TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. I rischi psico-sociali ed organizzativi nelle strategie aziendali, tra il legal framework e le iniziative sindacali
Non è più infrequente che le riflessioni dei giuristi del lavoro si incentrino sulla crescente diffusione di rischi correlati alla «interazione tra contenuto del lavoro, gestione, organizzazione del lavoro, condizioni ambientali e organizzative e tra competenze ed esigenze dei lavoratori» (così ILO, Psychosocial factors at work. Recognition and control. Report of the joint ILO/WHO Committee on Occupational Health, 1986, n. 56).
Condizioni di stress, carichi di lavoro eccessivi, iper-connettività, isolamento dal resto dei colleghi sono soltanto alcune delle circostanze che stimolano un confronto inevitabile per lo sviluppo di organizzazioni del lavoro rispettose della salute e sicurezza del lavoratore quant’anche della sua dignità e libertà . Non a caso v’è crescente accostamento tra tali temi ed il concreto decollo di ambienti di lavoro sostenibili e competitivi .
L’attenzione nei confronti dei rischi di matrice psicosociale ed organizzativa ha raggiunto il diritto del lavoro ed i suoi interlocutori soprattutto agli inizi dello scorso decennio : l’Accademia si è mostrata interessata ad analizzare i nessi tra un impianto normativo incentrato sul fattore organizzativo e su una nozione evoluta di salute globale , non più integrata dalla (mera) assenza di infortuni e malattie professionali ma associata allo stato di pieno benessere fisico, psichico e sociale . Sotto quest’ultimo profilo, sono state avviate indagini sui confini della responsabilità datoriale rispetto all’esposizione allo stress lavoro correlato , poi estese ad un più ampio spettro di rischi connessi alla organizzazione del lavoro, da analizzare all’interno delle procedure valutative del rischio ex art. 28, d.lgs. n. 81/2008 ed in attuazione della reticolare normativa dedicata alla materia della prevenzione dei rischi. Tra le aggiunte ad un quadro regolativo in continuo divenire (da ultimo v. le modifiche apportate dalla l. n. 203/2024) merita specifica menzione l’art. 286 quater, d.lgs. n. 81/2008: l’attuale disciplina di cui al titolo X-bis, recante la protezione da ferite da taglio e da punta nel settore ospedaliero e sanitario, esige che il datore garantisca la salute e la sicurezza dei lavoratori in tutti gli aspetti connessi alla loro vita professionale, inclusi i fattori psicosociali e di organizzazione del lavoro.
Malgrado un legal framework che si sensibilizza progressivamente nei confronti della rilevanza che i predetti fattori possono determinare con riguardo alla protezione della salute e sicurezza, il faticoso governo di tali tipologie di rischio nell’ambito delle strategie aziendali appare ancora piuttosto evidente: debole rimane in buona parte l’attuazione del precetto legislativo, forse anche per la sua natura sfuggente e dai contorni geneticamente indotti a modificarsi continuamente.
A poco o nulla è valsa la definizione di specifici strumenti operativi come quello approvato dalla Commissione consultiva permanente in relazione allo stress lavoro correlato ed ancor prima l’atteggiamento pioneristico proprio dei sindacati europei, sovente presentati – dalle comunicazioni della Commissione europea - come attori privilegiati per affrontare i temi connessi alla prevenzione dei rischi professionali. L’agire sinergico delle rappresentanze del mondo imprenditoriale e dei lavoratori ha favorito negoziati e la sottoscrizione di accordi collettivi che, in più occasioni, hanno attribuito importanza alla gestione dei rischi psicosociali e organizzativi nell’ambiente di lavoro: l’Accordo sul telelavoro del 2002 si fa apprezzare per il riferimento esplicito al rischio di isolamento prodotto dallo svolgimento a distanza di una data prestazione lavorativa (donde il recepimento nell’art. 3, comma 10, d.lgs. n. 81/2008); altrettanto rilevanti risultano le intese raggiunte, qualche anno dopo, in tema di stress lavoro correlato (2004) nonché sulle molestie e violenze sul lavoro (2007); anche il più recente accordo quadro sulla digitalizzazione del lavoro si interessa all’individuazione di specifici strumenti di protezione, superando i tradizionali steccati qualificatori della disciplina di riferimento a favore di una più universalistica tutela della salute mentale (2020) .
Un cambio di passo pare tuttavia necessario, ancor più a fronte della specifica enfasi che l’UE ha mostrato in recenti provvedimenti: su tutti si segnalano la strategia in materia di salute e sicurezza del lavoro per il periodo 2021- 2027, il Regolamento Macchine al cui interno si fa espressa menzione delle tensioni fisiche e psichiche dell’operatore (cfr. all. 3, parte B, p. 1.1.6) nonché la proposta del Parlamento di adottare una iniziativa legislativa, in consultazione con le parti sociali, sui rischi psicosociali e sul benessere nei luoghi di lavoro (par. 48 della Risoluzione del 12 dicembre 2023 sulla salute mentale), partendo dall’assunto che la salute mentale configura un «diritto umano universale e che la sua promozione è un presupposto fondamentale per lo sviluppo personale, socioeconomico e della comunità» (considerando B) nonché un «requisito essenziale per una società inclusiva e funzionale» (considerando C).
Alla luce di tali sollecitazioni, risultano oramai inopportuni gli eccessi di retorica e le sterili clausole di stile che allontanano dallo sviluppo concreto di modelli di prevenzione tali da eliminare, o quanto meno ridurre, danni alla persona che offra energie lavorative all’altrui organizzazione.
La sfida da affrontare richiede di confrontarsi con la natura tipicamente aperta che connota il concetto di rischio psico-sociale, dunque con il campionario di situazioni a ciò riconducibili sulla base di un approccio multidisciplinare coinvolgente le discipline medico-scientifiche e gli studi sull’organizzazione del lavoro nonché improntato ad una «valutazione pluridimensionale dei rischi, comprensiva non solo dei “tradizionali” ma anche di quelli “immateriali” o “trasversali”» .
Non si trascuri, d’altro canto, la crucialità della sfida nel contesto dell’impresa attraversata dalla innovazione tecnologica e digitale . Agli studi sugli effetti della smart manifacturing e del crowdworking si affianca, ad esempio, il crescente bisogno di analizzare le ricadute prodotte dal ricorso alla realtà immersiva ed al metaverso, soffermandosi in particolar modo sulla cybersickness (nausea da realtà virtuale) e sulla vasta area di «disturbi fisici, psicologici, comportamentali e relazionali direttamente o indirettamente connessi all’(ab)uso della tecnologia» .
In sostanza, un parterre tutt’altro che facilmente identificabile a priori e da tenere costantemente monitorato a partire dai suoi contenuti identitari se si vuole preservare il raggiungimento degli obiettivi cari al diritto del lavoro.

2. Le specificità del bore-out: alla ricerca delle differenze dal burn out
Nel contesto appena delineato e dai confini non facilmente identificabili, pare sempre più necessario interessarsi al rischio da bore - out, ovvero un rischio sovente confuso – a livello lessicale - con il burn out, ma dal quale è bene prendere subito le distanze per chiarirne la specifica fisonomia .
La sua autonoma profilazione dal burn -out deriva dal differente atteggiarsi dei fattori di contenuto del lavoro, pur riguardando in entrambi i casi il contesto di progettazione, organizzazione e gestione del lavoro oltre che ricadute in nessun caso trascurabili. Al secondo nucleo tematico sono da ricollegare gli effetti derivanti da un sovraccarico di lavoro generato dalla dilatazione della dimensione spazio-temporale della prestazione professionale: «una condizione di disagio lavorativo che origina dal troppo stress da lavoro, dallo scarso equilibrio tra lavoro e vita privata e da una sorta di annebbiamento causato dal superlavoro, … da eccesso di coinvolgimento emotivo» .
Mentre la sindrome da bore - out discende da tre elementi essenziali: «noia, mancanza di sfida, mancanza di interesse» . Più precisamente, essa origina da situazioni di noia cronica, dovuta ad opacità organizzative favorite dall’assenza o carenza di interazione con i colleghi, dalla frustrazione causata dalla limitata partecipazione ai processi decisionali e ad attività in staff, dallo scarso o nullo riconoscimento del valore e del contributo offerto dall’individuo al raggiungimento degli obiettivi aziendali ed ai colleghi, dalla perdita di interesse per il lavoro in sé. Opacità che possono diventare di particolare offensività ove celino fenomeni di vessazione e aggressione che lambiscano la materia delle molestie e violenza, oltre al profilo della tutela della professionalità ex art. 2103 c.c. Lo svuotamento delle mansioni può giungere al termine di un più latente e sottile processo di svuotamento dei compiti, che in casi limite è suscettibile di integrare il mobbing o quanto meno lo straining .
In sostanza, viene in rilievo una forma di stress generato non già dal bisogno di filtrare, gestire ed organizzare senza interruzione il materiale veicolato anche attraverso la rete e tramite i rapporti interpersonali che s’instaurano tramite l’impresa. Qui viene piuttosto in gioco una disfunzione organizzativa alimentata dall’assenza di stimoli e che origina dalla difficoltà di comprendere il proprio ruolo all’interno dell’organizzazione.
Il primo approfondimento in materia identifica il bore - out con «una anomalia mentale, una sindrome che conduce allo sfinimento per noia cronica, dovuta alla mancanza di lavoro, di stimoli, alla perdita di autostima, circostanze queste letali per la salute del lavoratore al parti dello stress e che potrebbero essere dannose per le imprese incentivando l’assenteismo, il presenteismo o un elevato turn over del personale» .
La prospettiva d’indagine aperta dal bore - out rimane, tuttavia, poco esplorata nell’attuale contesto lavorativo ad alto contenuto tecnologico, a nulla rilevando che sia stato indicato come «il polo opposto» dell’engagement cui da tempo guardano con interesse le organizzazioni produttive. Buona parte delle analisi si concentra sull’eccesso di carico di lavoro dovuto al crescente impiego di strumentazioni digitali ai fini dello svolgimento della prestazione lavorativa. Come da tempo segnalato da Eurofound, l’ampliamento delle sedi di lavoro e dei tempi di connessione alla rete Internet finisce per promuovere il lavoro anytime, anywhere, dunque il superlavoro e lo sviluppo di fenomeni come il workaholism. Qui, oltre a inevitabili problemi in termini di mancato corrispettivo per l’attività resa al di fuori dell’orario di servizio e d’invasione di spazi di vita privata, s’innestano criticità che investono l’ambito della protezione della salute e sicurezza per via d’una connettività permanente in grado di generare nocumento a beni fondamentali del lavoratore ed un atteggiamento compulsivo al lavoro che può subordinare l’autostima alle aspettative sul lato professionale.
Nelle analisi giuslavoristiche, la tecnologia si presenta talvolta amica e talaltra nemica , a quest’ultimo proposito mettendo in evidenza l’effetto di compromissione della effettività del diritto a riposo, per via di un coinvolgimento del lavoratore costruito sulla disponibilità ad andare incontro ai bisogni dell’azienda, talvolta tramite dosi di entusiasmo e dedizione che si spingono ben oltre il regime di ordinaria obbedienza e diligenza. Ciò pare spiegarsi con la necessità di garantirsi un posto di lavoro in un contesto di scarse offerte occupazionali, specie per lavoratori rientranti nelle categorie notoriamente a maggior rischio d’esclusione dai circuiti professionali: non stupisce più di tanto che, come scritto da W. Daubler, «alle 22 di sera venga richiesto al lavoratore di preparare una presentazione power-point per una riunione che si terrà il giorno successivo alle ore 9. La lealtà ai superiori è più forte di quella alla legge» .
Tutto quanto sin qui descritto pare, almeno, all’apparenza, estraneo al rischio da bore - out. Ma è proprio così? È corretto dire che il lavoro stanca soltanto quando è troppo?

3. Segue. La sua rilevanza nel periodo pandemico ed oltre
Molteplici sono state, sono e saranno le connessioni con il diffondersi del lavoro svolto da remoto e tramite l’impiego di tecnologie digitali. Il fenomeno è destinato a incrementarsi per via d’una crescente sensibilità alla destrutturazione del processo produttivo, in specie prodotto dalla evanescenza del luogo di lavoro e dalla frantumazione di ciò che tradizionalmente ha caratterizzato la cifra identificativa del diritto del lavoro.
È sin troppo noto il generale successo guadagnato dallo smart working o presunto tale (quanto meno nel lessico adoperato dalla decretazione d’urgenza approvata nel periodo pandemico) nel periodo 2020- 2022, in attuazione di misure restrittive che a livello pubblico ne hanno imposto l’utilizzo, limitandosi invece a raccomandarlo nel settore delle imprese private.
In un contesto segnato da «un percorso irreversibile di trasformazione organizzativa e lavorativa» , l’individualizzazione del lavoro da remoto ha favorito la condizione di solitudine della persona, disincentivando la partecipazione alla comunità aziendale ed indebolendo nel contempo l’effettività circa l’esercizio di diritti collettivi e sindacali. Non meno significative risultano le evidenze emerse in relazione alle abitudini dannose per la salute quanto alla diffusione di molestie e violenze, favorite da infrastrutture tecnologiche in grado di rafforzare i cc.dd. leoni da tastiera . Il che pare in stretta correlazione e confermativo di quanto presagito, con una certa dose di preoccupazione, dal programma pluriennale della Comunità europea per il periodo 1978-1982: già allora la Commissione europea poneva l’accento sul rapporto tra innovazioni informatiche e problematiche rilevanti sul versante della tutela della salute e sicurezza del lavoro, in particolare considerando i rischi psico-sociali.
Le costrittività indotte dall’emergenza hanno semmai contribuito ad accentuare questa deriva» , nella specie creando anche l’habitat ideale per l’emergere e lo sviluppo del bore - out e dunque allontanando nei fatti dalla costruzione di realtà informate a condizioni mentali di soddisfazione e motivazione, di identificazione ai valori aziendali. Sotto accusa è finita in particolare l’organizzazione di riunioni su applicativi come Zoom, Teams e Meet, valutandosene negativamente il ridotto coinvolgimento emotivo e relazionale della persona che vi partecipa . In buona sostanza, un collegamento duraturo e privo di interazioni e di coinvolgimento proattivo del lavoratore può essere terreno fertile per il formarsi di futura insoddisfazione professionale generata da scarse richieste provenienti dall’ambiente lavorativo e, dunque, da demotivazione.

4. Dalla tossicità della tecnologia alla sua disintossicazione: quali ricette possibili?
Che le strategie di prevenzione debbano rivolgere attenzione al bore -out lo suggeriscono anche altre preoccupazioni: non è da sottovalutare lo stretto legame con l’insorgenza nel medio-lungo periodo di malattie professionali, sovente ad origine multifattoriale e con caratteristiche tali da complicare l’accertamento del nesso di causa con il lavoro nonché idonee a introdurre nuovi “stress test” al diktat della sostenibilità economica imposto alla spesa previdenziale.
Ma v’è di più. Investire in prevenzione, oltre a produrre valori concretamente misurabili sul piano della competitività aziendale e della sostenibilità della spesa pubblica, può risultare utile allo sviluppo di strategie informate alla crescita della qualità della performance individuale: un più adeguato rilievo alla soddisfazione professionale, al clima aziendale ed alla stessa motivazione di chi partecipa con il proprio facere alla realizzazione dell’obiettivo fissato dal management paiono argomenti da non sottovalutare specie per i responsabili delle imprese e delle Pubbliche Amministrazioni.
Se diverse sono le facilitazioni ed i vantaggi offerti dalla digitalizzazione dei processi produttivi e dell’organizzazione del lavoro, altrettante risultano le problematiche che si annidano nelle relazioni professionali che si avvalgono delle tecnologie, soprattutto relativamente alla sfera emotiva e relazionale del contraente debole.
Non pare esservi dubbio sul ruolo di primaria importanza che può assumere il Medico competente, nel corso dell’attività che gli è propria ai sensi del d.lgs. n. 81/2008. Nessuno meglio di tale professionista può, in ragione delle proprie competenze, individuare il bore-out e, in via preventiva, valutare gli eventi sentinella che ne preludono lo sviluppo all’interno dell’organizzazione del lavoro.
Né, d’altro canto, va trascurato il contributo del RLS, attraverso le attribuzioni che può/deve esercitare: ci si riferisce, tra le altre, all’attività di segnalazione, di iniziativa propria o da parte del soggetto esposto al rischio, così come alla promozione dell’elaborazione di misure prevenzionali ad hoc. Nessuno potrà sorprendersi se, anche in questa circostanza, saranno gli attori collettivi a traghettare rischi “tradizionalmente negletti” in una dimensione di maggiore consapevolezza. In un contesto di ripresa del dialogo sociale europeo di tipo autonomo, ampliare l’ambito soggettivo ed oggettivo di ragionamenti talvolta solo accennati durante la sottoscrizione del citato Accordo quadro sulla digitalizzazione potrebbe rappresentare l’ennesima dimostrazione d’avanguardia degli agenti collettivi nel campo della prevenzione dei rischi di matrice psicosociale ed organizzativa.
E soprattutto, il ruolo di raccordo del RLS può rivelarsi quanto mai cruciale nelle fasi progettuali e di programmazione della strategia prevenzionale, a partire dall’attività che la giurisprudenza suole identificare come il «passaggio fondamentale per la prevenzione degli infortuni e la tutela della salute dei lavoratori» (ex multis, Cass. Pen., sez. IV, 13 maggio 2016, 20056). Individuare, in sinergia con il principale garante della sicurezza, con il Servizio di prevenzione e protezione nonché, ove presente, con il Medico competente, le misure più adeguate alla prevenzione del rischio da bore-out costituisce l’atto primo della progettazione di ambienti di lavoro privi di costrittività organizzative e dunque, di contenziosi avviati da ricorsi individuali o collettivi che denuncino disturbi aventi la propria causa o quanto meno una concausa in specifiche disfunzioni dell’attività o dell’organizzazione del lavoro.
Resta del tutto evidente che la difficoltà principale risiede nell’individuazione di idonee misure preventive e protettive.
Mentre la tutela della disconnessione pare più adeguata alla gestione di fenomeni di superlavoro , arginare il rischio di esposizione al bore - out suggerisce di guardare altrove rispetto all’orizzonte considerato dalle istituzioni europee. A quest’ultimo proposito si fa apprezzare una proposta di direttiva in tema di disconnessione che «non soffre deroghe salvo circostanze eccezionali, quali la forza maggiore o altre emergenze, e a condizione che vengano motivate per iscritto dal datore di lavoro (art. 4)… coprendo tutti i periodi di non lavoro … e riconosciuta l’importanza di una consultazione delle parti sociali al livello adeguato» (così spec. 9-10) .
Qualche interessante chance potrebbe rivelare l’impiego del metaverso nella misura in cui possa consentire dinamiche sociali ed organizzative analoghe a quelle prodotte in ufficio così come un modello di gestione delle risorse umane tale da favorire un clima collaborativo e di pieno coinvolgimento del lavoratore . In particolare, il ricorso al metaverso potrebbe farsi apprezzare per il raggiungimento dell’obiettivo di includere soggetti più esposti alla marginalizzazione dai processi aziendali, a partire da un ripensamento delle modalità di svolgimento delle giornate in smart working. Su tutti, sia da segnalare la crescente vulnerabilità registrata con riguardo alla manodopera sempre più anziana in forza negli ambienti produttivi. Il legame tra il bore-out e l’avanzare dell’età pare terreno fertile per lo sviluppo di rischi di matrice psico-sociale, dunque per l’insorgere di trattamenti discriminatori rispetto ai quali il diritto della sicurezza del lavoro può fornire strumenti e meccanismi adeguati a prevenire situazioni suscettibili di pregiudicare la sfera psichica.
A ciò deve accompagnarsi una specifica riflessione intorno all’accostamento tra metaverso e accomodamento ragionevole . Non pare esservi dubbio circa il fatto che persone affette da disabilità siano più sensibili ai colpi del bore-out, anche per il protrarsi di stereotipi e pregiudizi che da sempre inquinano la materia, alterando nei fatti il processo di valutazione e gestione personalizzata che la legislazione impone in ragione delle specifiche esigenze della persona affetta da disabilità.
D’altro canto, anche le più sofisticate modificazioni infrastrutturali ed organizzative non potranno da sole traghettare verso la promozione del pieno benessere e contrastare in maniera efficace la formazione di disfunzioni organizzative come quelle che alimentano il rischio da bore-out.
Essenziale e altrettanto prioritaria rimane la organizzazione di adeguati ed efficaci percorsi formativi, coinvolgendo tutti gli attori del sistema aziendale della prevenzione: dal datore di lavoro al lavoratore, tutti sono chiamati ad acquisire informazioni e competenze utili alla corretta gestione di un clima aziendale rispettoso delle varie identità personali e dei diritti fondamentali di cui ciascuno è e deve essere portatore durante lo svolgimento di una attività professionale. Non v’è dubbio che la formazione in materia di salute e sicurezza possa migliorare la consapevolezza nei confronti di rischi nuovi ed emergenti ed offrire le più efficaci contromisure per prevenire lesioni e nocumento all’integrità psico-fisica del lavoratore.
L’obiettivo, per quanto ambizioso, può essere perseguito in maniera più agevole anche attraverso l’utilizzo delle norme tecniche, in primis la ISO 45003 che reca linee guida per la gestione dei rischi psicosociali, ed avendo in debito conto la vastità di prassi di riferimento elaborate dall’Ente nazionale di normazione, a partire da quella dedicata all’inclusione delle persone con disabilità (UNI/PdR 159:2024).
Interessante pare infine il rilievo che gli studi sull’engagement accordano agli schemi di rotazione del personale: partendo dall’assunto che «i lavoratori hanno bisogno di percepire un sufficiente livello di sfida in quello che fanno e che tale aspetto, appunto, viene a mancare quando il lavoro, o è avvertito come “troppo facile”, oppure è svolto da talmente tanto tempo da essere percepito oramai come banale e scontato» , il ricorso a meccanismi di job rotation assurge a strategia d’intervento win win. Per gli studiosi e le studiose del diritto del lavoro, si tratta d’una proposta da non sottovalutare e da esplorare nel rispetto di tutto l’armamentario di tutele che nel tempo è stato costruito intorno alla persona che lavora.
In conclusione, la riflessione giuridica è oramai inevitabile anche in tema di bore - out e non può che rivolgere l’osservazione a tutto il vasto gruppo di potenziali esposti, inclusi i «lavoratori più qualificati, che hanno investito molto nella loro formazione e che poi si “accontentano” di ruoli minori, pur di non restare senza impiego» .

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