Venti anni fa Massimo D’Antona veniva assassinato sotto la sua abitazione.
Non ricordo quando ed in che occasione conobbi Massimo; probabilmente avvenne alla metà degli anni ’80 dello scorso secolo, quando, agli inizi della mia carriera universitaria entrai in contatto, iniziando un’amicizia che perdura ancora oggi, con Arturo Maresca e Raffaele De Luca Tamajo che insieme a Massimo erano gli altri due elementi di una triade unitissima.
Ricordo invece quasi ogni dettaglio di quella mattina del 20 maggio: la telefonata che ci scambiammo alle 7 per prendere appuntamento a studio dove facevamo entrambi (finta di fare) gli avvocati; il mio disappunto per il suo ritardo; il rumore dell’elicottero, la telefonata angosciata di Olga, la mia corsa sotto casa sua, e poi la borsa.
Massimo è stato ucciso lo stesso giorno in cui, quasi trenta anni prima, era entrato in vigore lo Statuto dei lavoratori; coincidenza amara per un giurista che incarnava profondamente l’anima statutaria del diritto del lavoro. Ne è prova la monografia con la quale vinse il concorso a cattedra, nella quale, prendendo in prestito il titolo del più noto libro di un altrettanto noto giurista nord americano, la reintegrazione del lavoratore era “presa sul serio”. Tanto sul serio che Massimo estrasse ogni succo possibile dall’art. 18 St.lav., portando la tutela reale fino alle sue estreme conseguenze. O alle conseguenze che sembravano allora coerenti con l’impianto statutario di un diritto del lavoro a una dimensione.
Se si pone a confronto questo lavoro monografico con l’ultimo saggio, uscito postumo sul Giornale di diritto del lavoro, è possibile non solo misurare i cambiamenti che nel giro di venti anni hanno investito la materia, ma anche il percorso scientifico e politico di Massimo. Di quell’articolo ne discutemmo molto e molto ne discusse Massimo; ricordo ancora una lunga telefonata di Marzia Barbera che mi esternava tutti i suoi dubbi (che erano anche i miei) sulla possibilità di forzare le maglie dell’art. 39 Cost. a testo immutato.
Ma in quell’occasione a Massimo non interessava tanto il profilo tecnico, quanto piuttosto la possibilità, apparentemente paradossale, di dare un’attuazione della disposizione costituzionale attraverso un percorso diverso da quello formale, ma con questo compatibile, o almeno non insopportabilmente eccentrico.
Quest’ultimo saggio rappresenta davvero la chiave della figura di Massimo D’Antona come giurista, intellettuale e politico.
Massimo era innanzitutto un giurista, che, per chi scrive, vuol dire innanzitutto un tecnico del diritto, che conosceva e faceva uso delle categorie di diritto privato in cui il diritto del lavoro comunque si inscrive. Ma non era un giurista astratto; anzi, era invece particolarmente attento all’evoluzione della realtà. Con gli anni, l’impronta fortemente tecnica che aveva sviluppato nella monografia si è andata attenuando, lasciando spazio ad una impostazione più vicina forse alle sue corde, e che potrei dire, maggiormente attirata dallo scenario nel quale il diritto del lavoro si inseriva e che contribuiva esso stesso a costruire, o a modificare.
Si spiega così l’attenzione data al rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni o alla dimensione europea della materia, allora poco o nulla studiata.
Ma si spiega anche l’attenzione che Massimo dedicò al diritto sindacale, sul quale si scaricavano le tensioni di un diritto del lavoro che faticosamente stava almeno in parte cambiando pelle.
È del 1990 l’uscita di un volume intitolato Letture di diritto sindacale in cui Massimo riunì un gruppo di (allora) giovani studiosi della materia chiamati a rappresentare lo stato dell’arte della elaborazione dottrinale e in parte giurisprudenziale, su alcuni temi fondanti del diritto sindacale, come lo sciopero, il contratto collettivo, la rappresentanza. In quell’occasione Massimo volle che i singoli contributi fossero preceduti, a mo’ di introduzione, da un suo saggio dedicato appunto al diritto sindacale in trasformazione (così infatti si intitola il saggio), che costituisce un affresco, tra i più lucidi e intriganti, delle tensioni e dei mutamenti che attraversavano il diritto sindacale in quegli anni. Leggendo il saggio fui colpito da un’immagine che Massimo aveva preso a prestito (mi pare) dal Saggio sul diritto giurisprudenziale di Lombardi Vallauri, a proposito delle costruzioni dei giuristi come ponti tra realtà e il mondo del diritto: ci sono ponti bellissimi, scriveva, sui quali nessuno passa e ponti vecchi e brutti che però sono utilizzati da tutti perché in fin dei conti sono più comodi. Immagine questa che incarna l’idea che Massimo aveva del giurista come di un operatore sociale che crea collegamenti tra la realtà sociale ed il mondo del diritto e i valori che in esso sono incorporati. Non dunque di astratte costruzioni c’è bisogno, ma di concetti che tengano insieme, e facciano dialogare, la realtà ed i suoi mutamenti con l’universo del diritto e dei valori che in esso sono incorporati.
È questa l’ispirazione che anima non solo il saggio ultimo sull’art. 39 Cost., ma anche il saggio sull’emersione di una terza funzione del contratto collettivo (accanto a quella normativa ed a quella obbligatoria): proposta ardita attraverso la quale, a fronte della sempre più frequente devoluzione di competenze regolative alla contrattazione collettiva da parte del legislatore, tentava di coniugare queste ultime con una logica promozionale dell’applicazione del contratto collettivo. Solo chi applica il contratto collettivo avrebbe potuto beneficare della possibilità, all’epoca, di avvalersi di dosi di flessibilità come ad es. le ipotesi di contratto a termine previste dalla contrattazione medesima in aggiunta a quelle disciplinate dalla legge. Certamente una forzatura, ma voluta e meditata nelle sue implicazioni, che erano quelle di rafforzare la trama di quella deregolazione controllata e mediata dalla contrattazione collettiva che iniziava a prendere corpo.
E la stessa tensione che si ritrova in molti suoi saggi degli anni ’90 in cui traspare l’atteggiamento del giurista che osserva la realtà, magari non condividendola, ma nemmeno rifiutandola, tentando semmai di comprenderla e di riportarla ad una razionalità, che non era una razionalità assoluta, ma relativa e personale. Una razionalità fatta di equilibrio e controllabilità nelle e delle soluzioni proposte, ricondotte sempre ad un sistema che non era concepito come un universo statico di concetti, ma innervato innanzitutto dai valori costituzionali, e proprio per questo bisognoso di adattamento e di bilanciamento.
Il saggio sulla indisponibilità del tipo - lungamente discusso nel corso della sua gestazione come al solito convulsa per gli storici ritardi di Massimo nel consegnare uno scritto - costituisce uno degli esempi migliori. Prendendo spunto dalle sentenze della Corte costituzionale, forse non proprio impeccabili, Massimo ne coglie il nocciolo fondante e lo sviluppa, dando vita ad una costruzione tecnicamente raffinata, ma soprattutto fortemente innervata dal tentativo di fornire uno schema di giudizio in grado di affrontare le nuove questioni poste da una nozione di subordinazione che stava iniziando a mutare, ma che fosse al tempo stesso in grado di evitare fughe in avanti e di mantenere il collegamento con la tavola dei valori che rappresentava il dato identificativo, potei dire, tipico, del diritto del lavoro.
Il richiamo ai valori ed alla dignità della persona che lavora ha infatti rappresentato una costante nell’avventura intellettuale di Massimo, cui non ha mai abdicato, pur nella varietà dei “ponti” che via via andava costruendo.
E proprio la costante attenzione ai valori lo ha condotto a frequentare lungamente gli scritti di Luigi Mengoni e ad appassionarsi alle questioni di metodo giuridico, naturalmente alla maniera di Massimo D’Antona, e cioè con l’attenzione focalizzata sui problemi concreti affrontati dalla giurisprudenza e non su costruzioni astratte.
Il saggio sull’anomalia post positivista del diritto del lavoro, rappresenta a mio avviso, uno dei più importanti contributi di Massimo. Scritto con chiarezza notevole, così come del resto tutti i suoi lavori, il saggio richiama l’attenzione su un diritto del lavoro che sta cambiando, quasi senza consapevolezza, e su una riflessione dottrinale che andava perdendo - o meglio, che aveva ormai perso senza ritrovarla mai più in futuro - la sua capacità di ricondurre i problemi al sistema (sia pur nel senso fatto proprio da Mengoni) e la dimensione tecnico giuridica della riflessione scientifica a vantaggio di una razionalità ispirata unicamente al caso concreto.
L’impostazione era già stata anticipata nel saggio sul diritto sindacale in trasformazione: l’interpretazione del testo non è un’operazione condotta in solitudine, ma è un processo comunicativo attraverso il quale l’interprete si pone in collegamento con l’ambiente che lo circonda (universitario, giudiziario, politico, sindacale), e le soluzioni che sono proposte sono null’altro che delle aspettative di significato destinate a stabilizzarsi ove rispondano ad esigenze che derivano dall’ambiente stesso.
Non è difficile scorgere le tracce della lezione metodologica di Mengoni e della sua idea del sistema giuridico cognitivamente aperto, ma normativamente chiuso, e più indietro, di Tullio Ascarelli.
Per questo il giurista non può chiudersi, ma deve prendere atto della realtà normativa che cambia e adattare le interpretazioni e le soluzioni in maniera da realizzare un’osmosi tra il vecchio e il nuovo.
L’attenzione al diritto del lavoro che cambia è il tema anche di un altro scritto, quello sul diritto del lavoro di fine secolo, meno ambizioso forse dei precedenti, in cui Massimo dipinge, con una certa dose di preveggenza, i tratti di fondo di una stagione di forte cambiamento, in cui i pilastri del diritto del lavoro sono profondamente incrinati. L’analisi non sfocia però in quadro fosco, di “fine del diritto del lavoro”, secondo la moda di una letteratura dai toni millenaristici e cupi che proprio allora iniziava compiere i primi passi: il saggio ha infatti una dimensione operativa, di reperimento dei problemi come tappa per avviarne la soluzione
E non è un caso forse che il primo Volume delle Opere sia dedicato appunto agli scritti di carattere generale e sul mutamento del diritto del lavoro. Massimo infatti era attirato dai momenti di crisi - molti suoi scritti sono del resto dedicati alla crisi dell’impresa - che intendeva però non come un momento negativo, ma, fedelmente al suo etimo originario, come un momento di passaggio.
Scorrendo i Volumi delle Opere si rimane colpiti dalla quantità di contributi che Massimo ha dedicato alla crisi dell’impresa nelle sue varie sfaccettature, dalla Cassa integrazione (sui cui scrisse, insieme a Maria Teresa Salimbeni, un utile e originale glossario), ai licenziamenti collettivi, passando per un importante contributo, forse un po’ sottovalutato, dedicato ad un tentativo di sistemazione delle leggi che tra la fine degli anni ’80 dello scorso secolo e l’inizio della decade successiva, si sono affastellate con finalità di salvataggio delle imprese in crisi, in cui fa capolino la lezione di un altro giurista prematuramente scomparso, Donatello Serrani, autore di uno non dimenticato libro intitolato appunto Lo Stato finanziatore.
I profondi mutamenti che iniziavano a manifestarsi nel diritto del lavoro italiano e la conseguente crisi dei paradigmi scientifici e concettuali che avevano governato la materia, e ancora, la difficoltà a rinvenirne di altri provvisti di analoga comprensività e di altrettanta forza unificante non hanno mai scoraggiato la ricerca di strumenti concettuali e di soluzioni operative sia sul terreno propriamente scientifico che sul versante politico istituzionale, che negli ultimi tempi aveva maggiormente catturato il suo interesse.
È singolare come conoscendo bene l’autore gli scritti ne tradiscano la personalità. Gli scritti di Massimo infatti riflettono alcuni suoi tratti caratteriali: la misura e l’equilibrio, innanzitutto; la capacità di osservare la realtà innescata da una profonda curiosità; per certi aspetti, anche la mitezza del carattere si rispecchiano in una prosa limpida e piana, in proposte interpretative che anche quando non condivisibili erano però sempre equilibrate e ragionevoli. E ancor più si rispecchiavano nelle conversazioni o nelle discussioni anche scientifiche in cui lo sforzo di convincere e di ribattere era sempre condotto con pacatezza e con una vena di ironia che a volte affiorava.
Fu la curiosità intellettuale probabilmente a spingerlo ad avvicinarsi al pubblico impiego, allora, e cioè all’inizio degli anni ’90 dello scorso secolo, attraversato dai venti del cambiamento. Il rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni attirava molto l’interesse di Massimo, in esso vi scorgeva un laboratorio per sperimentare nuovi equilibri e nuove soluzioni, esportabili talvolta anche nel settore privato. Come fu per la definizione dei criteri per l’accertamento della rappresentatività delle organizzazioni sindacali ripreso poi nell’accordo interconfederale del 2014.
L’interesse per il nuovo lo condusse, attraverso un percorso singolare e non privo, come spesso le cose della vita, di una certa casualità, all’approdo politico.
Gli inizi furono infatti governati dal caso.
Fu chiamato a presiedere il Dicastero del Trasporti un caro amico di Massimo, Giovanni Caravale, economista colto e raffinato, più avvezzo, alle atmosfere soffuse di Cambridge, dove aveva studiato, che alle stanze fumose del Ministero.
E Massimo fu chiamato in soccorso dall’amico affinché lo aiutasse ad orientarsi in un mondo, quello del sindacalismo nel settore dei trasporti, che verso la metà degli anni ’90 dello scorso secolo appariva non certo facile.
Iniziò così la carriera politica di Massimo, politico per caso, ma non suo malgrado.
Massimo infatti aveva sempre coltivato contatti con il mondo esterno all’Università.
Per molto tempo aveva avuto rapporti di vicinanza con la Cgil, sempre però osservando una certa distanza; distanza che mantenne anche quando fu chiamato ad incarichi più impegnativi, prima al Ministero dei Trasporti, poi a quello della Funzione pubblica, ed infine a quello del Lavoro.
Se è vero che a questa attività aveva dedicato gli sforzi maggiori nell'ultimo periodo, è anche vero che non si è trattato mai di un'esperienza totalizzante.
Massimo infatti aveva viva la capacità, che rappresenta poi la vera cifra dell'intellettuale, di mantenere aperto il canale tra esperienza pratica e riflessione scientifica, nutrendo l'una con l'altra, ma anche vivificando la seconda con gli stimoli provenienti dalla prima.
Gli anni dedicati al lavoro nei vari Ministeri furono anni intensi, segnati da riforme importanti, da un lavoro serrato, ma anche da incontri importanti ed inaspettati, come quello con il gruppetto, ristretto, ma umanamente e professionalmente ricchissimo, che al tempo sedeva al vertice dell’ufficio del personale e del contenzioso del lavoro delle Ferrovie dello Stato.
Si è detto spesso di Massimo quello che già si era detto di Gino Giugni, l’essere cioè un intellettuale prestato alla politica: alla politica come arte del possibile e della possibilità di tradurre in pratica i convincimenti e le soluzioni che si sono sperimentate nella riflessione teorica.
Questo Massimo ha provato a fare e per questo ha pagato un prezzo altissimo, come già altri in passato e come altri, penso a Marco Biagi, avrebbero fatto in futuro.
Sono passati venti anni; un tempo lunghissimo: poco più dell’età di mio figlio più piccolo e poco meno di quella del più grande. In venti anni si cresce, ci si sposa si trova e si cambia lavoro, si hanno dei figli, cioè si vive: è questo che a Massimo quella mattina è stato tolto.
Faccio parte di un piccolo gruppo, amici prima che colleghi, che si dedica ogni tanto a dare vita a qualche iniziativa scientifica. Di questo gruppo Massimo sarebbe stato membro naturale e ci avrebbe aiutato a fare di più e meglio. Quella mattina, venti anni fa, il diritto del lavoro ha perso un grande studioso, ma noi abbiamo perso soprattutto un amico.