testo integrale con note e bibliografia
1. Nell’introduzione di questo intervento si scrive, conclusivamente, che la bellezza salverà il mondo.
Si, è vero che la bellezza salverà il mondo ma il Lavoro non sempre è bello né libero (basti pensare alla scritta Arbeit Macht Frei!?) ovvero alle perduranti esperienze di lavoro pressoché schiavistico.
E ancora, può dirsi che il Lavoro è l’obiettivo fondamentale di una società che, a sua volta, si regge sul Lavoro di alcuni, tanti, tutti? E ciò, nonostante forti venti in senso contrario nel senso della scomparsa del Lavoro?
Io penso che negli ultimi tempi, e ancor più dalle crisi finanziarie susseguitesi fino a quella del 2018 e arrivando alla crisi sanitaria del 2020, si sia perso di vista un aspetto fondamentale del Lavoro, che riporto con la maiuscola, perché tale lo ritengo nella vita familiare e sociale di un individuo.
Si è cioè persa di vista la funzione originaria del Lavoro e del diritto del lavoro, che era quella di riequilibrare le posizioni di parti solo formalmente su un piano paritario, come recitava il codice civile del 1942 e come veniva smentito dall’art. 3, c. 2, della Costituzione: “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Ma si è quasi dimenticata un’altra conquista della cultura protestante-calvinista, dei movimenti socialisti di inizio secolo ma anche della configurazione del Lavoro secondo la dottrina sociale della Chiesa: ovvero il principio dell’etica (calvinista) del lavoro (Weber M., L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, trad. 1991), talora soffocata esattamente dal suo contrario, ciò che oggi viene evocato con i termini concorrenza, competitività e quasi guerriglia tra lavoratori o candidati lavoratori, sin dallo status di studenti, tutti inseriti in un caleidoscopio di tipologie contrattuali più o meno tutelanti; e che ha come possibile esito un’espressione oggi portata a vanto da molti, ignari del loro destino, il burn-out lavorativo.
Ovvero l’esaurimento, della persona umana e della sua dignità.
2. Ecco qui dunque affacciarsi, l’uno accanto all'altro, due “valori”: l’etica del lavoro e la dignità del lavoratore, quali antidoti - uno (l’etica) quasi paradossale rispetto alle origini, e l’altro emergente prepotentemente dalla forza espressa nella storia dalla Costituzione repubblicana e oggi vieppiù rilanciata dalla dottrina lavoristica - al capitalismo e alle sue forme sempre più agguerrite e deprecabili, in verità secondo alcuni già messe in conto dalle comunità cattoliche ante-riforma (Braudel F., Capitalismo e civiltà materiale, Einaudi, 1977).
3. Ma in fondo duro lavoro e frugalità erano considerati requisiti fondamentali per l’affermazione, e ciò soprattutto nella gestione della cosa pubblica. Solo coloro che rispondevano al cliché del self made man, dell’uomo o della donna orientati all’etica del lavoro, nel senso dinanzi detto, potevano assurgere ad esempio, come peraltro frequentemente avvenuto anche in tempi recenti.
4. Purtuttavia, il capitalismo preesisteva all’affermazione dell’etica del lavoro e, per altro verso, oggi l’etica torna a manifestarsi con particolare riferimento alle tecnologie emergenti, ed anche all’Intelligenza Artificiale (A.I.), sulla quale non solo il ceto giuslavoristico si muove in una specie di trance agonistica, alla ricerca di qualcosa (l’etica, la dignità, le persone del lavoratore in carne ed ossa, e sangue).
5. D’altro canto, come insegna un maestro della materia (Carinci F., Rivoluzione tecnologica e diritto del lavoro: il rapporto individuale, DLRI, 26, 203-241, 1985) l’era della Intelligenza Artificiale è solo l’ultimo passaggio di un continuo susseguirsi di rivoluzioni tecnologiche, laddove ognuna di esse trovava dei limiti proprio nell’etica e nella dignità della persona (del lavoratore).
Ed è per questo che sul punto sono entrate in gioco le artiglierie pesanti dell’Unione Europea, consapevoli della oramai avvenuta trasformazione della persona umana (uomo o donna che sia) in un sempiterno e rabbrividente homo oeconomicus: così si atteggiano alcune prese di posizione, anche normative sotto forma di Direttiva, con le quali l’Unione da un lato, as usual, “legittima” l’economia “digitale”; ma dall’altro cerca faticosamente di sterilizzarne in apicibus i possibili risvolti negativi.
Come oggi si dice, gli effetti collaterali, secondo un meccanismo di contrappeso tra ottimizzazione produttiva e responsabilità dei soggetti coinvolti, in specie sul lato imprenditoriale.
6. E qui il salto verso l’enfatizzazione, talora solo verbale e verbosa è facile, come conseguente risulta la narrazione per la quale “le risorse umane sono il bene più prezioso in ogni contesto lavorativo”.
Se questo è vero si comprende anche la seconda parte del nostro discorso, che sfocia nella individuazione della strumentazione a disposizione, oggi, delle imprese per rendere “desiderabile” il proprio contesto lavorativo e sempre più strategiche appunto le risorse umane rispetto agli obiettivi di ciascuna singola impresa (chiamala, se vuoi, welfare).
Non lo dicono solo i nostri amici responsabili del personale, come io li preferisco chiamare; lo dicono tutti, a destra e a sinistra, nella Chiesa e nelle chiese laiche dei partiti e dei movimenti, tutte solidali nell’individuare quale parola da criminalizzare quella che da ormai la fine degli anni ‘80 campeggia sulle bandiere dell’imprenditoria del nostro paese: flessibilità.