TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Introduzione
In questo capitolo ci concentreremo su alcuni autori che, a partire dagli anni Settanta, interpretano l’aumento della disoccupazione e la de-regolazione del lavoro come la fine della società del lavoro.
Dopo una breve analisi delle trasformazioni attuali del lavoro (par. 2), met- teremo a fuoco alcuni tratti dell’analisi dei teorici della fine del lavoro, segnalan- do anche i loro errori di lettura alla luce dei dati sulla occupazione (par. 3). Poi discuteremo dell’alternativa delineata da questi studiosi, tra visione distopica – una società polarizzata e conflittuale – e una visione utopica che supera la cen- tralità del lavoro soffermandoci sulle diverse utopie di nuovo contratto sociale (par. 4). Nel paragrafo successivo accenneremo a visioni sul disincantamento del lavoro. Nelle conclusioni metteremo in luce alcune critiche a questi approcci.
2. Trasformazioni tecnologiche e cambiamenti del lavoro
Il progresso tecnologico e l’aumento della produttività del lavoro hanno sempre rappresentato un elemento critico nella storia delle società industria- li perché capaci di produrre effetti controversi sulla quantità di occupazione e sulle condizioni di lavoro. In particolare, le rivoluzioni tecnologiche hanno su- scitato, oltre ad aspettative ottimistiche per l’aumento della ricchezza prodot-
Guido Cavalca, University of Salerno, Italy, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo., 0000-0003-1875-9819
Enzo Mingione, University of Milano-Bicocca, Italy, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo., 0000-0002-1871-6520
Referee List (DOI 10.36253/fup_referee_list)
FUP Best Practice in Scholarly Publishing (DOI 10.36253/fup_best_practice)
Guido Cavalca, Enzo Mingione, Le teorie della fine del lavoro, ideologie e provocazioni, © Author(s), CC BY 4.0, DOI 10.36253/979-12-215-0319-7.114, in Giovanni Mari, Francesco Ammannati, Stefano Brogi, Tiziana Faitini, Arianna Fermani, Francesco Seghezzi, Annalisa Tonarelli (edited by), Idee di lavoro e di ozio per la nostra civiltà, pp. 985-994, 2024, published by Firenze University Press, ISBN 979-12-215- 0319-7, DOI 10.36253/979-12-215-0319-7
ta e il miglioramento delle condizioni di vita, anche preoccupazioni per la loro capacità di distruggere posti di lavoro. I movimenti luddisti nell’Inghilterra del XIX secolo sono il primo segnale della tensione tra tecnologia e occupazione.
Nelle prime due rivoluzioni industriali la perdita di posti di lavoro è sem- pre stata accompagnata da nuova domanda di lavoro necessaria all’aumento di produttività e all’espansione del mercato. L’aumento di lavoro è necessario allo sviluppo del sistema capitalistico, non senza contraddizioni e disuguaglianze naturalmente, e si afferma la convinzione, sostenuta dagli economisti ortodos- si, che esista un ciclo progressivo di sviluppo tecnologico e crescita economica e occupazionale.
Ma già Keynes nel 1931 nella lettera ai pronipoti (1991) prevedeva che nell’arco dei successivi cento anni la produttività sarebbe talmente aumentata da permettere un consistente risparmio di occupazione. Il grande economista inglese non era preoccupato dalla disoccupazione tecnologica o dalla fine del lavoro perché pensava a una rivoluzione culturale che avrebbe rovesciato l’en- fasi sul produttivismo e avrebbe permesso di redistribuire il poco lavoro indi- spensabile e di recuperare tempo per attività creative e di solidarietà. In questo senso Keynes può essere considerato un precursore non tanto delle teorie della fine del lavoro ma di una utopia della trasformazione della società come conse- guenza degli aumenti di produttività.
La terza e quarta rivoluzione industriale (Musso 2020), che iniziano negli anni ’70 del Novecento e proseguono fino ai giorni nostri, sembrano rendere più problematico il nesso tra tecnologia e lavoro. Non è più scontato che alla in- formatizzazione e digitalizzazione dell’economia corrisponda una crescita di occupazione sufficiente e si avanza l’idea, proprio attraverso le teorie che vanno sotto l’etichetta di ‘fine del lavoro’, che il saldo tra innovazione e sostituzione sia negativo. Sebbene le previsioni pessimiste vengano smentite dalla crescita del livello di partecipazione al mercato del lavoro, anche nei paesi dove si concentra lo sviluppo tecnologico, è vero che le trasformazioni in atto nel mondo del lavo- ro mostrano segni contradditori. Se la disoccupazione non cresce, se non nelle specifiche fasi di crisi economica (vedi crisi finanziaria 2007-2009 e pandemia 2020-2021), è anche perché aumentano nuovi lavori flessibili e spesso precari. A complicare il quadro complessivo si aggiunge la globalizzazione, processo che rende necessario allargare lo sguardo oltre i confini dei paesi di vecchia in- dustrializzazione per prendere in considerazione il lavoro che si sta diffonden- do nelle cosiddette economie emergenti (tra le quali primeggia la Cina) nelle quali è stata spostata una parte consistente della produzione industriale. Senza questo sguardo allargato il rischio è di sovrastimare le dinamiche di trasforma- zione dei paesi più sviluppati e di leggere in modo distorto le tendenze comples- sive, quindi globali, in atto. Tra l’altro gran parte della diminuzione dei posti di lavoro nelle industrie manifatturiere dei paesi industrializzati è dovuta alla delocalizzazione industriale più che alla diffusione della robotica e del digitale. L’aumento strutturale della disoccupazione a partire dalle crisi petrolifere degli anni settanta e la paura delle conseguenze delle rivoluzioni tecnologiche (robotizzazione e digitale, ma ora anche l’intelligenza artificiale) sul lavoro in
termini di perdita di posti di lavoro hanno ispirato il tentativo di alcuni studio- si di dare un’identità alla fase contemporanea del capitalismo segnata dalla cri- si del ‘lavoro astratto’ e di prefigurare una nuova fase storica del sistema che sia in grado di sostituire la centralità del lavoro dell’era industriale. Fin dalle sue prime tracce la transizione verso la società digitale e dei servizi è stata interpre- tata come un drammatico e incerto superamento delle certezze della piena oc- cupazione e della crescita economica continua della società industriale. Come mostreremo in questo capitolo, le teorie della fine del lavoro quindi raccolgono i segnali di crisi del sistema economico-sociale fordista e focalizzano l’analisi in direzione di un ordine sociale dove il lavoro non è più al centro dell’organiz- zazione della società.
3. La fine del lavoro tra ingenuità delle previsioni e lettura ideologica
I teorici della fine del lavoro leggono lo sviluppo tecnologico come un pro- cesso capace di sostituire progressivamente gran parte del lavoro astratto, in tutti i settori e a tutti i livelli gerarchici e professionali (Rinin 2005, 32). Viene in qualche modo riproposta l’idea della via di uscita tecnologica dal fordismo (Bonazzi 1993) che ha coinvolto, per esempio, la Fiat negli ’80 con la Fabbri- ca ad Alta Automazione. Questa idea non si è realizzata di fronte alla necessità di utilizzare molti lavoratori, anche con nuove professionalità, per la gestione dell’automazione. L’occupazione manifatturiera diminuisce nei paesi industria- lizzati sia per gli effetti dell’automazione sia per la delocalizzazione ma la previ- sione delle «fabbriche senza lavoratori» (Rinin 2005, 30) non si sta realizzando. Gli studiosi considerati convergono nell’assegnare al capitalismo, nella sua ultima fase di sviluppo, la propensione all’eliminazione del lavoro. «È del tutto evidente che la società del lavoro sta raggiungendo i suoi limiti tecnologici ed ecologici» (Beck 2000, 22). La tendenza a distruggere posti di lavoro conferma il paradosso delle società industriali: il lavoro diventa il centro della società che però, alla ricerca di sempre maggiori livelli di produttività, tende ad eliminarlo.
Già molti anni fa questi autori prevedevano:
che ci si sta avvicinando velocemente a un mondo quasi privo di lavoratori e che ci si possa arrivare ben prima che la società abbia tempo sufficiente per discutere delle sue implicazioni più profonde e per prepararsi all’impatto (Rinin 2005, 179).
Secondo questi autori il processo di eliminazione del lavoro è rapido e im- possibile da arginare perché non coinvolge solo le fabbriche ma anche il terzia- rio, i colletti bianchi e i manager (Rinin 2005, 63).
Nella società post-industriale, la società della conoscenza, che sostituisce quella del lavoro, non può esserci piena occupazione perché, sostiene Beck (2000, 58-9), riprendendo un passaggio di Drucker nel suo Post-Capitalist So- ciety, i mezzi di produzione non sono più il capitale e il lavoro ma il sapere, che sfrutta «l’elemento radicalmente nuovo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ovvero la possibilità di aumentare la produttività senza lavoro» (Beck 2000, 61-2).
Anche se l’intelligenza artificiale e gli algoritmi non sono ancora al centro del dibattito sulla trasformazione del lavoro, Rinin argomenta che:
Le macchine intelligenti si stanno facendo prepotentemente strada anche negli strati più alti della gerarchia aziendale, facendosi carico non solo di compiti rou- tinari svolti normalmente da impiegati ordinari, ma anche funzioni complesse che erano di pertinenza del management (Rinin 2005, 246).
Anche guardando al sistema mondiale sarebbe in atto, secondo Rinin, una riduzione progressiva dell’occupazione, tanto da includere la forza lavoro ‘glo- bale’ nel titolo del suo testo più noto:
L’introduzione di tecnologie sempre più sofisticate, con i conseguenti guadagni in termini di produttività, comporta che l’economia globale riesca a produrre sempre più beni e servizi impiegando una porzione sempre minore della forza lavoro disponibile (Rinin 2005, 35-6).
La sostituzione del lavoro prevista dai teorici della fine del lavoro si è verifi- cata in misura limitata, sia perché nel frattempo è aumentata l’occupazione in forme e settori nuovi (come la logistica) o vecchi (come la cura), sia perché a li- vello globale è cresciuta molto la produzione dei paesi emergenti con una espan- sione occupazionale a tutto campo (aldilà delle fabbriche nei paesi emergenti, si pensi al research and development, al trasporto, alla pubblicità, alla logistica e alla commercializzazione nei paesi industriali avanzati ma anche, su scala globale, ai servizi di cura, sanità ed educazione). Le nuove forme contrattuali instabili, la deregolazione del contratto di lavoro standard (dipendente a tempo indeter- minato) e la crescita del part time involontario hanno profondamente modifi- cato il mondo del lavoro ma mantenendo livelli di occupazione piuttosto elevati e tendenzialmente crescenti sia su scala globale che nei paesi industrializzati. Va anche aggiunto che solo per una parte della forza lavoro questi cambiamenti hanno liberato porzioni di tempo, mentre molti soggetti si vedono costretti ad accumulare occupazioni instabili e a tempo parziale per contrastare l’impoveri- mento del lavoro o a praticare orari di lavoro lunghi ed estenuanti pur di lavorare. Le tendenze in atto quindi non confermano l’accelerata e inarrestabile dimi- nuzione del lavoro prevista dai nostri autori ma segnalano cambiamenti radicali
rispetto ai quali è utile confrontarci con gli autori della fine del lavoro.
4. La fine del lavoro: distopia e utopie
La visione proposta dalle teorie della fine del lavoro non può che tradursi nel rischio incombente di una società distopica caratterizzata da disordine, povertà e conflitti sociali dovuti alla polarizzazione di classe tra i pochi inclusi e i molti esclusi dal mercato del lavoro.
Una nuova forma di barbarie ci attende al di là delle mura del mondo moderno […] si accalcano orde di esseri umani poveri e disperati: privi di tutto ma pieni di rabbia e con poche speranze di riuscire ad affrancarsi dalla loro condizione,
sono i potenziali sanculotti, le masse che, inascoltate, reclamano giustizia e l’ammissione a godere dei benefici della nuova civiltà. Queste orde continuano a ingrossarsi dai milioni di lavoratori che vengono licenziati e che si ritrovano, dalla mattina alla sera, irrevocabilmente chiusi fuori dai cancelli del nuovo villaggio tecnologico globale (Rinin 2005, 455).
Per evitare «[…] uno stato di crescente povertà e criminalità dal quale non sarà facile fare ritorno» (Rinin 2005, 458), i teorici della fine del lavoro deli- neano nuovi modelli di società che prevedono pari legittimità sociale ed eco- nomica alle attività e alle sfere del sociale altre rispetto al lavoro. Utilizzando la terminologia di Beck possiamo definirle «società delle attività plurali» (2000, 86) o descriverle col linguaggio di Rinin:
L’Era dell’Accesso [che] metterà fine al lavoro salariato di massa. Questa è l’occasione e la sfida che l’economia mondiale ha di fronte, mentre ci muoviamo nella nuova era della tecnologia intelligente. Liberare intere generazioni dalle lunghe ore trascorse sul posto di lavoro potrebbe annunciare un secondo Rinascimento per la razza umana o portare a una grande divisione e allo sconvolgimento sociale (Rinin 2005, xxv).
La proposta politica più ricorrente per contrastare la perdita di posti di la- voro, quantomeno nell’immediato, è la riduzione dell’orario di lavoro e la re- distribuzione delle ore di lavoro tra i dipendenti (Rinin 2005, 357; 372). Ma considerando il processo irreversibile di perdita di posti di lavoro, questo tipo di riforma non può bastare e appare necessario un cambiamento radicale, dovuto alla perdita di centralità del lavoro (senza aggettivazione) nella società e quindi all’invalidazione del contratto sociale fordista che richiede «di dover ripensare integralmente il contratto sociale» (Rinin 2005, 37).
L’utopia industrialista, come la definisce Gorz, è ormai superata:
Significa che è necessario cambiare utopia; perché, fino a quando resteremo prigionieri di quella che sta crollando, saremo incapaci di cogliere il potenziale di liberazione insito nel mutamento in corso, e di trarne profitto dando un senso a tale mutamento (Gorz 1995, 17).
Non ci sono dubbi:
diventa necessario osare l’uscita dalla società del lavoro, ridefinire i concetti di “lavoro” e di “occupazione” per cercare di aprire nuove strade. E tutto questo non tanto ai fini di un riassetto dell’organizzazione sociale e aziendale del lavoro, quanto per un riordinamento complessivo della società, dei suoi valori, dei suoi scopi e delle sue biografie (Beck 2000, 63).
Se il senso complessivo di questa utopia accomuna i teorici della fine del lavo- ro, il modo di sostanziare il processo di cambiamento prende due strade diverse. Da una parte, Rinin e Beck individuano la soluzione nella retribuzione di tutte le attività riconducibili al volontariato e al Terzo Settore. Dall’altra, Aznar e Gorz delineano un progetto politico trasformativo più radicale, di liberazione del tem-
po, quindi dell’essere umano, dal lavoro. A separare le strade dei teorici della fine del lavoro è in definitiva il ruolo da assegnare nella nuova epoca al lavoro astratto. L’opzione delineata da Rinin e Beck permette di affrontare la duplice crisi del mercato che non garantisce più la corrispondenza tra crescita economica e crescita occupazionale (jobless growth) e dello Stato che perde capacità di redistribuzio- ne e assistenza sociale come reazione al mercato. È appunto la persistente, ormai incancellabile, centralità identitaria del lavoro a determinare in Beck e Rinin la scelta del potenziamento del Terzo Settore come soluzione dell’enigma utopico. Non si può concepire una società che perda il legame con il lavoro. La soluzione in questo senso non può che virare verso l’individuazione di nuovi settori di impie- go, «uno sforzo concertato dei governi centrali per fornire alternative di occupa- zione nel “terzo settore” – l’economia sociale – agli individui espulsi dal mercato del lavoro» (Rinin 2005, 39). L’ipotesi di superare il modello di «cittadino pro-
duttivo» non può essere considerata da questi autori per i quali:
L’occupazione rappresenta assai più di una fonte di reddito: per molti è una misura del proprio valore personale. Essere sottoccupati o disoccupati significa perciò sentirsi improduttivi e privi di valore (Rinin 2005, 317).
L’economia sociale diviene quindi nella visione di Rinin e Beck il nuovo settore trainante e creatore di occupazione e di conseguenza di integrazione sociale e benessere, che «[…] rappresenta l’ultima speranza di costruire una struttura istituzionale alternativa per una civiltà in transizione» (Rinin 2005, 451). In questa società,
l’accordo fiduciario cede il passo ai legami comunitari, e la cessione volontaria del proprio tempo prende il posto delle relazioni di mercato imposte artificialmente e fondate sulla vendita di se stessi e dei propri servizi agli altri (Rinin 2005, 381).
L’ipotesi di Aznar e Gorz prevede invece di sostenere economicamente il tempo forzatamente liberato dal lavoro («a funzione non determinata», Aznar 1994, 171) attraverso redditi sociali che affianchino il reddito da lavoro.
Si tratta, in una parola, di passare da una società produttivista o società del lavoro, a una società del tempo liberato in cui il culturale e il sociale prevalgano sull’economico: a quella che i tedeschi chiamano una Kulturgesellschaft,
l’unico cambiamento in grado di evitare «esclusione sociale, pauperismo e disoccupazione di massa da una parte, intensificazione della “guerra di tutti contro tutti” dall’altra» (Gorz 1995, 199-200).
Aznar (1994, 185-86) ipotizza una «società dei tre redditi» che prevede ac- canto alla retribuzione del lavoro astratto («salario del lavoro»), che tenderà a diminuire nel tempo al crescere della produttività e dell’automazione, un «se- condo assegno» (o reddito di trasferimento)
versato non a chi non lavora affatto ma a chi lavora meno, per completare il red- dito del lavoro, per compensare la diminuzione del salario» e un reddito auto- nomo “associato al tempo libero” che consiste in attività di auto-produzione,
lavoro nero legalizzato o attività imprenditoriali alternative. Oltre a risolvere il problema della disoccupazione, questo è un «progetto di società che tende a ri- definire il rapporto tra l’uomo e il sociale, tra l’uomo e il mondo. In realtà, vivere a mezzo tempo significa avere un doppio tempo per vivere (Aznar 1994, 201).
5. La prospettiva del disincantamento del lavoro
Un approfondimento teorico della proposta di Aznar e Gorz viene dal con- tributo di Méda, che tratta il lavoro come valore in via di sparizione (titolo del testo originale francese). La studiosa riflette sul significato culturale, prima an- cora che materiale, del lavoro che
non è lo strumento naturale utile soltanto a soddisfare i nostri bisogni, anch’essi naturali […] Si tratta di una categoria costruita, emersa in coincidenza con una situazione politico-sociale determinata (Méda 1997, 21),
la società del lavoro, per l’appunto. Quest’ultima andrebbe superata nel suo complesso attraverso un’operazione culturale di disincantamento del lavoro che
si è caricato di tutte le energie utopistiche che su di esso si sono fissate nel corso dei due secoli passati. È “magico”, nel senso che esercita su di noi un “fascino” di cui oggi siamo prigionieri (Méda 1997, 220).
Per questo è però necessario sconfiggere la tendenza alla conservazione, il paradosso delle società moderne:
Così nel momento in cui la disoccupazione si diffonde e si profila la possibilità che il lavoro umano scarseggi, le riflessioni contemporanee sul lavoro da una parte riannodano i legami con le grandi correnti di pensiero o con le escatologie che hanno strutturato il XX secolo, dall’altra organizzano una difesa e una spiegazione del lavoro per metterne in evidenza il valore (Méda 1997, 20).
Il disincantamento quindi ci permetterebbe di pensare a una nuova società, oltre l’utopia del tempo liberato e retribuito di Aznar e Gorz, una società che libera il tempo dal lavoro, che libera il sociale dal giogo del lavoro e del valore economico del tempo.
La strada è quella dello sviluppo «accanto al lavoro, di altre attività, collettive o individuali, di modo che ciascuno diventi, come avrebbe voluto Marx, multiat- tivo» (Méda 1997, 232) e dello smarcamento dal lavoro (termine da superare secondo Méda) di un
tempo libero, nel senso aristotelico: libero per belle azioni, fonte di ricchezza al- lo stesso titolo della produzione. […] tempo, valore individuale e collettivo fon- damentale, un tempo la cui padronanza e la cui organizzazione ridiventerebbe, dopo tanti secoli di eclissi, un’arte essenziale (Méda 1997, 233).
Méda radicalizza la teoria della fine del lavoro, indicandone una via di uscita completa, disincantando il lavoro e dando valore (non economico) alle attività umane, liberando in definitiva la società dal giogo del produttivismo. In questo senso la visione di Méda ricorda quella di Keynes:
Pertanto, per la prima volta dalla sua creazione, l’uomo si troverà di fronte al suo vero, costante problema: come impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti, come impiegare il tempo libero che la scienza e l’interesse composto gli avranno guadagnato, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza (Keynes 1991, 64).
Nessuno dei due autori spiega come avviene la transizione verso la società disincantata dal lavoro. E non ci sono segnali di questa transizione, così come non ci sono segnali della sparizione del lavoro.
6. Conclusioni
Rispetto alle tendenze in atto risulta più convincente la critica di Antunes, sociologo brasiliano, che rigetta in toto l’ipotesi del superamento della centralità sociale del lavoro, nonostante la metamorfosi subita. Centralità e metamorfo- si, per l’appunto, compongono il sottotitolo del suo libro Addio al lavoro?, par- ticolarmente utile a concludere la nostra esposizione delle teorie della fine del lavoro. Innanzitutto, la collocazione temporale del testo (l’edizione originale è del 2015) consente di ritornare alle teorie degli anni 80 e 90 alla luce delle tra- sformazioni tecnologiche e lavorative più recenti. In secondo luogo, lo sguardo dal Sud del mondo consente un’interpretazione libera dai condizionamenti oc- cidentalocentrici che emergono nelle analisi appena trattate.
Antunes critica l’invasione del lavoro nella sfera del sociale, ma non vede al- cuna prospettiva di liberazione dell’essere umano dal lavoro. Al contrario mette in risalto l’espansione delle capacità di sfruttamento del capitalismo attraverso
«[…] i più distinti e diversi modi di essere dell’informalità [che] sembrano costi- tuire un importante elemento di ampliamento, potenziamento e realizzazione del plusvalore» (Antunes 2019, 29). Espansione che si verifica anche nel tempo di lavoro che, per esempio, nell’industria delle confezioni a San Paolo, così come in molte altre realtà del sud del mondo, arriva fino a 17 ore (Antunes 2019, 29). Si tratta, quindi, di un capitalismo pervasivo che, lungi dal liberare tempo e dal perdere centralità, si trasforma occupando tutte le sfere della vita umana, si impadronisce delle funzioni materiali e immateriali come l’intelligenza e la cre- atività (Antunes 2019, 27-31 e 73-4). La prospettiva di Antunes segnala come il Capitalismo contemporaneo, non elimini affatto il lavoro salariato, ma crei forme nuove di proletariato per esempio l’infoproletariato o cybertariato, nel settore dei servizi (Antunes 2019, 35-6) e, più in generale, mette in evidenza che né il lavoro astratto, né i suoi meccanismi economici di base, sono in via di estinzione.