TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. La Corte costituzionale negli ultimi sette anni è stata investita di numerose questioni di costituzionalità relative al regime sanzionatorio dei licenziamenti, come stabilito nella Legge Fornero e nella disciplina delle Tutele Crescenti nell’ambito del Jobs Act.
Le sentenze della Corte, seppur in un percorso in parte discontinuo, hanno fortemente inciso sulla disciplina, con un incremento delle ipotesi di reintegrazione.
Non è quindi eccessivo affermare che il sistema sanzionatorio è stato ridefinito in modo significativo .
Naturalmente un intervento complessivo di tale portata può porre degli interrogativi sul rispetto dei confini tra potere legislativo e controllo della Corte.
Ai fini che interessano, in particolare l’esame del rapporto con il potere legislativo in materia di sanzioni conseguenti a licenziamento illegittimo, sotto il profilo metodologico, un punto di partenza significativo può essere dato dalle linee guida che la Corte si è data ed a cui, conseguentemente, avrebbe dovuto attenersi. In particolare:
- dalla Costituzione non può derivarsi l’imposizione di un determinato regime di tutela (in particolare reintegratoria) , restando affidata alla discrezionalità del legislatore la scelta delle tutele, tenendo presente anche la situazione economica generale , purché il meccanismo, ed in particolare quello risarcitorio, si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza , e sia adeguato e dissuasivo nel rispetto dell’art. 24 della Carta Sociale Europea;
- nonostante la qualificazione come indennità, le sanzioni monetarie conseguenti al licenziamento illegittimo hanno natura risarcitoria, collegata ad un atto illecito di licenziamento, con conseguente personalizzazione che preclude quantificazioni automatiche ;
- la materia dei licenziamenti individuali, in relazione agli artt. 4 e 35 Cost., è regolata sulla base del principio della necessaria giustificazione del recesso , qualificandosi il diritto al lavoro come diritto fondamentale che necessita di specifiche tutele . La necessaria giustificazione del licenziamento deriva anche dall’art. 24 della Carta Sociale Europea (in relazione all’art. 117 Cost. ), che prevede per gli Stati aderenti (tra cui l’Italia) l’obbligo di riconoscere il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo ad un congruo indennizzo o ad altra adeguata riparazione.
- La disciplina dei licenziamenti individuali non è regolata da alcuna direttiva dell’Unione e pertanto non vi sono in merito specifici obblighi per gli stati membri in attuazione dello stesso diritto dell’Unione. Conseguentemente l’art. 30 della CDFUE non può essere invocato quale parametro interposto nella decisione di questioni di Costituzionalità relative ai licenziamenti individuali .
- Per la Corte è condivisibile l’orientamento della Corte di Giustizia UE che nega che la disciplina della Direttiva 98/59/CE possa essere invocata in un giudizio relativo alla violazione dei criteri di scelta, in quanto la normativa dell’Unione non disciplina questo specifico profilo .
- Il solo fatto che una disciplina legislativa nazionale ricada in un settore nel quale l’Unione è competente ai sensi dell’art. 153, paragrafo 2, lettera d, del TFUE, non è sufficiente a far rientrare la disciplina nell’ambito di quella regolata dall’Unione, fino a quando l’Unione stessa non abbia esercitato in concreto la competenza ;
- Non contrasta di per sé con il principio di uguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido motivo di diversificazione delle situazioni giuridiche . Spetta alla discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme .
- L’adeguatezza e dissuasività nella misura del risarcimento devono essere valutate dal legislatore anche per le imprese minori, che dovrebbero essere individuate sulla base di criteri ulteriori rispetto a quello relativo al numero degli occupati e la forbice tra minimo e massimo, anche nelle imprese minori, dovrebbe consentire una adeguata personalizzazione nella liquidazione del danno con uno scarto che non sia troppo esiguo.
Spetta tuttavia al legislatore nell’ambito della sua discrezionalità adottare misure legislative che siano attuazione dei principi sopra indicati . Peraltro nella recente sentenza 44/2024 la Corte non richiama mai la sentenza “monito” 183/22, pur toccando più volte il tema dei requisiti dimensionali.
- La valutazione di adeguatezza e sufficiente dissuasività del sistema di contrasto ai licenziamenti illegittimi va effettuata nel complesso e non già frazionatamente, tenuto conto della gradualità e proporzionalità delle sanzioni che il legislatore, nell’esercizio non irragionevole della sua discrezionalità, ha previsto come differenziate. La valutazione va quindi centrata sulla “complessiva adeguatezza” della tutela sanzionatoria, considerata anche nel suo sviluppo storico .
- La regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale .
È necessario che vi sia un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto e il limite di 24 mensilità (oggi 36 nel Jobs Act) non contrasta con la nozione di adeguatezza e dissuasività .
- Le decisioni del Comitato Europeo dei Diritti Sociali, che ha viceversa affermato la regola dell’integrale riparazione del danno in relazione all’art. 24 della Carta Sociale Europea, non sono vincolanti, non avendo il Comitato natura giurisdizionale .
2. Queste sono le linee guida che la Corte si è data in generale sui licenziamenti, sia più specificamente in materia di sanzioni conseguenti a licenziamento illegittimo, e che dovrebbero guidarne l’operato anche sotto il profilo metodologico e sistematico ogni qualvolta fosse investita di una questione di costituzionalità in materia.
Per verificare se queste linee guida abbiano ricevuto coerente applicazione o viceversa siano entrate in una sorta di “corto circuito” è opportuno indicare sinteticamente quali criteri di giudizio vengono usualmente adottati dalla Corte.
È noto che il giudizio di ragionevolezza costituisce ormai una costante nell’attività interpretativa della Corte, e normalmente tale giudizio va a confluire con quello di proporzionalità, pur essendo i due concettualmente distinti .
La ragionevolezza ha assunto un ruolo centrale nella valutazione di costituzionalità in corrispondenza ad un ridimensionamento del primato della legge di origine giuspositivista, non più al centro assoluto del sistema, ma ridimensionata dalla esistenza di una Costituzione rigida e dei relativi principi, che valorizzano la tutela della dignità della persona in ogni sua manifestazione, e quindi anche sul lavoro, pur in presenza di un bilanciamento con il diritto di iniziativa economica.
Questa maggiore rilevanza di un criterio indeterminato, quale la ragionevolezza, dovrebbe comportare un approccio prudente nella sua utilizzazione, per evitare il rischio di sconfinamenti che incidano sulla divisione dei poteri.
Nel corso del tempo vi è stata una evoluzione nell’uso del criterio.
a)Il principio di ragionevolezza è stato originariamente collegato a quello di uguaglianza e, in questa originaria prospettiva si svolge “…attraverso il confronto della disciplina censurata con un termine di comparazione (tertium comparationis), e quindi la ragionevolezza è predicato di una qualificazione legislativa differenziatrice, che sarà considerata discriminatoria se dispone un trattamento diverso per situazioni analoghe o analogo per posizioni diverse; non arbitraria e quindi ragionevole in caso contrario” .
Questa modalità di applicazione permane. Essa presuppone una attenta valutazione sistematica nell’utilizzo del tertium comparationis. In questa prospettiva si è evidenziato come debba tenersi conto della ratio legis della norma che entra nel giudizio della Corte come tertium comparationis . Tenendo presente che il giudizio non può assumere a parametro norme derogatorie in quanto “il principio di eguaglianza non può essere invocato quando la disposizione di legge, da cui viene tratto il tertium comparationis, si riveli derogatoria rispetto alla regola desumibile dal sistema normativo, e perciò insuscettibile di estensione ad altri casi, pena l’aggravamento anziché l’eliminazione, del difetto di coerenza di esso” .
Il principio è temperato e può essere sovvertito ove si ritenga presente la stessa “ratio derogandi” . Tuttavia la valutazione sistematica, a fronte di una eventuale eccezionale estensione di una norma derogatoria, deve essere condotta con particolare rigore.
b)Da questa originaria impostazione il giudizio di ragionevolezza si è progressivamente emancipato attraverso una valutazione di “ragionevolezza intrinseca” che si traduce in una coerenza della disposizione rispetto ad altri atti appartenenti allo stesso complesso normativo, o comunque relativi allo stesso istituto, aprendo ad una prospettiva di controllo sistematico per linee interne.
Viene quindi valutata l’intima coerenza, l’adeguatezza strumentale, la proporzionalità e la capacità di attuare gli obiettivi che legittimamente si è posto il legislatore. Tuttavia la relativa valutazione dovrebbe avvenire con self restraint, valorizzando solo palesi incoerenze e inadeguatezza strumentali.
c)In questo percorso il giudizio di ragionevolezza si è spesso sovrapposto a quello di proporzionalità, che trova ampia diffusione anche in numerosi ordinamenti europei ed extraeuropei. Residua uno spazio per un principio di ragionevolezza che appare sganciato da quello di proporzionalità, ma è molto limitato.
Le modalità del controllo di proporzionalità si sono tradotte nell’elaborazione di vari test fatti proprie dalla Corte costituzionale tedesca e da quella canadese e poi utilizzate da molte altre corti, ed anche dalla Corte di Giustizia e nello stesso ordinamento eurounitario .
In particolare il controllo di proporzionalità si articola in tre fasi: idoneità, necessità e proporzionalità in senso stretto .
c.1) Controllo di idoneità.
Deve esservi un nesso di strumentalità ragionevole tra la legge e l’obiettivo (legittimo) che persegue.
In questi casi, normalmente, per verificare la sussistenza di questo nesso causale, le corti costituzionali ritengono che il test non sia superato solo di fronte ad una manifesta inidoneità degli strumenti prescelti dal legislatore. Andare oltre significherebbe invadere la sfera della discrezionalità legislativa .
c.2) Controllo di necessità.
Il secondo controllo, è definito controllo di necessità, in quanto la misura legislativa deve essere la più mite tra quelle astrattamente idonee a raggiungere l’obiettivo, e quindi quella che minimizza il sacrificio di diritti individuali contrapposti.
c.3) Controllo di proporzionalità in senso stretto.
Infine vi è un controllo di proporzionalità in senso stretto, che interviene ove non sia superato il test relativo al controllo di necessità. In questo caso si effettua un controllo di proporzionalità operando un bilanciamento di interessi relativamente al caso concreto.
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La formalizzazione di test di proporzionalità costituisce un tentativo di limitare la discrezionalità delle corti nell’operare il controllo di ragionevolezza, ancorandolo a passaggi formali che dovrebbero costituire in qualche modo un filtro rispetto al rischio di invasione della sfera legislativa.
Le corti, nel verificare il controllo di necessità sulla natura più mite possibile della disposizione legislativa rispetto ad altri interessi di rilevanza costituzionale, ove il test non fosse superato, dovrebbero anche indicare una possibile misura alternativa.
Come è stato rilevato , la Corte costituzionale fino al 2014 non ha adottato alcuna misura che potesse essere assimilata a test di proporzionalità.
A cominciare dal 2014 , e soprattutto negli ultimi anni, ha fatto un più costante richiamo al test di proporzionalità collegato alla necessità, pur non prevedendo una vera e propria formalizzazione dei test unitamente agli altri, in un ordine graduato.
È stato evidenziato in un recente convegno a Trento , che negli ultimi cinque anni 41 decisioni della Corte hanno avuto al centro il controllo di proporzionalità sotto il profilo del mezzo più mite, di cui molte solo nel 2024 ma, ripeto, senza una vera e propria formalizzazione di questi test. Non è stato elaborato ad oggi un modello argomentativo suddiviso in tre/quattro passaggi, cui fare riferimento per valutare la costituzionalità di una disposizione legislativa .
Al di fuori del giudizio di proporzionalità la ragionevolezza può manifestarsi residualmente sotto tre profili. In particolare: contraddizioni sistematiche della legge, ingiustizia manifesta (casi rarissimi, ad es. sentenza n. 264/94, che ha ritenuto costituzionalmente illegittima una norma che portava ad un trattamento pensionistico peggiorativo coloro che continuavano a versare volontariamente i contributi dopo quarant’anni di attività rispetto a coloro che non proseguivano la contribuzione volontaria) e oscurità assoluta della legge (sentenza 110/2023 relativa ad una legge in materia edilizia della Regione Molise).
La Corte costituzionale non ha quindi ad oggi elaborato una procedura argomentativa collegata ad una formalizzazione dei test di proporzionalità ma, di volta in volta, in alcune sentenze, ha utilizzato specifici profili dei test di proporzionalità, che lasciano presagire la direzione verso una maggiore formalizzazione.
Tuttavia le sentenze della Corte in materia di sanzioni conseguenti al licenziamento illegittimo sono forse tra quelle che hanno minori riferimenti ad argomentati test di proporzionalità.
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Se questo è il quadro di riferimento, può essere interessante verificare per un verso e in primo luogo se e in quale misura la Corte si è attenuta sistematicamente alle linee guida che si è data in materia di giudizio di costituzionalità su leggi aventi ad oggetto le sanzioni conseguenti a licenziamento illegittimo e, in secondo luogo, come ha usato i criteri di giudizio della ragionevolezza e proporzionalità, nonché quello sistematico collegato al tertium comparationis. Non cito l’ingiustizia manifesta e l’oscurità perché non vi sono certamente giudizi relativi a licenziamenti dove siano stati usati questi criteri.
3. Possono essere prese in considerazione le sentenze 125/2022 e 7, 128 e 129 del 2024.
Come noto, la sentenza 125/2022 ha natura manipolativa in quanto modifica il testo legislativo, eliminando la parola “manifesta” dalla previsione di legge sulla applicabilità della reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo per giustificato motivo oggettivo nel regime della legge Fornero.
In questa decisione, la Corte ritiene che l’espressione “manifesta insussistenza del fatto” violi il principio di uguaglianza e ragionevolezza e denoti una irragionevolezza intrinseca, nonostante le parole “manifesta” o “manifestamente” siano utilizzate in un numero notevole di testi normativi sia nazionali che dell’Unione Europea.
Il concetto di “irragionevolezza intrinseca” dovrebbe essere collegato ad una palese inidoneità del mezzo prescelto rispetto ai fini enunciati, e ciò è espressamente dichiarato dalla Corte nel punto 10.3 della decisione.
Lo scopo del legislatore era limitare le ipotesi di reintegrazione nel GMO rispetto al giustificato motivo soggettivo, e l’uso della parola “manifesta” sottolineava, come del resto affermato dalla giurisprudenza della Cassazione, un’evidenza probatoria della illegittimità della scelta imprenditoriale che non richiedeva ulteriori strumenti istruttori nel processo .
In questi casi il disvalore del comportamento datoriale è palese e non richiede il ricorso al principio dell’onere probatorio. Conseguentemente vi è un maggior disvalore nel comportamento datoriale, e quindi esattamente il contrario di quanto affermato al punto 10.1, dove si sostiene che il fatto sussiste o non sussiste e che la parola “manifesta” non ne può indicare una maggiore gravità.
Ciò in coerenza con l’obiettivo del legislatore di ridurre le ipotesi di reintegrazione.
L’argomento secondo cui il processo rischierebbe di avere un aggravio irragionevole e sproporzionato costituisce una petizione di principio che non trova riscontro nell’esperienza giudiziale. Non si riesce infine a rinvenire in cosa consista lo squilibrio tra mezzi e fini, di cui la Corte non dà spiegazione. Al contrario, l’ancoraggio della insussistenza ad una sua particolare evidenza (manifesta) era conforme allo scopo della legge e alla sua ratio obiettiva, che era quello di ridurre le ipotesi di reintegrazione nell’ambito del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
In questo caso la Corte non usa alcun test di proporzionalità e non valuta adeguatamente proprio sotto il profilo del rapporto mezzi fini il risultato finale del suo intervento manipolativo, che è esattamente l’opposto di quello voluto dal legislatore e dalla stessa lettera e ratio della legge.
La reintegrazione nel GMO, vista la giurisprudenza della Cassazione sulla nozione di fatto insussistente, è oggi (dopo la sentenza 125/2022) più probabile che nel giustificato motivo soggettivo. L’intervento della Corte restituisce una norma stravolta in violazione di ogni test di proporzionalità, specie del test di necessità, ove si ritenesse di applicare al giudizio della Corte, che crea una norma nuova, gli stessi test di proporzionalità applicabili all’originario testo legislativo.
Nella sentenza n. 7/2024, relativa ai licenziamenti collettivi, la Corte rielabora e conferma quelle linee guida in materia di apparato sanzionatorio che ho illustrato poc’anzi.
Di tali linee guida avrebbe dovuto tener conto nelle successive sentenze nn. 128 e 129.
Come noto, nella sentenza n. 128, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del D.Lgs 4/3/2015 n. 23 nella parte in cui non prevede che si applichi la reintegrazione nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata un giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore.
Si tratta di una sentenza manipolativa additiva che modifica, con le aggiunte indicate, il testo legislativo.
La Corte ritiene che l’esclusione assoluta della reintegrazione nel giustificato motivo oggettivo, e quindi l’esclusione di ogni rilevanza al profilo della non effettività (insussistenza) del fatto posto alla base del licenziamento, determini “un difetto di sistematicità che ridonda in una irragionevolezza della differenzazione rispetto alla parallela ipotesi del licenziamento per GC o GMS”. La ineffettività del fatto allegato a fondamento del licenziamento si tradurrebbe in una violazione del principio della necessaria causalità del recesso datoriale. Il licenziamento regredirebbe a “recesso senza causa”.
Il datore di lavoro potrebbe scegliere di qualificare come giustificato motivo oggettivo un fatto insussistente, anziché come licenziamento disciplinare.
Si creerebbe così “una falla nella disciplina complessiva di contrasto dei licenziamenti illegittimi, la quale deve avere, nel suo complesso, un sufficiente grado di dissuasività nelle ipotesi più gravi di licenziamento” e anche nel GMO la insussistenza del fatto materiale offenderebbe la dignità del lavoratore.
Con queste valutazioni la Corte opera la manipolazione della norma, precisando che dal fatto materiale deve essere esclusa la violazione dell’obbligo di ripescaggio.
Anche in questa sentenza non sembra che vi sia stata una coerente valutazione sotto il profilo sistematico che, secondo la Corte, sarebbe stato violato, ridondando in irragionevolezza.
In primo luogo, sotto un profilo sistematico più generale, la Corte stessa ha affermato in più occasioni che la reintegrazione non costituisce una scelta costituzionalmente obbligata del legislatore, ed il legislatore nella legge delega l’aveva espressamente esclusa nel GMO. Questo è il primo quadro sistematico di cui tener conto, cui consegue la discrezionalità del legislatore nell’operare la scelta tra due sanzioni entrambe adeguate e dissuasive.
Se trentasei mensilità (e anche le ventiquattro previste dalla Legge Fornero) costituiscono per la Corte costituzionale una misura adeguata e dissuasiva ai sensi dell’art. 24 della Carta Sociale Europea, non si può poi contraddittoriamente affermare che vi è un rischio di lesione del principio di dissuasività in presenza di sanzione indennitaria, anche perché, ove fosse accertata la insussistenza del fatto materiale posto alla base del GMO, sicuramente il risarcimento sarebbe stato disposto nella misura massima di trentasei mensilità, che è misura assolutamente adeguata e dissuasiva secondo la stessa Corte costituzionale.
Insomma, la costituzionalizzazione del fatto materiale sembra costituire un’invasione della sfera discrezionale del legislatore, in contraddizione sistematica con le stesse linee guida che la Corte costituzionale si è data.
La Corte sostiene poi che vi sarebbe assenza di causa dell’atto di recesso in ipotesi di insussistenza del fatto materiale ma, secondo la migliore dottrina, il giustificato motivo costituisce un presupposto esterno di legittimità dell’atto di recesso, la cui causa è sempre e comunque la cessazione del rapporto .
Ma, anche dal punto di vista della coerenza sistematica interna alla legge, in virtù del tertium comparationis, la conclusione della Corte suscita perplessità. Ciò in quanto la reintegrazione eccezionalmente prevista ove sia dimostrata direttamente in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato, ha certamente natura derogatoria in un contesto legislativo (relativo al Jobs Act) che vede l’indennità risarcitoria come regola.
La previsione eccezionale della reintegrazione nel caso menzionato, non può diventare parametro di riferimento per l’estensione della disciplina, in virtù del principio secondo cui il tertium comparationis non può essere dato da una disposizione derogatoria .
Al di là di questa prima considerazione, nell’effettuare la comparazione, non può neppure affermarsi che ci si trova di fronte alla stessa ratio derogatoria, che eccezionalmente dovrebbe essere estesa. Ciò in quanto vengono posti in relazione elementi eterogenei, dal momento che nel giustificato motivo soggettivo il fatto materiale è il fatto contestato nel GMS che deve avere per giurisprudenza costante una connotazione di illiceità, offensività o antigiuridicità tale da renderne apprezzabile la rilevanza disciplinare .
Viceversa l’evento che è posto a base del licenziamento per GMO ha natura diversa, non costituisce un comportamento che debba essere comunque connotato da illiceità e rilevanza disciplinare, ma è semplicemente la ragione posta a base del licenziamento (ad esempio soppressione di un posto di lavoro a seguito dell’acquisto di un macchinario). Sotto il profilo sistematico interno non vi è pertanto un collegamento tra le due tipologie di fatti.
Non solo, ma dentro al fatto materiale nel GMO dovrebbe collocarsi anche il nesso causale tra fatto e licenziamento.
Proprio il richiamo all’elemento causale, rischia di allargare a dismisura il campo di applicazione della reintegrazione, in contrasto con l’orizzonte restrittivo indicato dalla stessa Corte. Pertanto, partendo dalla comparazione tra elementi eterogenei e comunque espressione di una disciplina derogatoria, si giunge ad una valutazione di insussistenza del “fatto materiale” che può ricomprendere tutti gli elementi della fattispecie del giustificato motivo oggettivo, ad eccezione dell’obbligo di ripescaggio, con esito sproporzionato e con una estensione notevole, in contrasto con la ratio dell’intervento normativo e con l’intenzione del legislatore espressa in modo chiaro e vincolante nella legge delega.
Infine non possono esservi dubbi sul fatto che l’attribuzione ingiustificata di un comportamento gravemente doloso o colposo offenda la dignità personale. Viceversa, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte, non si può certo dire che vi sia lo stesso grado di lesione diretta della dignità personale, in relazione alla non veridicità del presupposto oggettivo del licenziamento, tanto più se comprensivo del nesso causale.
Nella decisione mancano quindi i presupposti della evidenza del difetto di sistematicità e della irragionevolezza, semplicemente affermata, senza alcun collegamento con principi di proporzionalità.
La domanda da porsi era “E’ ragionevole e proporzionata la scelta di un legislatore delegato che, in conformità alle indicazioni della Legge Delega, esclude la reintegrazione tra le sanzioni conseguenti alla illegittimità del licenziamento per GMO?”.
Sul piano sistematico più generale, una volta ritenuto che la reintegrazione non sia costituzionalmente imposta, la scelta del legislatore appartiene alla sua sfera di discrezionalità, a fronte di un sistema sanzionatorio indennitario adeguato e dissuasivo.
La sentenza n. 129/2024, è una sentenza interpretativa di rigetto, e come tale non vincolante, che tuttavia si basa su una ricostruzione definita come interpretazione adeguatrice della disposizione censurata.
La Corte ricomprende all’interno della nozione di fatto materiale insussistente l’ipotesi in cui il licenziamento sia stato irrogato a fronte di una disposizione della contrattazione collettiva che preveda per quello specifico comportamento una sanzione conservativa.
Si richiede solo che la previsione contrattuale non sia generica e graduata sotto il profilo della colpa, ma specifica, in contrasto con l’interpretazione ad oggi data dalla Corte di Cassazione che, viceversa, nell’ambito della legge Fornero ricomprende anche le ipotesi generali collegate a graduazione della colpa .
Anche in questo caso la Corte sovrappone integralmente la propria valutazione discrezionale alle scelte del legislatore, allargando la nozione di fatto materiale alla violazione di quanto previsto (in modo specifico) sul terreno sanzionatorio dalla contrattazione collettiva, con un collegamento che sembra un po’ forzato, all’art. 39 Cost..
Non vi è alcun richiamo alla presunta irragionevolezza dell’interpretazione opposta che considera il dato testuale (fatto materiale contestato la cui insussistenza sia direttamente dimostrata in giudizio). L’interpretazione estensiva proposta altera vistosamente quanto si può ricavare dalla stessa lettura della disposizione e in qualche modo tende a far “rivivere” una disposizione della legge Fornero non presa in considerazione nella disciplina delle Tutele Crescenti, né suscettibile di assumere imprescindibile rilevanza costituzionale.
4.In conclusione, sembra che la Corte, in materia di sanzioni conseguenti al licenziamento illegittimo, non effettui adeguati test di proporzionalità formalizzati, e utilizzi in modo forzato il criterio sistematico. Infine non considera gli effetti del suo intervento sulla norma modificata.
Il giudizio di proporzionalità, nell’ambito di quello di ragionevolezza, deve riguardare la norma, ma non mi sembrerebbe irragionevole sostenere che, nel momento di cui la Corte diventa legislatore perché manipola la norma, sottraendo o aggiungendo, debba, a sua volta, valutare la coerenza della disposizione modificata rispetto alla ratio e all’obiettivo del legislatore per stabilire se in questo modo sia rispettato sia il principio di coerenza, sia il principio di necessità, in base al quale il legislatore dovrebbe adottare la misura più mite che compromette meno altri interessi costituzionalmente rilevanti.
In sostanza la Corte dovrebbe sottoporre i propri interventi manipolativi e additivi agli stessi test di proporzionalità che dovrebbe adottare nell’ambito del giudizio di ragionevolezza sulla legge.
Con la sentenza n. 125/2022 la manipolazione ha prodotto un risultato opposto alla ratio e all’obiettivo della norma su cui è intervenuta, e pertanto l’intervento non può essere identificato come il più mite ma, al contrario, di grande impatto.
Ma anche nella sentenza n. 128/2024 lo sviluppo logico è lo stesso in quanto l’intervento manipolativo additivo trasforma notevolmente la norma, in contrasto con la ratio dell’intervento legislativo che, sin dalla Legge Delega, aveva escluso la reintegrazione come sanzione per il licenziamento per GMO illegittimo, con alterazione del quadro sistematico in cui si inseriva la disciplina legislativa.
Il fatto materiale non è stato preso in considerazione dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità perché più semplicemente la reintegrazione era sempre esclusa nel GMO. Non vi è alcun motivo per cui il fatto materiale diventi un parametro costituzionale nell’ambito di un giudizio sistemico.
Tanto più che, come già osservato, il fatto materiale nel GMS è comunque il fatto contestato (comprensivo di imputabilità e rilevanza disciplinare nel quadro dell’inadempimento) mentre nel GMO è l’effettività dell’evento in collegamento con il nesso causale, che costituiscono uno dei presupposti del licenziamento. Si tratta pertanto di eventi di diversa natura.
L’ineffettività del fatto materiale rileva sul piano del giudizio di legittimità del licenziamento, rendendo superflue probabilmente ulteriori prove, ma non c’è ragione per cui venga assimilato al diverso fatto materiale del GMS e diventi un parametro di giudizio di rilevanza costituzionale, quale tertium comparationis, tale da offrire indicazioni vincolanti in materia di sanzioni conseguenti a licenziamento illegittimo, estendendo la reintegrazione al GMO, in contrasto con la ratio legis e l’obiettivo della norma.
Una volta appurato che anche la sanzione risarcitoria è adeguata e dissuasiva, il legislatore ha facoltà di scelta nell’ambito della sua discrezionalità politica. Nella prospettiva della Corte, sembra che il legislatore abbia la sola facoltà di eliminare la reintegrazione, ma non di valutare discrezionalmente a quale tipologia di licenziamento applicarla, perché, sulla base del metro di giudizio adottato nella sentenza n. 128/2024, ogni differenziazione potrebbe essere sempre considerata ingiustificata alla luce di una valutazione fondata sul tertium comparationis.
L’assenza di un giudizio strutturato su ragionevolezza e proporzionalità e la disorganicità del giudizio sistematico, portano ad una sovraesposizione politica nel giudizio della Corte che, al di là della direzione che prende, non costituisce mai un risultato auspicabile.