TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1.1 Oramai son quasi dieci anni: il Jobs Act e le tutele crescenti.
L’espressione «licenziamento a tutele crescenti», attuato con la riforma del governo Renzi (D.Lgs. n.23/2015), suggerirebbe dense protezioni dai licenziamenti illegittimi, salvaguardando proporzionalmente gli interessi del lavoratore.
Il termine non deve trarre in inganno: tale regime contrattuale, applicabile esclusivamente ai lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 , prevede, come regola iuris del licenziamento illegittimo, un mero “ristoro indennitario” commisurato alla durata del rapporto di lavoro: in breve, più l’anzianità di servizio è elevata maggiore sarà l’importo spettante (da un minino di 6 ad un massimo di 36 mensilità) al lavoratore dipendente .
Viene, dunque, relegata a margine la “vecchia” tutela re-integratoria (anche chiamata “reale-attenuata” ), in particolare nei soli casi di nullità o qualora il fatto posto alla base del licenziamento “disciplinare” sia insussistente.
La ratio sottostante al citato intervento fu quella di snellire il mercato del lavoro in entrata, sì da garantire alle imprese di preventivare il “costo” del licenziamento: restando, dunque, esclusi i lavoratori assunti in data antecedente all’entrata in vigore del decreto (cui viene ancora applicata la tutela reale attenuata), la disparità di trattamento basata sulla data di assunzione è un interrogativo che rimane ad oggi ancora aperto.
Ad identiche lesioni (si pensi, ad esempio, all’illegittimo licenziamento disciplinare di due lavoratori per un fatto cui, da contratto collettivo, sarebbe stata applicabile la sola sospensione dal servizio e dalla retribuzione) la compensazione patrimoniale si differenzia in base ad un dato accidentale ed estrinseco come la data di costituzione del rapporto di lavoro.
Sul punto la Corte Costituzionale si è espressa più volte sottolineando che «il fluire del tempo può ben costituire un elemento di diversificazione di situazioni giuridiche omologhe» spettando alla discrezionalità del legislatore stabilire, in modo ragionevole, la delimitazione temporale delle norme sopra citate .
La Corte, già con la sentenza n.194/1970, pur affermando che i principi su cui si inspira l’art.4 Cost. esprimano «l’esigenza di un contenimento della libertà del recesso del datore di lavoro dal contratto e, quindi, dell’ampliamento della tutela del lavoratore, quanto alla conservazione del posto di lavoro» ha tuttavia precisato che l’attuazione di questi principi «resti tuttavia affidata alla discrezionalità del legislatore ordinario, quanto alla scelta dei tempi e dei modi in rapporto ovviamente alla situazione economica generale».
Tale disparità di trattamento, se per un verso sembra aver oltrepassato il vaglio di costituzionalità specie in relazione alla “situazione economica generale” , dall’altra parte impone che il ristoro patrimoniale sia adeguato: come pocanzi accennato, per quanto due situazioni giuridiche simili possano esser trattate diversamente, l’ordinamento impone che, nei casi di illegittimità del licenziamento, vi sia un congruo ristoro.
A sottolinearlo non è solo la Costituzione ma anche l’art.24 della Carta Sociale Europea (d’ora in poi CSE) il quale, prevedendo un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione per il lavoratore licenziato senza un valido motivo, si qualifica come “norma a parametro interposto” ovvero disposizione sovra-ordinata al decantato Jobs-Act (in particolare il D.Lgs. n.23/2015).
Su tali premesse la domanda appare lecita: l’indennizzo legato alla sola anzianità di servizio può ritenersi congruo?
Sotto il profilo dell’adeguatezza del ristoro – comparando i “nuovi” ai “vecchi” assunti – è chiaro che 36 mensilità (misura massima applicabile e garantite con le tutele crescenti) siano sicuramente maggiori alle 27 (12 massime + 15 in ipotesi di cessazione per volontà del lavoratore); tuttavia – quivi risiede la macroscopica differenza – mentre l’indennizzo totale riservato ai vecchi assunti non rende alcuna distinzione in base all’anzianità di servizio, quello riservato ai nuovi assunti varia di due mensilità per ogni anno di servizio, da un minimo di 6 ad un massimo di 36 mensilità.
Sul tema non è tardata ad intervenire la Corte Costituzionale (C. Cost. n.194/2018 e 150/2020) dichiarando l’illegittimità del sistema di calcolo per due sostanziali motivazioni.
La prima, relativa alla adeguatezza, rimane afferente alla compensazione del danno prodotto (seppur sotto forma indennitaria ) al lavoratore: la riparazione del danno basata solamente sull’anzianità di servizio contrasterebbe con il principio di eguaglianza andando ad omologare ingiustificatamente situazioni giuridiche differenti.
Un esempio calzante può essere tratto da tale fattispecie: da una parte, un giovane sulla trentina con mutui “prima casa” e figli a carico, mentre, dall’altra, una risorsa con età prossima al pensionamento senza figli a carico e con un tetto sulla testa; la sola anzianità di servizio compensa davvero il danno prodotto da licenziamento illegittimo?
Appare chiaro che la risposta non possa esser affermativa. La compensazione economica dovrebbe esser ancorata alle possibilità di re-impiego della risorsa, alle condizioni del mercato del lavoro ancorate al livello ed al tipo di professionalità, all’età e ai carichi di famiglia nonché alla quantità del sostegno del reddito (NASPI).
“Dovrebbe”, al condizionale, perché la sentenza della Consulta richiama criteri quantificativi propri della L. n. 604/1966 ovvero: numero di dipendenti occupati, dimensioni dell’impresa, comportamento e condizioni delle parti; tutti fattori che nulla hanno a che vedere con il danno prodotto al lavoratore essendo al più inquadrabili nell’ambito “deterrente-sanzionatorio” .
L’aumento/diminuzione in funzione dei dipendenti occupati o delle dimensioni dell’impresa, oltre a favorire il cd. “nanismo imprenditoriale” , non è in grado di colmare la decantata lacuna sottolineata dalla Consulta: non aggiunge nulla alla personalizzazione del danno, anzi, non fa altro che aumentare la disparità di trattamento tra i lavoratori .
Tale divario presagisce la seconda, determinate, ragione per cui la Corte abbia dichiarato l’incostituzionalità dei licenziamenti a tutele crescenti: le scarse finalità dissuasive.
Il sistema di calcolo “predeterminato” non sarebbe, infatti, in grado di allontanare l’imprenditore dall’intento di licenziare senza valida giustificazione, compromettendo l’equilibrio degli obblighi contrattuali.
Tale assunto appare non convincente: da una parte la predeterminazione della sanzione costituisce uno dei principi cardine di ogni ordinamento democratico, dall’altra l’apparato motivazionale peccherebbe di incisività; una qualsiasi pronuncia del giudice (per quanto condivisibile o meno) dovrebbe essere motivata, ovvero non limitarsi a frasi di stile del tenore «è irragionevole perché non realizza un equilibrato componimento degli interessi in gioco», frase, quest’ultima, che odora di tautologia, specie quando i decantati interessi in gioco non vengano ben definiti.
Se si vuol dare una giustificazione all’operato di qualche anno fa (2018 – 2021) si potrebbe sostenere che, come appare desumibile da qualche riga presente in pronuncia , l’eliminazione della tutela reale ha reso più semplice per l’imprenditore determinare il “costo del licenziamento”, specie nei licenziamenti cd. “economici” che non prevedono – diversamente da quelli disciplinari, per fatto imputabile al dipendente su cui, in particolari casi, trova ancora applicazione – alcun tipo di tutela re-integratoria.
Secondo la Consulta tale sistema non sarebbe idoneo a tutelare il lavoratore perché consentirebbe al datore di lavoro di licenziare indiscriminatamente mediante pagamento di una somma di denaro predeterminata.
Su tale scia, che ha lasciato aperti molti interrogativi (sia dal punto di vista risarcitorio che dissuasivo), non è tardata ad arrivare una seconda dichiarazione di incostituzionalità (art.3, comma 2) nella parte in cui, per l’appunto, non preveda l’applicazione della tutela reale attenuata anche nei per i licenziamenti economici.
La pronuncia (C.Cost. n.128/2024) ha avuto il merito di ri-equlibrare il vulnus creatosi, le cui precedenti pronunce non hanno saputo dar risposta se non arginando il problema mediante eliminazione del decantato “sistema di calcolo”.
A questo punto l’interrogativo rimane aperto: l’inserimento della tutela reale anche per i licenziamenti economici, idonea a garantire finalità dissuasive dal recesso indiscriminato, può dare avvio ad una rinascita del sistema di calcolo (due mensilità per ogni anno di servizio, da un minimo di 6 fino ad un massimo di 36) dichiarato incostituzionale?
Per cercare una risposta esauriente è necessario partire da due concetti cardine che permeano il diritto del lavoro: ogni licenziamento deve esser motivato e la sua ragione giustificatrice deve esser “effettiva” – non pretestuosa – ovvero dimostrare la causa dell’estromissione del lavoratore dal rapporto.
2.1 Ogni recesso dal rapporto deve essere motivato.
È noto che fino all’introduzione della legge n.604/1966 il datore di lavoro poteva recedere dal rapporto (alias licenziare) senza dover fornire alcuna motivazione, ferma l’ottemperanza dell’obbligo di assegnare un congruo preavviso o, in alternativa, di corrispondere un’indennità sostitutiva come previsto dalle norme contrattuali (art.2118 C.C.).
Con la legge n.604/1966 (ancora in vigore a quasi sessant’anni d’età) il legislatore è intervenuto stabilendo che ogni licenziamento debba esser motivato; in tale perimetro le uniche ipotesi di recesso nel rapporto di lavoro sono, oltre alla giusta causa, il giustificato motivo soggettivo od oggettivo.
La macroscopica differenza tra le due tipologie (soggettivo e oggettivo) risiede nell’imputabilità dell’inadempimento: il cd. giustificato motivo soggettivo presuppone una “colpa” del lavoratore, sufficientemente grave da giustificare il recesso, ovverosia tale da ledere il vincolo fiduciario nel rapporto datore-dipendente ; il giustificato motivo oggettivo, di contro, non è motivato da un notevole inadempimento contrattuale ascrivibile al lavoratore bensì a ragioni inerenti «all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa».
Tale distinzione appare fondamentale in quanto, prima della recente pronuncia della Corte Costituzionale (C. Cost. n. 128/2024), al solo licenziamento per motivo oggettivo poteva ritenersi esclusa la tutela reale attenuata, mentre in ipotesi di licenziamento disciplinare (alias giustificato motivo soggettivo), ove il fatto fosse stato dichiarato come «insussistente», al lavoratore veniva (rectius, viene tutt’ora) riconosciuta tale incisiva forma di tutela.
Sebbene il criterio direttivo della riforma Jobs Act fu quello di prevedere il diritto alla reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato limitatamente «ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato» allo «scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro», l’esclusione della tutela reale attenuata nei licenziamenti economici ha avuto, tutto sommato, vita breve.
D’altronde se il fatto posto a base del licenziamento – che sia di natura soggettiva o scollegate ad un inadempimento contrattuale – rimane materialmente insussistente, poco importa il nomen iuris dato: perché il lavoratore licenziato per un fatto disciplinare inesistente dovrebbe esser trattato diversamente da un licenziamento fondato su fatti aziendali insussistenti? In tutti e due i casi il datore ha provveduto a utilizzare un fatto che, nella realtà, non c’è!
Questa la critica – legittima – posta alla base della dichiarazione di incostituzionalità della norma.
2.2 Il licenziamento per Giustificato Motivo Oggettivo.
I maggiori problemi relativi alla valutazione sulla sussistenza di ragioni legate «all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa», idonee a giustificarne il licenziamento, trovano terreno fertile attorno alla sindacabilità delle scelte imprenditoriali ed alla loro ragionevolezza.
La questione non pare di poco conto perché, come anticipato nei paragrafi precedenti, la Corte Costituzionale ha inserito la tutela reale attenuata anche nelle ipotesi di manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento economico, casistica, questa, testualmente esclusa dalla littera legis del D.Lgs. n. 23/2015 (la quale non prevedeva alcuna differenziazione tra insussistenza del motivo addotto e illegittimità generale del licenziamento: prima della recente pronuncia, nelle ipotesi di illegittimità dei licenziamenti economici, al lavoratore era garantita la sola tutela obbligatoria indipendentemente dalla sussistenza del “fatto”).
Tale nuova prospettiva richiama concetti inerenti alla definizione di “giustificato motivo oggettivo di licenziamento”, nonché alla valutazione discrezionale che il giudice dovrà esporre in sentenza, discrezionalità – quest’ultima – che non può spingersi fino a sindacare le mere scelte produttive dell’impresa (in breve è precluso al giudicante lo scrutinio inerente alle ragioni giustificatrici la scelta fattasi, ovvero relativo al perché abbia scelto una tale iniziativa economica).
A partire dalla sentenza “apripista” della Suprema Corte (vd. Cass. Civ., Sez. Lav., 7 dicembre 2016, n.25201), le ragioni inerenti ai licenziamenti cd. “economici” si consolidano sia attorno situazioni «sfavorevoli, non meramente contingenti» (in breve, in caso di crisi aziendale) ma anche nell’ipotesi in cui l’impresa – pur economicamente florida – decida di sopprimere il posto di lavoro per riorganizzazione aziendale del prodotto/servizio o del processo produttivo.
Sulla sussistenza del fatto è stato chiarito che tale si manifesti non solo qualora venga accertato l’effettivo mutamento organizzativo ma che quest’ultimo risulti causale (conditio sine qua non) al licenziamento del dipendente: non basta, dunque, dimostrare la “novità” dal punto di vista organizzativo bensì sarà onere del datore di lavoro provarne la corrispondenza con la cessazione del rapporto.
Un esempio: è legittimo il licenziamento intimato, per la chiusura della filiale (il fatto in sé), al dipendente anche qualora non comporti la soppressione delle mansioni cui egli era adibito, purché realizzi una redistribuzione delle stesse tra gli altri lavoratori, rientrando nella facoltà del datore di lavoro la scelta di mantenere più a lungo in servizio coloro che ritenga più adeguati a far fronte alle nuove incombenze determinate dalla modifica degli assetti organizzativi (nesso di causa); a contrario il fatto testé richiamato sarebbe privo di causa – e, dunque, insussistente in relazione al licenziamento – qualora il dipendente estromesso fosse completamente estraneo alla filiale su cui è intervenuta la modifica legislativa.
Nelle ipotesi residuali, tutte relative al mancato assolvimento del c.d. “onere di repêchage” , il datore di lavoro sarebbe onerato al pagamento di una indennità omnicomprensiva che, tuttavia, estingue alla data di licenziamento il rapporto lavorativo (per questo chiamata obbligatoria in luogo di “reale” prevista nelle ipotesi sopra richiamate).
Che cos’è l’onere di repêchage? La sua differenziazione mostra utilità – prima non nota in quanto non vi era motivo di interrogarsi sulla sussistenza o meno del fatto – perché, a seguito della dichiarazione di incostituzionalità «dell’art. 3, comma 2, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 nella parte in cui non prevede che si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore», nell’ipotesi in cui il datore di lavoro non sia in grado di dimostrare in giudizio di aver assolto tale onere ma, al contempo, di aver provato l’effettività delle ragioni giustificanti il licenziamento, verrà applicata la sola tutela obbligatoria: il rapporto verrà dichiarato estinto alla data del licenziamento ed il lavoratore non potrà esser re-integrato, spettandogli una indennità ricompresa tra le 6 e 36 mensilità.
In breve, l’onere di repêchage (non previsto in nessuna disposizione normativa ma frutto di interpretazione prettamente giurisprudenziale) impone al datore di lavoro la dimostrazione di non poter “utilizzare altrimenti” la prestazione lavorativa della risorsa; il licenziamento economico – per potersi qualificare come legittimo nella sua interezza – dovrebbe esser sorretto non solo da una ragione che dia contezza della situazione di crisi o di riassetto aziendale tale per cui la prestazione resa dal lavoratore non sia più utile, ma anche dell’impossibilità per il datore di ri-utilizzare la risorsa all’interno dell’impresa, anche in altre ed ulteriori mansioni di livello inferiore purché compatibili con la professionalità acquisita .
Volendo citare qualche esempio è stato ritenuto legittimo il licenziamento comminato ad una dipendente per riorganizzazione della rete commerciale poi affidata ad un agente esterno , oppure quello relativo ad una contrazione del lavoro ove le restanti mansioni venivano assegnate al personale in forza ; illegittimo, invece, il recesso del datore (una catena di supermercati) nel caso di semplice chiusura di un punto vendita .
3.1 Gli interventi della Corte Costituzionale: dalla possibilità di valutare il costo del licenziamento fino all’inserimento della tutela reale.
Si è già parlato di come l’intento della legge delega fosse l’introduzione di un sistema a natura indennitaria per i licenziamenti ritenuti illegittimi, lasciando così brevi spiragli alla re-integra del lavoratore nei soli casi di discriminazione o di insussistenza di illeciti addebitabili al lavoratore.
Dunque, nell’ipotesi di illegittimità del licenziamento, al lavoratore spetterebbe una «indennità pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del t.f.r. per ogni anno di servizio, da un minimo di 6 fino a un massimo di 36 mensilità».
Due le pronunce intervenute sulla normativa: la prima ha espunto la frase «pari a due mensilità» mentre la seconda (C. Cost. n.128/2024) ha esteso la tutela re-integratoria a tutti i casi di insussistenza del fatto (alias mancanza di causa), ovvero indipendentemente dalla tipologia di recesso adottato (g.m.o. oppure g.m.s.).
In tale ottica di sostanziale modifica da parte della Corte Costituzionale è da rilevare che il diritto del lavoro, pur essendo soggetto a continui mutamenti legati a profili economico sociali ed essendo fondamentale diritto di libertà della persona umana, pur non garantendo il diritto alla conservazione del posto di lavoro, «esige che il legislatore […] adegui […] la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato al fine ultimo di assicurare a tutti la continuità del lavoro, e circondi di doverose garanzie […] e di opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo ai licenziamenti» .
È proprio sul fronte delle garanzie che la Consulta ha “modificato” la disciplina dei licenziamenti fino a rendere vane le finalità – tutte improntate all’ingresso nel mondo del lavoro – imposte dalla legge delega.
Quanto all’eliminazione del rigido sistema di calcolo la Corte ha osservato – senza darne un adeguata motivazione – che la predeterminazione di una indennità omnicomprensiva, non ulteriormente graduabile dal giudice, lederebbe sia quell’adeguato ristoro da garantirsi al dipendente sia la funzione dissuasivo-precettiva idonea a scongiurare licenziamenti illegittimi .
In quest’ottica è da rilevare che il giudizio su cui è intervenuta la Corte avesse ad oggetto proprio un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, normativa che – all’epoca – non prevedeva in alcun modo la re-integra del lavoratore nei casi di illegittimità.
A tale pronuncia – che ha certamente influito, come appare desumibile dal pt.10 del considerato in diritto – si aggiunge la recentissima sentenza della Corte (C. Cost. n.128/2024) che ha equiparato i casi in cui il licenziamento non sia sorretto da alcun nesso causale, indipendentemente, dunque, dal motivo oggettivo o soggettivo.
In particolare, la Consulta ha ampliato (rectius, inserito) la re-integra anche nei licenziamenti economici per due ordini di ragioni: una di ordine logico-sistematico, la seconda di “valore”.
Quanto alla prima appare più che condivisibile l’assunto secondo cui: «La discrezionalità del legislatore nell’individuare le conseguenze di tale illegittimità – se la tutela reintegratoria o quella solo indennitaria – non può estendersi fino a consentire di rimettere questa alternativa ad una scelta del datore di lavoro che, intimando un licenziamento fondato su ‟un fatto insussistente”, lo qualifichi, come licenziamento per giustificato motivo oggettivo piuttosto che come licenziamento disciplinare. La conseguenza, in termini di garanzia per il lavoratore illegittimamente licenziato, non può che essere la stessa: la tutela reintegratoria attenuata prevista per l’ipotesi del licenziamento che si fondi su un “fatto materiale insussistente”, qualificato dal datore di lavoro come rilevante sul piano disciplinare». Se un fatto risulta insussistente è irrilevante la sua qualificazione come legata a motivi d’economia di impresa oppure afferenti ad un inadempimento del lavoratore; è chiaro che nelle ipotesi in cui il datore di lavoro voglia estromettere sine causa un dipendente utilizzerà sempre e comunque il licenziamento per g.m.o. poiché quest’ultimo non prevede(va) la re-integra del lavoratore licenziato.
Dall’altra parte – relativa all’ulteriore e concorrente ragione – sottolinea, come pur accennato nella sentenza n.194/2018, che «Il recesso datoriale offende la dignità del lavoratore per la perdita del posto di lavoro quando non sussiste il fatto materiale allegato dal datore di lavoro a suo fondamento, quale che sia la qualificazione che ne dia il datore di lavoro, sia quella di ragione d’impresa sia quella di addebito disciplinare.
Il licenziamento fondato su fatto insussistente, allegato dal datore di lavoro come ragione d’impresa, è, nella sostanza, un licenziamento pretestuoso (senza causa), che si colloca a confine con il licenziamento discriminatorio (che è viziato da un motivo, appunto, discriminatorio)».
A seguito delle due pronunce si apre una nuova regolamentazione del licenziamento illegittimo: nelle ipotesi in cui il fatto sia sine causa (sia che non sussista alcun addebito disciplinare che alcuna ragione organizzativa) il licenziamento assumendo i connotati di pretenziosità deve esser sanzionato con la reintegra del lavoratore; nelle altre ipotesi, invece, ove sia sì sussistente il fatto (in breve, la modifica organizzativa o l’effettiva commissione di un illecito da parte del lavoratore subordinato) ma tale risulti contra legem, perché sanzionabile diversamente (nelle ipotesi di g.m.s.) oppure per non aver cercato (nei licenziamenti economici) di ricollocare altrove il lavoratore, al lavoratore dovrà esser riconosciuta una indennità omnicomprensiva variabile da un minimo di 6 fino ad un massimo di 36 mensilità in funzione del danno prodotto.
Tale pronuncia lascia aperti forti interrogativi: se da una parte la differenziazione basata sull’insussistenza del fatto trova giustificazione tra i licenziamenti disciplinari (si pensi al caso di un lavoratore che, senza aver mai avuto addebiti disciplinari, consumi – senza acquistarla – della merce esposta; in tal caso il fatto pur essendo sussistente dovrebbe esser sanzionato con la sospensione dal lavoro in luogo del licenziamento) ove la linea di demarcazione da “pretestuosità” e mera “illegittimità” appare evidente, dall’altra – sul versante dei licenziamenti economici – tale distinzione risulta quanto mai velata.
Inoltre, fermo restando che parte della dottrina ritene ancora che il cd. obbligo di repêchage sia da inserirsi all’interno della pretestuosità del fatto-licenziamento (fatto, quest’ultimo, smentito dalla stessa Corte al pt.16 del considerato in diritto), rimane da interrogarsi se ed in qual modo l’inserimento della tutela re-integratoria, specie nelle ipotesi di g.m.o., possa influire sulla liquidazione del danno dei licenziamenti sì illegittimi ma non sottoposti alla tutela reale attenuata perché non pretestuosi.
Tale interrogativo si basa sulle plurime motivazioni adottate dalla Corte Costituzionale: se la dichiarazione di incostituzionalità del rigido sistema di calcolo (2 mensilità per anno di servizio) fu sostenuta anche sulla prospettiva sanzionatoria, idonea ad allontanare il datore di lavoro «dall’intento di licenziare senza una valida giustificazione», allora nell’ipotesi in cui sia inserita – come di fatto avvenuto – la tutela reale per i licenziamenti “pretestuosi” (senza causa ndr.) la finalità dissuasiva risulterebbe soddisfatta (il datore di lavoro sarà, infatti, scoraggiato a licenziare il dipendente per motivi inerenti alla attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa qualora questi siano materialmente insussistenti, pena il pagamento di una indennità pari a 15 mensilità, da aggiungersi oltre al periodo di estromissione del lavoratore).
Il merito della recentissima pronuncia risiede nell’aver colmato il vuoto di tutela lasciato aperto dal legislatore ormai quasi dieci anni orsono. In tale ottica può affermarsi che ogni qual volta vi sia una reale ragione organizzativa o un fatto addebitabile al lavoratore il rapporto di lavoro può considerarsi risolto alla data del licenziamento, anche nell’ipotesi in cui questo sia illegittimo perché non rispettoso dell’obbligo di repêchage oppure perché sanzionabile diversamente.
Relativamente al mancato rispetto del solo obbligo di repêchage la disciplina sembra esser in linea con i licenziamenti collettivi che, per quanto differenti, rimangono collegati a ragioni economiche: se la violazione dell’obbligo di repêchage ha a che fare con la scelta del lavoratore da ricollocare all’interno dell’organico aziendale e per tale violazione viene espunto il rigido meccanismo pari a due mensilità per anno di servizio, allora anche nelle ipotesi di violazione dei criteri di scelta del lavoratore, da licenziare nelle procedure collettive, tale meccanismo sanzionatorio appare, tutto sommato, più che consono .
3.2 Prospettive per un legislatore più giudizioso.
In un’ottica de jure condendo, potrebbe sostenersi che, a seguito della sostanziale equiparazione tra i due tipi di licenziamento illegittimo per insussistenza del fatto, l’inserimento di un sistema indennitario, basato su due mensilità per anno di servizio, assumerebbe i connotati di una vera e propria clausola penale prevista ex lege.
Piuttosto che procedere con l’eliminazione di quelle due mensilità il legislatore potrebbe lasciare aperta la strada dell’ulteriore risarcimento del danno (come accade per la clausola penale nelle ipotesi previste dall’art.13282, comma 1, C.C.) da liquidarsi qualora il lavoratore ne dimostri ulteriori sofferenze.
Tale strada appare rispettosa del monito lasciato dalla Consulta: quanto al profilo sanzionatorio/deflattivo è da rilevare – come già accennato poc’anzi – che tale venga soddisfatto nella misura in cui, a licenziamento pretestuoso ovvero non soggetto da alcun ragione, sia prevista la re-integra del lavoratore; non si vede il motivo per cui nelle diverse ipotesi in cui il fatto sussista ma, per qualche motivo contrattuale (art.1325 C.C.), non sia da solo idoneo a legittimarne il recesso il datore di lavoro sia “invogliato a licenziare senza una valida giustificazione”! Il motivo c’è, non è pretestuoso, né inventato, anche se non bastevole a legittimarne il licenziamento.
Riguardo al secondo profilo, inerente alla personalizzazione del danno, appare più consono che sia il lavoratore stesso a dimostrare – su impulso di parte – il maggior danno subito, con ciò eliminando il potere lasciato al giudice di personalizzare d’ufficio il danno sulla base di criteri che nulla hanno a che fare con il danno subito in concreto .
L’art.3 D.Lgs. n.23/2015 potrebbe essere così scritto:
«Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità.
Nei casi di cui al comma 1, la risarcibilità dell’ulteriore danno prodotto non può, in ogni caso, superare le trentasei mensilità.
Nelle ipotesi in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale posto a base del licenziamento, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell'articolo 4, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla pronuncia di reintegrazione non può essere superiore a dodici mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per omissione contributiva. Al lavoratore è attribuita la facoltà di cui all'articolo 2, comma 3
Al licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 1 non trova applicazione l'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni».