testo integrale con note e bibliografia
1. Introduzione.
Negli ultimi anni il tema del lavoro povero è tornato purtroppo al centro del dibattito pubblico, in ragione del drammatico quadro sulla diffusione della povertà in Italia che ci viene consegnato sia dalla ricerca scientifica che dalle analisi statistiche. E pensare che nel quadro della Costituzione la povertà non era neppure contemplata, tanta era la fiducia nella capacità del progetto costituzionale di costruire una società in cui l’indigenza sarebbe stata sconfitta attraverso il lavoro, prescelto dall’art. 36 come via maestra per accedere ad un’esistenza libera e dignitosa. Purtroppo, la realtà ha smentito questo disegno e l’attuale condizione dei working poor conferisce sostanza ad un connubio, quello tra lavoro e povertà, che fino a pochi anni fa sembrava un ossimoro .
L’insufficienza del lavoro come strumento in grado di garantire di per sé un’esistenza libera e dignitosa è del resto da tempo illustrata dalla ricerca sociologica più sensibile ai problemi degli ultimi . Che lavoro e povertà possano non solo convivere ma si muovano spesso su binari paralleli è purtroppo certificato dai dati sulle retribuzioni in alcuni settori, dalla crisi abitativa dei grandi centri urbani e, in ultimo, dagli indici demografici, testimoni della cronica difficoltà in cui versa la popolazione giovanile.
Si scopre (o si riscopre, se pensiamo all’Inghilterra dell’ottocento e alle poor laws) il lavoro povero: se negli anni ’90 i giuslavoristi presero definitivamente atto dell’impossibilità di ragionare di lavoro senza tenere in considerazione il non lavoro, oggi il discorso sul lavoro include di necessità una riflessione sul lavoro povero.
V’è da chiedersi dunque cosa abbia determinato un declino così significativo del potere salvifico del lavoro come strumento di salvataggio dalla povertà; e un contributo utilissimo in questa direzione è senza dubbio offerto dal volume che in questa sede presentiamo. Per meglio comprendere la complessità del fenomeno è infatti importante fondare il ragionamento su ricerche serie e documentate, in grado di fare luce sui numerosi aspetti del problema .
2. Ai margini della questione salariale: povertà e intersezionalità.
La complessità del tema è data anzitutto dalla dimensione multifattoriale del lavoro povero. Nonostante la questione sia stata affrontata, sul piano giuridico, essenzialmente con riferimento al dato economico-salariale, il lavoro povero affonda le sue radici in una molteplicità di cause, tra le quali il dato salariale è in grado di spiegare solo una parte del problema. Il che impone di affrontare la questione lavoro povero uscendo dallo schema, che risulta a questo punto asfittico, del dibattito sul salario minimo legale.
Si pensi, ad esempio, all’importanza che riveste, in termini di lavoro povero, la dimensione temporale del lavoro, a partire dalla questione della sua intensità. È ormai ampiamente certificato che lavori discontinui o a tempo ridotto possono generare lavoro povero. Il che produce, tra l’altro un impatto differenziato sul piano del genere, vista la diffusione del lavoro a tempo parziale tra la popolazione lavorativa femminile.
La riflessione sul lavoro discontinuo chiama in causa, poi, il tema della precarietà, che ha raggiunto dimensioni tali da incidere complessivamente anche sulle dinamiche salariali. La questione del lavoro precario incrocia, ancora una volta, il tema generazionale, data la diffusione dei lavori flessibili tra i lavoratori giovani, con tutto ciò che questo comporta sul piano degli effetti sociali e su quello delle dinamiche demografiche .
Utilizzare le lenti dell’intersezionalità, che consentono di cogliere i diversi aspetti delle identità individuali nella misurazione della condizione di svantaggio, è necessario se si vuole ragionare in modo consapevole sul lavoro povero: la povertà nel lavoro si radica più facilmente quando si incrociano i diversi fattori della diseguaglianza (genere, età, nazionalità, collocazione territoriale).
La variabile territoriale, ad esempio, è degna di grande attenzione perché coinvolge questioni più ampie legate alla tutela della persona e alla dimensione dell’abitare. Il tema è stato sollevato anche di recente per mettere in discussione la fissazione di livelli salariali uniformi a livello nazionale, rievocando questioni che sembravano da tempo archiviate, come la possibilità di concepire forme di “gabbie salariali”.
In realtà, il tema andrebbe affrontato con un approccio più approfondito, ovvero ripensando lo stesso concetto di “paniere” alla base delle misurazioni ISTAT. Attualmente il paniere misura il costo dei beni, ma non misura il costo dell’assenza dei servizi, dal che deriva una mappatura del costo della vita estremamente semplificata e semplificante. Invero, l’idea di misurare il costo della vita sulla base di un paniere non misura l’assenza delle libertà costituzionali.
Gli esempi in materia abbondano, e vanno dall’offerta dei servizi sanitari, dei quali alcuni territori sono carenti tanto da costringere i cittadini a rivolgersi a circuiti privati oppure, in altri casi, a intraprendere una vera e propria “migrazione sanitaria”. La carenza di servizi sanitari risulta poi aggravata quando è in gioco l’assistenza alle persone anziane non autosufficienti, ancora in attesa di una profonda riorganizzazione nonostante l’intervento della l. n. 33/2023 (c.d. legge anziani)
Ma per tornare su un tema che produce ancora una volta un impatto differenziato per genere, dato che è in grado di condizionare il tasso di occupazione femminile, i divari territoriali incidono sulla dimensione della povertà anche in base alla diffusione dei servizi per l’infanzia. L’offerta di asili nido costituisce come è noto un fattore di promozione del lavoro delle donne.
A tutto ciò si aggiunge la variabile, da esaminare a parte, della povertà del lavoro al di fuori della subordinazione .
3. Al centro della questione salariale: lavoro povero e impresa.
Misurarsi con i volti del lavoro povero richiede dunque di tenere in considerazione molteplici fattori, oltre allo schema economico-salariale. Va poi osservato che, anche all’interno del tema classico del salario, l’incidenza di quest’ultimo sul lavoro povero è la risultante di variabili complesse .
Le caratteristiche dell’impresa ne costituiscono, anzitutto, un elemento. Le imprese e le loro caratteristiche incidono infatti sulle dinamiche salariali alla luce di diversi profili.
Il primo e più semplice è riferito alle dimensioni dell’impresa. È infatti noto che la piccola impresa si colloca di frequente fuori dal sistema contrattuale, oltre a risultare in diversi casi più attaccabile da parte dell’economia sommersa.
Il secondo attiene al settore di riferimento. È ormai un dato condiviso che, nella strutturazione della nostra contrattazione collettiva per ramo d’industria, i livelli retributivi fluttuano assai diversamente nell’ambito dei diversi settori produttivi, con una maggiore esposizione al rischio di lavoro povero in alcuni ambiti. Si tratta soprattutto di settori che operano nella sfera dei servizi, quali i servizi alle imprese, la logistica, l’ambito della cura (rivolta sia alla famiglia che ai servizi socio-sanitari), il turismo e le diverse attività correlate (ristorazione, intermediazione, hotellerie), l’agricoltura e l’industria della trasformazione alimentare.
Infine, da sempre la posizione dell’impresa all’interno della filiera produttiva è in grado di incidere sulle dinamiche salariali, secondo uno schema che non è stato scalfito nemmeno dalla regola, abrogata a partire dal 2003, della parità di trattamento retributivo tra lavoratori che prestano la propria attività nell’ambito di catene di appalti. Non è un caso, infatti, che tra le azioni di contrasto al lavoro povero di recente proposizione vi sia anche la proposta di ripristinare il principio di parità di trattamento del vecchio art. 3, l. n. 1369/1960 , e che si stiano sviluppando, sul piano della contrattazione collettiva, strategie sindacali di ricomposizione della filiera .
Ma parlare di posizione dell’impresa all’interno della filiera produttiva sarebbe incompleto senza menzionare le catene del valore e le relative dinamiche geopolitiche che il tema richiama a livello internazionale. Nel quadro della legislazione europea, è ormai chiaro che le catene globali del valore portano con sé un problema della sostenibilità sociale dell’intero sistema di produzione di beni e servizi su scala mondiale .
4. Le tecniche di contrasto al lavoro povero e la loro frammentazione.
In questo scenario sfaccettato, sono molteplici, come è logico che sia, anche le tecniche di contrasto.
Il primo versante è quello della giurisprudenza, dove si è imposta una supplenza che ha visto protagonista la giurisprudenza di legittimità . Ora, al di là dello scalpore suscitato da questi interventi la novità dirompente dell’intervento della giurisprudenza è rappresentata non tanto dall’esercizio di una funzione di supplenza a cui il diritto del lavoro è da sempre abituato, quanto dai suoi effetti: l’intervento della Corte di cassazione sembra avere messo la parola fine all’autorità indiscussa del contratto collettivo come determinante del salario .
Il dato qui più significativo riguarda non tanto la questione, ormai classica e che forse si potrebbe risolvere con un maggiore ordine nella determinazione della rappresentatività, della proliferazione dei contratti collettivi e dell’aggressione dei contratti pirata, quanto il crollo – sul piano della tenuta – della contrattazione confederale: in sintesi, bisogna prendere atto che esiste un mercato della contrattazione dove il lavoro povero genera lavoro povero .
Va poi osservato che invocare, o affidarsi, all’intervento giurisprudenziale non scioglie il dilemma del lavoro povero, fino a che non vengono definiti criteri e indici che dovrebbero guidare l’intervento suppletivo giudiziale. In altre parole, il tema non è racchiuso nel soggetto, quanto nel metodo di determinazione del lavoro dignitoso. In questa direzione si possono segnalare alcune sperimentazioni, che mirano a definire un indice del lavoro dignitoso ricostruito attraverso una combinazione dei dati contrattuali, statistici, sociali e territoriali.
La moltiplicazione dei soggetti (che si verifica affiancando alla contrattazione collettiva l’attività giurisprudenziale) non fa che complicare uno scenario già bisognoso di semplificazione. Non è un caso, infatti, che alla base del consenso che la proposta di un salario minimo legale ha raccolto presso studiosi delle scienze economiche vi sia proprio il pregio della semplicità: per quanto tutta orientata al risultato, la strada del salario minimo legale offre margini di maggiore certezza a imprese e lavoratori .
Certo il valore semplificante del salario minimo legale presuppone un livellamento e un’omologazione delle scelte economiche su scala nazionale, con tutti i difetti che ciò comporta rispetto alla possibilità di differenziare e tenere conto del contesto. Va in direzione opposta, ad esempio, l’attivismo di alcuni enti locali dove si sta introducendo l’ipotesi di un salario minimo di tipo territoriale.
Infine, vi è l’azione di contrasto più classica e verso la quale si è diretta di recente l’attività del CNEL, ovvero quella che si basa sul rafforzamento e la ristrutturazione del sistema di contrattazione collettiva . Certo questo tipo di azione ha il pregio di non sconvolgere dalle fondamenta un sistema che ha funzionato per oltre mezzo secolo come struttura portante non solo della questione salariale in Italia, ma anche come modello di interazione tra forze economiche e sociali. Il ruolo svolto dai sindacati italiani nella determinazione dei salari ne ha senza dubbio accresciuto forza, credibilità e capacità di negoziazione al livello politico.
5. Gli snodi irrisolti della questione salariale italiana.
Restano tuttavia sullo sfondo molte questioni, che è possibile qui solo menzionare. Un cenno ad esse è tuttavia necessario, perché si tratta degli snodi irrisolti della questione salariale in Italia.
La prima attiene al tema della produttività, vero mantra della questione salariale italiana. Se è vero che molte delle responsabilità per la stagnazione dei salari italiani sono attribuite alla scarsa produttività della nostra economia, è altrettanto vero che il lavoro povero inibisce la produttività. Il circuito è dunque vizioso e non si può invocare un elemento (la produttività) senza agire sull’altro (il lavoro povero).
La seconda questione di rilievo è quella della sofferenza dei salari medi in Italia. È un dato certificato a livello europeo il blocco dei salari italiani degli ultimi trent’anni, laddove i salari medi sono cresciuti in tutta Europa. È possibile affrontare la questione salariale guardando solo al salario minimo senza riflettere sul salario medio? È possibile che non vi sia alcun legame tra lavoro povero, lavoro dignitoso, e benessere della classe media?
Infine, la questione del lavoro povero non può non essere inquadrata anche nella sua dimensione macro, ovvero con riferimento agli effetti che essa produce sul sistema fiscale e previdenziale (è evidente che dal lavoro povero si ricava un gettito modesto), rilanciando a questo punto il tema in un quadro più ampio, dove diventa legittimo interrogarsi sulla tenuta di un sistema economico e sociale che ha progressivamente tradito il patto costituzionale su cui aveva edificato le sue fondamenta.