TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Il titolo di questa sessione – Longevity economy e invecchiamento nel contesto lavorativo – ci dice che se, da un lato, è ormai ampiamente diffusa una economia essenzialmente basata sulla dimensione dell’invecchiamento della popolazione, come tale proiettata a creare prodotti e servizi per quella che un tempo si definiva terza età (basta a tale proposito osservare la decisa virata in tal senso della pubblicità commerciale), da un altro lato, però, a differenza del passato, coloro a cui cui si rivolge questa economia, i suoi consumatori, non sono più esclusivamente soggetti ormai usciti dal mercato e dal mondo del lavoro, bensì anche persone ancora attive dal punto di vista lavorativo, anche in ragione del progressivo innalzamento dei limiti dell’età pensionabile.
In tal senso basterebbe ricordare che l’età da qualche tempo considerata dal nostro legislatore per la pensione di vecchiaia – i sessantasette anni – è superiore a quella che il recente d.lgs. 15 marzo 2024, n. 29, con cui è stata attuata la delega della l. 23 marzo 2023, n. 33 in materia di politiche in favore delle persone anziane, ha fissato per definire la persona anziana, che corrisponde invece ai sessantacinque anni.
Il che ci consente di affermare per tabulas che molti anziani sono ancora al lavoro, e ovviamente non mi riferisco tanto al lavoro autonomo, che, come è noto, non conosce limiti di età, quanto a quello subordinato. Anche se, forse, non sarebbe del tutto inopportuna una riflessione su certe situazioni in cui il lavoro autonomo viene prestato in tarda o in tardissima età, non tanto nel caso delle cosiddette professioni liberali, quanto con riferimento a certe attività manuali e spesso non poco pesanti o pericolose, non dovendosi mai dimenticare che la tutela della salute e della sicurezza almeno in astratto riguarda il lavoro sans phrase.

2. E, tuttavia, il fatto che, anche dal punto di vista formale, molti anziani siano ancora formalmente al lavoro non ci può far dimenticare che nei contesti lavorativi le persone invecchiano anche prima di aver raggiunto quei livelli anagrafici formali.
Il che impone di operare una seria riflessione su che cosa significhi invecchiare al lavoro, anche perché ci si dovrebbe interrogare su che cosa significhi oggi realmente quella distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro che un tempo ci appariva indiscutibile, evidenziando l’impossibilità per il lavoro di invadere gli spazi della vita privata delle persone che lavorano.
Una distinzione che se per un verso, specialmente in forza delle nuove modalità tecnologiche di lavoro, sta scricchiolando sempre più, con tutto ciò che ne consegue in ordine alla crescente promiscuità tra lavoro e vita, per altro verso non può tuttavia neppure celare il fatto che lavoro e vita non sono concetti necessariamente antitetici e contrapposti.
Al di là del fatto che, nonostante i tanti cambiamenti cui assistiamo, il lavoro resta il fondamentale strumento per soddisfare i bisogni primari e per la realizzazione del lavoratore come persona, il lavoro è esso stesso vita e, anzi, coincide con una parte spesso preponderante della vita delle persone.
Se si trascura che il lavoro è strumento di vita ed è esso stesso una parte importante della vita delle persone, si rischia, a ben guardare, di ampliare a dismisura quella rigida separazione tra lavoro e vita che ha caratterizzato il processo di industrializzazione del modello capitalistico, con il rischio di innescare una sorta di mercificazione di ritorno del lavoro, con i suoi terribili paradossi, a partire da quello per cui perdere la vita sul lavoro costituirebbe un inevitabile effetto collaterale della competizione economica.
Sarà banale dire che se il lavoro è strumento di vita ed è esso stesso vita, il luogo di lavoro, anche quello proprio dell’impresa, è un luogo di vita e non di morte. Ma se si guarda ciò che accade ogni giorno forse non è così banale. E ciò non solo perché non è minimamente ammissibile che quello di lavoro divenga luogo di morte, ma anche perché, in quanto luogo di vita, la vita delle persone che vi si svolge non può non essere una vita degna di questo nome, fondata – come vuole l’art. 41 Cost. – sul rispetto della loro salute, sicurezza, libertà e dignità.
Se, da un lato, oggi i luoghi, ma anche i momenti, della vita privata e intima delle persone si aprono al lavoro e quest’ultimo tende sempre più ad insinuarvisi con tutti i vantaggi, ma anche con tutti i rischi del caso, da un altro lato i tradizionali luoghi di lavoro devono divenire sempre più luoghi di vita vera delle persone che vi operano.
È questa la grande sfida del benessere organizzativo, vale a dire la capacità di un’organizzazione di promuovere e mantenere il più alto grado di benessere fisico, psicologico e sociale dei lavoratori in ogni tipo di occupazione. Quel benessere che corrisponde esattamente al concetto olistico di salute accolto nel d.lgs. n. 81 del 2008 quando definisce la salute come uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità .

3. Ed è evidente che la sfida del benessere organizzativo risulta tanto più importante nel momento in cui nell’organizzazione operano persone le cui capacità lavorative debbono confrontarsi con l’inesorabile declino indotto dallo scorrere del tempo. Non dovendosi peraltro trascurare come il problema dell’invecchiamento si rifletta non solo sul rapporto di lavoro e sui contesti di lavoro, ma anche sul mercato del lavoro, sol che si pensi alle drammatiche difficoltà di ricollocazione delle persone in età matura espulse dai cicli produttivi.
Sono persone, queste, che faticano spesso ad ottenere una nuova opportunità occupazionale non solo per la diffidenza delle imprese ad assumerle, ma anche per la loro difficoltà di sapersi adeguatamente calare in quella dimensione del moderno disoccupato effettivamente alla ricerca di lavoro che deve essere innanzitutto disponibile a proporsi secondo i nuovi cliché dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro.

4. Al di la di questo aspetto, che peraltro meriterebbe una seria riflessione, anche qui emergendo quegli ostacoli che impediscono l’effettiva uguaglianza che la Repubblica dovrebbe rimuovere ai sensi dell’art. 3, secondo comma, Cost., è poi evidente come nell’ambito dei contesti lavorativi l’invecchiamento debba essere considerato con un’attenzione del tutto particolare.
A dircelo con chiarezza è innanzitutto l’art. 28 del d.lgs. n. 81 del 2008 quando impone che, nell’ambito della valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori, il datore di lavoro consideri anche quegli elementi soggettivi, quelle condizioni personali, che, pur costituendo formalmente dei fattori di aggravamento dei rischi oggettivamente insiti nell’organizzazione del lavoro, lo stesso legislatore definisce formalmente come rischi, imponendone comunque la valutazione, siano essi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, quelli collegati allo stress lavoro-correlato, quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, nonché quelli connessi alle differenze di genere, alla provenienza da altri Paesi e, appunto, anche all’età.
E, non a caso, proprio agli albori dell’emergenza pandemica, la seconda versione del Protocollo anticontagio sottoscritto dalle parti sociali con il Governo, introducendo la sorveglianza sanitaria eccezionale per i cosiddetti soggetti fragili, vi aveva annoverato anche persone che tali fossero in ragione dell’età .
L’età, dunque, come fattore di aggravamento dei rischi e essa stessa rischio che, in quanto tale è riemersa più di recente nell’art. 5 del già ricordato d.lgs. n. 29 del 2024 dedicato alle misure per la promozione della salute e dell'invecchiamento attivo delle persone anziane da attuare nei luoghi di lavoro.
Una norma che, innanzitutto, prevede che, nei luoghi di lavoro, la promozione della salute, la cultura della prevenzione e l’invecchiamento sano e attivo della popolazione anziana sono garantiti dal datore di lavoro attraverso gli obblighi di valutazione dei fattori di rischio e di sorveglianza sanitaria previsti dal decreto legislativo n. 81 del 2008, tenendo conto del modello sulla promozione della salute nei luoghi di lavoro - Workplace Health Promotion (WHP) raccomandato dall'Organizzazione mondiale della sanità e delle indicazioni contenute nel Piano Nazionale di Prevenzione, che prevedono l’attivazione di processi e interventi tesi a rendere il luogo di lavoro un ambiente adatto anche alle persone anziane attraverso idonei cambiamenti organizzativi.
E a tale proposito occorrerebbe chiedersi se, ed eventualmente fino a che punto, questi idonei cambiamenti organizzativi siano da considerare alla stregua degli accomodamenti ragionevoli che sono imposti nel caso delle persone con disabilità.
Per altro verso, poi, la norma prevede che il datore di lavoro adotti ogni iniziativa diretta a favorire le persone anziane nello svolgimento, anche parziale, della prestazione lavorativa in modalità agile, nel rispetto della disciplina prevista dai contratti collettivi nazionali di settore vigenti.
E qui riaffiora l’eco dell’art. 10 del Protocollo sul lavoro agile del 7 dicembre 2021 quando stabilisce che, fatto salvo quanto previsto dalla legge, le Parti sociali si impegnano a facilitare l’accesso al lavoro agile per i lavoratori in condizioni di fragilità e di disabilità, anche nella prospettiva di utilizzare tale modalità di lavoro come misura di accomodamento ragionevole.

5. Un ultimo spunto di possibile riflessione riguarda quella distinzione tra “prevenzione obbligatoria” e “prevenzione facoltativa” di cui parla Marco Marazza in un bell’articolo pubblicato sulla rivista che dirigo , con il quale ha inaugurato un dibattito-confronto con autorevoli esponenti della medicina del lavoro.
Un articolo nel quale emerge un tema che, a dire il vero, costituisce un classico totem della materia, vale a dire quello della salute sul lavoro come aspetto della salute del cittadino. Il che, non possiamo dimenticarcelo, è quanto per la verità la riforma sanitaria del 1978 (l. n. 833) aveva lucidamente affermato a chiare lettere prima che un improvvido referendum sterilizzasse in parte la portata di tale assunto.
Si tratta di un tema esplorato ancora solo in parte, con riferimento ad alcuni aspetti del welfare aziendale, e che, come scrive Marazza, riguarda il se e il come l’azienda possa effettivamente atteggiarsi come un attivo strumento di sostegno alla salute delle persone che vi operano e contemporaneamente anche della salute pubblica, mediante l’introduzione, in un assetto organizzativo orientato alla piena integrazione di tutte le iniziative effettivamente erogate a presidio della salute della persona, di specifiche misure di prevenzione facoltativa direttamente organizzate dal datore di lavoro .
Un tema, è ovvio, strettamente connesso al rilievo dell’età delle persone che lavorano.

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