione censurata), senza una necessaria considerazione complessiva dell’intero sistema rimediale e senza una gradazione equilibrata con riguardo alle altre misure di tutela e relative sanzioni, nonché comunque in difetto di una globalee valutazione logica di sintesi dei diversi interessi e valori in campo (che si è visto essere la medesima Consulta che riconosce essere prerogativa del legislatore bilanciare in via discrezionale anche alla luce delle più generali scelte politiche di governo dell’economia e del lavoro).
Indipendentemente dalla sua effettiva condivisione, è assodata la funzionalità all’obiettivo lato sensu occupazionale della limitazione del potere di recesso datoriale in ragione del sistema delle cd. tutele crescenti introdotto dal legislatore del Jobs Act.
Ebbene, relativamente al dettato dei commi 1 e 2, art. 3 e dell’art. 4, d.lgs. n. 23/2015 i capisaldi di tale impianto rimediale sono stati sconfessati dalla Consulta, nei termini su rimarcati, in una alla statuita incostituzionalità dei loro testi originari , ma senza che rilevi una giustificazione “altra” in relazione alla limitazione del potere di recesso datoriale indotta da siffatte nuove disposizioni come riformulate dalla Consulta.
Una giustificazione “altra” (rispetto a quella alla base della normativa del Jobs Act “vecchia formula”) che peraltro la Consulta non è nemmeno legittimata a stabilire, come da essa stessa ammesso quando riconosce essere prerogativa riservata alla discrezionalità del legislatore provvedere ad una regolamentazione dei licenziamenti che abbia appunto una sua razionalità e giustificazione , in primo luogo per quanto concerne la determinazione, in relazione ai diversi possibili vizi dei licenziamenti, sia della “tipologia” sia della “entità” delle corrispondenti tutele, e delle sanzioni relative. Legislatore che, invero, è così deputato a stabilire “se”, “come” e “in che misura” sanzionare le varie ipotesi di illegittimità dei licenziamenti, con relativa gradazione in ragione della loro gravità .
Onde la necessaria limitazione dell’intervento della Consulta all’espunzione dal dettato normativo della disposizione o comunque della parte della disposizione valutata incostituzionale, senza che si acceda ad una sua riformulazione in termini diversi da parte della medesima Consulta. Tanto più in relazione alla materia dei licenziamenti e alle prerogative che si ripete ancora essere riservate al riguardo al legislatore.
Statuita l’incostituzionalità di una determinata norma, invero, l’effetto non può che esserne la caducazione. Ciò, peraltro, anche con la possibile persistente operatività della stessa norma una volta espuntane la parte appunto dichiarata incostituzionale, ma ovviamente soltanto quando risulti possibile concretamente, e cioè solo qualora permanga un’effettiva valenza precettiva della norma come modificata in ragione del venir meno della sua parte censurata. Così come avvenuto, del resto, anche proprio a fronte della recente declaratoria di incostituzionalità di alcune disposizioni in tema di licenziamenti, quali, in particolare, il comma 7, art. 18, legge n. 300/1970 e l’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 : disposizioni, queste, che, una volta venuta meno o comunque modificata la loro parte censurata dal Giudice delle leggi, conservano infatti un’obiettiva immediata precettività.
Ma non altrettanto, invece, al cospetto di un intervento della Corte costituzionale di natura più radicalmente demolitiva della norma censurata, come appunto nel caso delle su considerate pronunzie Corte cost. nn. 194/2018, 150/2020 e 128/2024, mediante le quali si è visto essere affermata l’incostituzionalità in radice, da un lato, dell’indennità certa e predeterminata ex comma 1, art. 3 e art. 4, d.lgs. n. 23/2015, nonché, dall’altro lato, dell’esclusione della tutela reintegratoria "debole” nell’ipotesi di insussistenza del fatto materiale addotto quale giustificato motivo oggettivo di licenziamento ex comma 2, art. 3, d.lgs. n. 23. Vale a dire, cioè, un’incostituzionalità in sé ab imis delle misure sanzionatorie e, anzi, delle stesse logiche assunte dal legislatore del Jobs Act a fondamento della loro previsione, senza che dunque residui alcuna operatività delle medesime disposizioni censurate. Ciò come del resto confermato implicitamente dalla stessa Consulta nel momento in cui ha prospettato delle completamente diverse “nuove” versioni delle norme censurate: in innegabile esplicazione di una funzione “normativa”, in sostituzione indebita del legislatore e pertanto in termini che si ribadisce essere preclusi alla medesima Consulta.
Fermo il suo ruolo di custode dei principi e valori costituzionali, non è competenza della Corte costituzionale provvedere a colmare i vuoti o comunque provvedere alle modifiche del dettato legislativo che si reputino necessarie a fronte di una pronunzia di incostituzionalità.
Al cospetto di una pronunzia di tal fatta, esclusa l’eventualità di un’azione di natura anche “normativa” della Consulta, si tratta infatti di valutare se e, se sì, in che misura la disposizione censurata conservi una sua valenza precettiva e, comunque, se ne risultino altre applicabili in suo luogo, salva ovviamente l’ipotesi di un sempre possibile nuovo intervento del legislatore in materia.
Ove, al cospetto della declaratoria di incostituzionalità delle disposizioni del d.lgs. n. 23/2015 di cui alle considerate pronunzie Corte cost. nn. 194/2018, 150/2020 e 128/2024, esclusa la possibilità di loro sostituzione o modifica da parte della stessa Consulta, è da convenire che si sarebbe allora trattato piuttosto di valutare l’operatività in luogo di esse di altre disposizioni di legge al fine dell’individuazione delle tutele applicabili in relazione ai casi di illegittimità dei licenziamenti ivi considerati. E, pertanto, anzitutto l’eventuale applicazione di altre normative in tema di licenziamenti (e segnatamente, quindi, quelle di cui all’art. 18, legge n. 300/1970 o alla stessa legge n. 604/1966 e disposizioni collegate, con tutte le note varianti e gradazioni di tutele e relative sanzioni), ma in subordine anche il possibile operare delle stesse generali tutele civilistiche.
Ciò, tuttavia, sempre a meno di (e comunque solo fino a) un nuovo intervento del legislatore in materia: intervento del legislatore che, pertanto, anche in tal senso si rivela quantomai necessario, e che d’altro canto si ripete essere sollecitato a più riprese dalla medesima Consulta, benché poi esplicando contraddittoriamente essa stessa, come detto, una funzione “normativa” in materia in indebita sostituzione di esso legislatore.

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.