testo integrale con note e bibliografia

1. Le misure di contrasto alla povertà.
Il tema delle politiche di contrasto al lavoro povero, affrontato dall’unità di ricerca bolognese, è particolarmente ampio e abbraccia tanto gli istituti di vero e proprio contrasto alla povertà e di supporto all’inserimento sociale, quanto le misure che incidono più direttamente sulle condizioni di lavoro.
Buona parte del dibattito sulla povertà lavorativa verte, infatti, proprio sull’indagine relativa alle soluzioni per superarla o quantomeno per circoscriverne gli effetti.
La prima difficoltà deriva dalla nozione stessa di lavoro povero, che assume un ventaglio semantico esteso da un punto di vista quantitativo e qualitativo e che non è riconducibile ad una mera questione economico-retributiva .
Inoltre, riguarda solo in parte il singolo individuo e la sua condizione lavorativa, ma richiede che sia considerato l’intero nucleo familiare ed il suo reddito. Si consideri che spesso, specie per le donne lavoratrici, a salari più bassi non si accompagna una situazione familiare di povertà per la presenza di altri redditi . Emergono, in altre parole, aspetti e condizioni che trascendono la dimensione puramente lavorativa per proiettarsi anche su quella del reddito complessivo e della composizione del nucleo familiare della persona .
Per tali ragioni, atteso che la nozione di povertà nel lavoro ricomprende una pluralità di elementi, anche estranei alla sfera occupazionale, l’unità di ricerca bolognese si è concentrata, anzitutto, sugli istituti di vero e proprio contrasto alla povertà e di supporto all’inserimento sociale, prendendo le mosse del reddito di cittadinanza.
Tuttavia, alla luce degli interventi legislativi del 2022 (la legge di Bilancio per il 2023: art. 1, commi 313 ss., l. n. 197/2022) e del 2023 (il d. l. n. 48/2023, convertito dalla l. n. 85/2023), si sono esaminate anche le misure destinate a prenderne il posto, quali l’assegno di inclusione ed il supporto per la formazione e per il lavoro , benché non si possa trascurare che non si è portata a termine “l’auspicata ridefinizione delle politiche attive di sostegno alla ricerca di lavoro” .
Analogamente assumono rilievo anche le misure di previdenza e assistenza sociale e le politiche che possono interessare l’intero nucleo familiare.

2. La povertà nel lavoro: cause e soluzioni per contrastarla.
Peraltro, il problema della povertà nel lavoro è stato affrontato soprattutto con riguardo ai rapporti di lavoro. Ed in proposito tra le cause principali, talora coesistenti, del fenomeno della povertà nonostante il lavoro si segnalano la qualità dell’occupazione e l’intensità lavorativa.
Sotto il primo profilo, sono sempre di più al centro del nuovo modello economico i c.d. lavoretti, favoriti dall’espansione incontrollata del lavoro su piattaforma, che non ha realizzato un aumento dell’occupazione di qualità. Al contrario essa ha sollevato problemi e posto criticità specie per quanto concerne le modalità di determinazione dei compensi, oltre che la discontinuità lavorativa: aspetti sui quali si propone di intervenire la nuova regolamentazione UE .
E, ancora, sono molto numerosi i lavoratori impiegati in attività che richiedono bassa professionalità, cui solitamente si applicano le norme di tutela del posto di lavoro, ma ai quali sono corrisposti bassi salari. La ricerca ha a tal fine esaminato particolari segmenti del mercato del lavoro, quali in particolare le filiere agroalimentari , dove le condizioni della forza lavoro occupata vanno collegate anche ad alcune caratteristiche strutturali tipiche del settore e all’indebolimento dei sindacati storici. Ma fenomeni e problemi analoghi emergono, come ben noto, altresì in altri ambiti, quali la logistica e la cooperazione.
Anche i lavoratori autonomi economicamente dipendenti ed i lavoratori atipici o dotati di contratti di lavoro non-standard sono caratterizzati da alte percentuali di povertà nonostante il lavoro, “in parte in ragione della minore intensità lavorativa ad essi connessa” .
Al riguardo diventa, dunque, rilevante anche il profilo dell’intensità lavorativa. E tra i lavoratori più a rischio di povertà lavorativa si segnalano proprio coloro che sono impiegati con forme contrattuali temporanee e/o con orario ridotto. La durata del rapporto e il tempo della prestazione “diventano quindi imprescindibili per descrivere con realismo la complessità del lavoro povero” .
In particolare, il rischio di povertà è più marcato per i lavoratori a tempo parziale involontario, per i quali si pone il problema della prevedibilità degli orari, volta a consentire ai lavoratori di svolgere altre attività retribuite e di raggiungere un reddito complessivo più adeguato. Al riguardo le direttive europee e la disciplina nazionale di attuazione, se si escludono alcune normative di settore, non offrono un adeguato supporto e la stessa contrattazione collettiva ha mostrato sinora scarso interesse.
Le soluzioni per fronteggiare le suddette cause del fenomeno dei working, yet poor sono semplici da individuare (la riduzione del lavoro atipico e l’incremento dell’occupazione femminile in primis) e devono aggiungersi alle misure di previdenza e assistenza sociale ed alle politiche che possono interessare l’intero nucleo familiare (dai benefici familiari alle politiche della casa, ai servizi per l’infanzia), ma sono tutt’altro che agevoli da implementare specie in un certo contesto economico, politico e sociale.

3. La questione salariale.
Il livello delle retribuzioni è, a sua volta, una delle cause, per non dire la principale, della povertà nel lavoro, specie nel settore privato .
Ciò emerge in modo evidente, oltre che, come anticipato, in alcune filiere, anche in relazione agli appalti. Soprattutto con riguardo agli appalti pubblici non va trascurato il ruolo assunto dalla legge anche in tema strettamente salariale nel contesto della riforma del codice dei contratti pubblici (cfr. d. lgs. n. 36/2023), senza sottovalutare l’importanza centrale della contrattazione collettiva, specialmente per quanto concerne l’individuazione del c.d. contratto leader del settore . Lo stesso vale più recentemente anche per gli appalti privati, per i quali il legislatore è parimenti intervenuto al fine di garantire trattamenti minimi ai lavoratori non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi (art. 29, d.l. n. 19/2024, convertito dalla l. n. 56/2024, che ha introdotto il comma 1-bis nell’art. 19, d. lgs. n. 276/2003) .
Proprio a partire dagli appalti sono emerse in tutta la loro portata le criticità che da tempo affliggono il sistema di relazioni industriali e il trattamento economico dei lavoratori, subordinati e autonomi.
Nella latitanza della legge, l’autonomia collettiva ha sempre rappresentato il baricentro del sistema retributivo ed ha costituito “un antidoto alla povertà in generale e alla povertà lavorativa in particolare, a condizione però di essere integrata in un modello di relazioni industriali ben funzionante” . Peraltro, come ben noto, a lungo è mancata un’articolazione organica e razionale della struttura sia della retribuzione che della contrattazione collettiva ed i problemi si sono acuiti negli ultimi due decenni nella misura in cui il sistema si è frammentato, si sono dilatati i tempi dei rinnovi dei contratti di categoria, è ripresa l’inflazione, sono proliferati i sindacati e le associazioni datoriali affacciatisi sulla scena e i contratti nazionali di categoria stipulati, con conseguente accentuazione del fenomeno del dumping contrattuale “grazie alla possibilità del datore di lavoro di scegliere in autonomia il CCNL da applicare sulla base della sola economicità” . Di qui una serie di nodi, di non agevole soluzione, che concernono gli aspetti nevralgici del sistema contrattuale: la misurazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali e imprenditoriali, la definizione dei perimetri nel cui ambito misurare tale rappresentatività, l’effettiva capacità del sistema contrattuale di garantire minimi salariali dignitosi specie nei settori in cui è meno radicata la presenza delle associazioni sindacali e datoriali, l’individuazione del contratto collettivo di riferimento per la determinazione della retribuzione adeguata .
Tutto ciò “disorienta il giudice nel momento in cui deve determinare la giusta retribuzione” : un compito che è chiamato a svolgere sempre più frequentemente a fronte di una richiesta giudiziale di riconoscimento del diritto ad una retribuzione adeguata ben maggiore che in passato soprattutto nei settori più esposti ai fenomeni in precedenza menzionati. E alla luce dell’ormai accertato mancato funzionamento del sistema sindacale di fatto, da un lato, si spiega l’inevitabile (e non necessariamente voluto) protagonismo giudiziale; dall’altro, si impongono tanto la riforma del sistema contrattuale, quanto una serie di interventi legislativi .
La prima dovrebbe affrontare innanzitutto il problema della categoria, offrendo elementi più certi e condivisi in ordine alla selezione giudiziale del contratto collettivo . I secondi dovrebbero muovere in più direzioni e su piani diversi: la rappresentanza sindacale, l’efficacia soggettiva dei contratti collettivi, la parità di trattamento negli appalti “interni”, il salario minimo legale .
In questo contesto sono rilevanti le strategie dei sindacati dei lavoratori che dovrebbero portare a maturare e realizzare importanti modifiche sia nella propria struttura organizzativa, sia nell’approccio alla contrattazione collettiva, per tentare di offrire rappresentanza e tutele contrattuali adeguate a quei segmenti della forza lavoro più esposti alle trasformazioni del capitalismo post-industriale .
Esiste ormai una questione salariale che si rivela drammaticamente ed in modo traumatico. Si tratta di un’emergenza e come tale deve essere affrontata senza ulteriori indugi, se si vuole evitare che “al cittadino in quanto lavoratore non sia più garantita un’esistenza libera e dignitosa” .
E ciò vale a maggior ragione nell’ambito del lavoro autonomo, specie economicamente dipendente, ormai per fortuna oggetto di opportuni approfondimenti in dottrina e per il quale merita un ripensamento anche l’ormai risalente giurisprudenza propensa ad escludere l’applicabilità dell’art. 36 cost., proprio poiché la debolezza socioeconomica di tali lavoratori è spesso persino superiore a quella dei lavoratori dipendenti.

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