Testo integrale con note e bibliografia
1. Il diritto di recesso: inquadramento dell'istituto e analisi della sua ratio legis nel settore del diritto civile.
Il presente contributo si propone di analizzare la fattispecie del recesso, osservando le differenti declinazioni che siffatto istituto assume nel diritto civile e nel diritto del lavoro, nel tentativo di comprendere le ragioni poste a fondamento dei diversi tratti che lo connotano nell’uno e nell’altro settore giuridico, per essere teleologicamente indirizzato all’assolvimento di diversi interessi privatistici a seconda del suo ambito di operatività.
All’uopo, appare ineludibile una preliminare disamina del diritto di recesso: come è noto, esso si presenta, nella sua conformazione basilare regolata dall’art. 1373 cod. civ., come un diritto potestativo unilaterale e recettizio , attraverso l’esercizio del quale la parte che ne è titolare può sciogliersi dal vincolo contrattuale cui si era precedentemente obbligata, derogando, con ciò, al principio generale per il quale il contratto, in considerazione della sua natura di accordo (quantomeno) bilaterale che va a cristallizzarsi nel punto di equilibrio giuridico ed economico tra le esigenze di tutte le parti, e che nell’estrinsecazione di tale mutuo incontro di volontà vede risiedere la sua più profonda natura, possa incontrare la cessazione dei suoi effetti giuridici solo per mutuo dissenso delle parti, le quali, di comune (dis)accordo, ritengono, congiuntamente, di non trovare più alcuna convenienza nell’accordo contrattuale precedentemente stipulato, tanto che, nella sua formulazione, l’art. 1321 cod. civ. individua, tra le funzioni dell’accordo, quella di “… estinguere un rapporto giuridico patrimoniale” , con ciò esplicitando che anche per sciogliere il contratto, così come per costituirlo, è salvaguardato il dogma della bilateralità del consenso; e a tale norma fa ovviamente da pendant l’art. 1372 cod. civ., secondo cui il contratto, di regola, non può essere sciolto che per mutuo consenso.
Metafisicamente, si può sostenere che solo un atto di volontà può distruggere ciò che un altro atto di volontà ha creato .
Il diritto potestativo di recesso, invece, derogando ai principi generali sopra richiamati di cui agli artt. 1321 – 1372 cod. civ., si sostanzia in una sorta di ius poenitendi, che esprime una situazione di fatto radicalmente diversa da quella, sopra descritta, del mutuo consenso in ordine alla cessazione del vincolo negoziale: una situazione, cioè, in cui una sola delle parti ritiene non più confacente ai propri interessi la prosecuzione del vincolo contrattuale cui si era obbligata; il che, da un punto di vista meramente empirico, considerando che la maggior parte dei contratti trova la propria causa in concreto nel sinallagma, indicato come il nesso di interdipendenza tra le reciproche prestazioni (nello scambio, cioè, tra prestazioni corrispettive – o, secondo una giurisprudenza più recente, nell’adempimento delle stesse -), può condurre alla riflessione per cui, qualora una parte non ritenga più conveniente rimanere adesa al vincolo contrattuale, in modo speculare e opposto la controparte potrebbe trovare maggiori motivi di convenienza rispetto alla permanenza dell’efficacia del contratto, maturando quindi un’aspettativa ed un interesse per così dire “di fatto” (oltre, naturalmente, al diritto soggettivo) alla permanenza in essere degli effetti del contratto stesso.
Ed è proprio per questo motivo di fatto che l’ordinamento provvidamente prevede l’istituto della caparra penitenziale, la quale ha la funzione di indennizzare il contraente che subisce il recesso dalla perdita subita per la mancata esecuzione del contratto, inserendosi così nell’ambito del recesso come un corrispettivo volto ad attribuire ad una parte il diritto di sciogliersi unilateralmente dal contratto con il pagamento di una somma di denaro (o, in ipotesi di scuola, con la consegna di una quantità di cose fungibili) .
Del resto, la portata “dirompente” del diritto di recesso sulla disciplina del contratto, e in particolare sul principio secondo cui ha forza di legge tra le parti e non può essere sciolto che per mutuo consenso, emerge anche laddove se in un contratto predisposto unilateralmente viene previsto il diritto di recesso a favore del contraente “forte”, la clausola viene considerata vessatoria in quanto particolarmente giugulatoria per la parte che la subisce, tanto da necessitare, per la sua validità, della specifica sottoscrizione; e, se tale clausola viene inserita in un contratto tra professionisti e consumatori, rientra nella previsione di cui all’art. 33 cod. cons. che elenca le clausole che si presumono vessatorie, in quanto la clausola incriminata è atta a generare un significativo squilibrio contrattuale normativo in favore del professionista e in danno del consumatore.
Probabilmente anche alla luce di siffatte considerazioni, oltre al ben noto principio generale di conservazione del contratto, il legislatore non solo ha regolamentato il recesso “generico” come un’eccezione alla regola, ma ha anche ritenuto di differenziarne la disciplina a seconda dell’afferenza ai vari rami del diritto, ponendo, in funzione degli interessi in gioco (e delle qualità soggettive delle parti contraenti), una serie di contrappesi funzionali a mantenere un equilibrio tra i diritti e gli obblighi costituenti il contenuto del contratto (id est: l’oggetto), con interventi significativamente definiti come ‘ortopedici’ .
Muovendo, nella nostra analisi, dalla disciplina generale del recesso, si rileva sin da subito come la sua portata, potenzialmente lesiva per i principi generali di autonomia contrattuale e di conservazione del contratto, viene ridotta dalla natura meramente convenzionale, ex art. 1373 cod. civ. (e dunque solo eventuale) dell’apposizione della clausola che ne concede l’esercizio (salvo, ovviamente, le ipotesi di recesso legale, in cui tale diritto è attribuito per legge); seconda, ma non meno importante, è la previsione (chiaramente finalizzata ad una circoscrizione del perimetro di operatività di siffatto istituto) secondo cui il diritto di recesso può essere esercitato, nei contratti ad esecuzione istantanea (vale a dire quelle fattispecie contrattuali nelle quali vi è una sostanziale coincidenza fra la fase genetica e quella funzionale), fintantoché il contratto stesso non abbia avuto un principio di esecuzione , considerando altresì che anche tale nozione, come ricostruito dalla giurisprudenza di legittimità , contiene in sé un nucleo per così dire “volontaristico”; laddove, invece, nei contratti di durata il recesso può essere esercitato dal o dai contraenti fintantoché il contratto è suscettibile di esecuzione, prevedendosene però, come per qualsiasi altro istituto che interviene sull’efficacia dei contratti ad esecuzione continuata e periodica (vedi, a titolo esemplificativo, risoluzione ed effetti della condizione) la sua irretroattività quanto agli effetti, con conseguente irripetibilità delle prestazioni già eseguite.
Analizzando il primo dei due requisiti, cioè la natura convenzionale della previsione della clausola di recesso, si nota agevolmente come, in ragione della sua portata , tale diritto possa essere previsto in favore di una o più parti solo qualora vi sia stato un inequivoco consenso preventivo in ordine a tale possibilità; in ossequio al principio di conservazione del contratto e di autonomia contrattuale , peraltro, la Corte di Cassazione, ha chiarito, ribadendo il favor di tutti i formanti del diritto rispetto allo storico principio (morale ancor prima che giuridico) secondo cui “pacta sunt servanda”, che esiste la possibilità – si intenda tale espressione in senso atecnico – di “sanare” un contratto che contenga la previsione di un diritto di recesso, intervenendo, previo inevitabilmente il mutuo accordo delle parti, con un accordo scritto che consenta di eliminare detta pattuizione.
Questa interpretazione si pone chiaramente, in un’ottica di analisi economica del diritto, nella prospettiva di dar corso e promuovere la finalizzazione di scambi commerciali in una società improntata alla libera circolazione di beni e servizi, incoraggiando in definitiva un modello liberale e capitalistico in cui il perfezionamento degli accordi intrapresi assume rilievo centrale.
Va sottolineato, al fine di meglio comprendere che la mens legislatoris sottendente a queste previsioni, sostenute da tutti i formanti del diritto, ha a cuore un aspetto meramente ‘oggettivo’, inerente cioè allo scambio in sé, senza riguardo specifico per l’aspetto soggettivo – psicologico delle parti che addivengono all’accordo (specularmente a quanto avviene in tema del motivo che conduce le parti all’accordo, irrilevante per l’ordinamento, salvo il disposto dell’art. 1345 cod. civ. in tema di motivo illecito e comune a entrambi i contraenti, e salva l’applicazione dell’istituto di matrice giurisprudenziale della presupposizione); in questo, seguendo un principio che si potrebbe definire coessenziale al diritto del lavoro, risiede la principale differenza con la normativa giuslavoristica in tema di recesso, atteso che quest’ultima appunta la sua attenzione proprio sulla tutela delle ragioni soggettive delle parti, e segnatamente della parte considerata ‘debole’ nel sinallagma che costituisce causa del contratto di lavoro , introducendo, proprio in ragione di questo differente principio di fondo che informa tutta la normazione positiva, una serie di deroghe di significativa importanza alla disciplina generale del recesso civilistico ‘generale’; deroghe che qui di seguito si andranno ad analizzare.
2. Il recesso nella normativa giuslavoristica e la sua funzione 'protettiva' nei confronti della persona del lavoratore:
In proposito appare opportuno sin da subito sottolineare che la normativa giuslavoristica, a partire dall’ormai ultracinquantennale – e tuttavia ancora in parte vigente – legge n. 604 del 1966 ha infatti previsto, a tutela non tanto dell’oggettivo dato di fatto della resa della prestazione lavorativa (in special modo nell’ipotesi di lavoro subordinato avente per oggetto una mansione fungibile), quanto della soggettiva posizione della persona del lavoratore, che il recesso esercitato da parte datoriale debba essere sempre sorretto da un giustificato motivo (oggettivo o soggettivo) ovvero da una giusta causa; la disciplina giuslavoristica, quindi, non prevede nella sua configurazione generale (salvo le deroghe che si analizzeranno più avanti) il cosiddetto recesso ad nutum.
Conseguentemente, la norma contenuta nell’art. 2118 cod. civ. secondo cui ciascun contraente può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato dando il preavviso nei termini e nei modi stabiliti dagli usi o secondo l’equità è di fatto disapplicata in favore del lavoratore subordinato, in quanto la normativa generale di cui al richiamato articolo deve essere integrata dalla legislazione speciale in tema di licenziamenti, la quale ha annullato l’originaria equivalenza delle parti nel rapporto di lavoro, relativamente allo scioglimento unilaterale del contratto, in quanto mentre da un lato ha lasciato integra la libertà di recesso ad nutum del lavoratore attraverso le sue dimissioni, dall’altro ha circoscritto il recesso datoriale non supportato da giustificato motivo o giusta causa in un ambito residuale.
Al riguardo, si osserva che il rapporto di lavoro, cristallizzato in una delle sue variegate tipologie contrattuali, come è noto, può dunque essere interrotto a mezzo di una dichiarazione unilaterale, formale (in quanto deve essere, a pena di nullità, intimato per iscritto) e recettizia da parte del datore di lavoro quando alla base di tale recesso vi sia un comprovato motivo di ordine tecnico, organizzativo o produttivo connesso al funzionamento dell’impresa, a prescindere dunque da un apprezzamento soggettivo avente ad oggetto i meriti o i demeriti del lavoratore (cosiddetto giustificato motivo oggettivo); inoltre, può trovare il suo fondamento in una condotta commissiva od omissiva imputabile allo stesso, secondo differenti sfumature di intensità (chiaramente maggiore nell’ipotesi di giusta causa), che, causando una lesione di diversa entità nel vincolo fiduciario inter partes , sono produttive di conseguenze giuridiche differenziate , non ultime quelle in merito alla configurabilità del periodo di preavviso ovvero della necessità di corrispondere al lavoratore espulso dall’organizzazione aziendale la relativa indennità sostitutiva. In sintesi, mentre nel giustificato motivo soggettivo si verifica di fatto un grave inadempimento agli obblighi posti a carico del lavoratore, nella giusta causa si verifica una lesione del vincolo fiduciario fra imprenditore e subordinato, che può trovare il suo fatto genetico anche in comportamenti non integranti un inadempimento delle attività lavorative. Da ciò consegue che, mentre il recesso per giustificato motivo si configura giuridicamente più come una risoluzione per inadempimento che come un vero e proprio recesso; per converso il licenziamento per giusta causa è perfettamente sovrapponibile alla fattispecie della “uscita” unilaterale dal contratto, in quanto non collegata a un inadempimento in senso tecnico – giuridico.
Come si è detto, la ragione per cui l’esercizio del diritto di recesso di parte datoriale soggiace alla necessità di un giustificato motivo o di una giusta causa risiede nella finalità per così dire sociale del diritto del lavoro , branca del diritto nata coevemente alla rivoluzione industriale (e alla contestuale genesi del movimento sindacale, con la formazione dei cosiddetti working parties) con il precipuo scopo di dare delle condizioni esistenziali – ancor prima che lavorative – dignitose ai lavoratori sotto il profilo della stabilità lavorativa (e non casualmente l’aggettivo “dignitosa” compare in una norma costituzionale, l’art. 36, in tema di retribuzione sufficiente, espressamente dettata per la normativa del lavoro, e peraltro circoscritta dalla giurisprudenza proprio al solo alveo del lavoro subordinato ); le rare deroghe presenti nell’ordinamento a tale principio sono dunque improntate ad un’eadem ratio, che si può rinvenire nella minore necessità protezionistica verso il soggetto, o comunque in un differente contemperamento rispetto alle contrapposte esigenze del datore di lavoro, che giustificano così una reviviscenza della desueta norma sopra richiamata di cui all’art. 2118 cod. civ., che viene a riespandere la propria operatività anche in favore del datore di lavoro.
3. Le deroghe previste alla normativa in tema di recesso nel diritto del lavoro e le ragioni poste a fondamento delle stesse. Conclusioni.
Si possono, a tal proposito, enucleare alcune casistiche tipiche previste dall’ordinamento, nelle quali il recesso datoriale non necessita di essere retto da giustificati motivi o da giusta causa, cercando di indagare sulla ragione di tale previsione derogatoria alla luce delle riflessioni svolte finora.
L’ipotesi ictu oculi più evidente è senza dubbio quella costituita dall’esonero della giustificazione (da ultimo apposto nell’art. 1 del D.Lgs. 23/2015 , vale a dire uno dei principali decreti costitutivi del c.d. Jobs Act, che ha significativamente riformato la disciplina dei licenziamenti, il quale, superando le ambiguità del passato, ha espressamente escluso dall’ambito di operatività della legge i dirigenti, circoscrivendone l’ambito di applicazione ai soli operai, impiegati e quadri) per i licenziamenti dei lavoratori inquadrati come dirigenti; tale previsione trova la sua ragione nella particolare apicalità della posizione di tale categoria di lavoratori, già classificati da tempo dalla giurisprudenza come veri e propri ‘alter ego dell’imprenditore’, i quali, come contraltare della posizione di particolare rilievo sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista gerarchico all’interno dell’organizzazione aziendale, non sottostanno alle regole previste per la totalità delle altre categorie di lavoratori descritte dall’art. 2095 cod. civ., dovendosi ritenere sufficiente, ai fini della legittimità del recesso datoriale, la mera allegazione di elementi da cui risulti la tendenziale ‘giustificatezza’ dell’intento espulsivo . Si può quindi affermare che l’intensità della tutela accordata dalla legge è inversamente proporzionale all’importanza che il soggetto riveste all’interno della gerarchia aziendale.
Per tutte queste ragioni, si può ritenere globalmente coerente coi principi che informano la normativa giuslavoristica l’esonero dei lavoratori collocati in area dirigenziale dalla necessità di allegare un giustificato motivo / giusta causa in senso stretto; tale normativa è del resto anche coerente, o quantomeno non in contrasto, con il principio di eguaglianza sostanziale programmaticamente enunciato dall’art. 3 della Carta Costituzionale, atteso che il principio ivi enunciato postula che il trattamento giuridico sia uguale per posizioni uguali o quantomeno equivalenti, mentre può ragionevolmente differire nel caso di posizioni sostanziali (anche radicalmente) differenti, quali risultano essere quelle dei dirigenti rispetto a quelle degli altri lavoratori, sia sotto il profilo del trattamento economico, sia anche sotto il profilo della possibilità di ricollocarsi nel mercato del lavoro data la loro elevata specializzazione.
Un’altra ipotesi classica di recesso ad nutum, perché storicamente presente nella disciplina giuslavoristica, è quella rappresentata dal diritto di recesso che entrambi i contraenti possono esercitare durante il periodo di prova (si parla tecnicamente di recesso poiché tale lemma non si identifica immediatamente con una delle parti del contratto, potendo ben essere esercitato, in linea teorica, tanto dal datore di lavoro quanto dal lavoratore: l’analisi della prassi, tuttavia, evidenzia chiaramente come la previsione si attagli prevalentemente alla parte datoriale, atteso che, nella normalità dei casi, il lavoratore non è mai tenuto a comunicare i motivi che giustificano la sua intenzione di recedere dal rapporto di lavoro, tramite la semplice presentazione delle proprie dimissioni); in questo caso, però, il diritto, pur presentandosi come un diritto potestativo, non sfocia nella mera potestatività datoriale, incontrando il limite oggettivo posto dall’arbitrio e, dalla necessità, in ogni caso, di fornire al lavoratore la possibilità di dar prova delle proprie capacità professionali . In proposito, la giurisprudenza si è espressa nel senso che l’interruzione unilaterale ex parte datoris del rapporto di lavoro durante il periodo di prova costituisce un’ipotesi di recedibilità acausale, dal momento che al datore di lavore è attribuito il diritto potestativo di recesso che non richiede giustificazioni per il suo esercizio, ma non può risolversi nel mero arbitrio del suo titolare, atteso che l'ordinamento, comunque, assegna garanzia costituzionale (art. 4 Cost.) al diritto di non subire un licenziamento arbitrario; conseguentemente l’esercizio del diritto di recesso dell’imprenditore, in quanto atto unilaterale di volontà negoziale, è inefficace, se il suo esercizio trova il proprio fondamento esclusivamente in un motivo illecito.
In funzione, però, della discrezionalità in ordine alla valutazione riguardante l’esito della prova e la conseguente idoneità allo svolgimento delle mansioni lavorative, la semplice dimostrazione da parte del prestatore di lavoro in prova dell'esito positivo della prova stessa non è di per sé idoneo a rendere illegittimo il recesso, dovendo colui che invoca la predetta illegittimità dimostrare l’illiceità del motivo che ha indotto al recesso il datore di lavoro.
Come si è già evidenziato, quindi, il recesso durante il periodo di prova si presenta come tendenzialmente acausale, tanto che si è persino arrivati ad affermare che il patto di prova costituisce una vera e propria condizione sospensiva ex art. 1353 cod. civ , il che configurerebbe peraltro la mancata definitiva assunzione del lavoratore non come conseguenza dell’esercizio di un diritto soggettivo del datore di lavoro, ma come il mancato avveramento di un fatto oggettivo dedotto come condicio iuris del contratto di lavoro.
In questo caso la non obbligatorietà dell’allegazione di un giustificato motivo ovvero di una giusta causa trova il suo fondamento sia nel fatto che il licenziamento non è del tutto ad nutum, considerato che il recesso deve in ogni caso reggersi sulla non idoneità lavorativa del prestatore espulso, sia, avendo riguardo alle esigenze più “esistenziali” del lavoratore, nella constatazione di fatto che il periodo di prova non può comunque eccedere una durata di sei mesi e prevede dunque un inserimento non consolidato nell’organizzazione aziendale; per cui, atteso il non definitivo inserimento del lavoratore nell’impresa, risulta anche attenuata l’esigenza e la correlativa tutela al mantenimento del posto di lavoro.
Fattispecie ibrida, anche riguardo al diritto di recesso, si presenta nell’ipotesi del contratto di apprendistato, ove, nei tre o cinque anni del periodo formativo il lavoratore gode di tutte le tutele del contratto di lavoro a tempo indeterminato, così come, ovviamente, gli vengono riconosciute nel caso di inserimento stabile all’interno dell’impresa al termine del predetto periodo formativo; l’anomalia si riscontra, però, al termine del triennio (o quinquennio) formativo, e prima dell’assunzione, in quanto, in tale finestra, il datore di lavoro può esercitare il diritto di recesso ad nutum ex art. 42, comma 4 del D.Lgs. 81/2015, il che pone tale particolare tipologia contrattuale “a metà” tra il patto di prova e il lavoro subordinato strictu sensu, rendendo così fattispecie di più complessa interpretazione in quanto posta in evidente deroga ai principi sinora evidenziati, comuni a tutta l’impalcatura del diritto del lavoro.
La ratio legis di tale deroga, come ha attentamente evidenziato la dottrina, va individuata nella volontà di offrire uno strumento più flessibile e meno costoso agli imprenditori, realizzando così un favor datoris, laddove si consideri che, nel recente c.d. “Decreto Dignità” (D.L. 87/2018) il termine massimo per il lavoro a tempo determinato è pari a due anni, mentre nel contratto di apprendistato, di fatto, il “tempo determinato” può variare tra i tre e i cinque anni, avendo, allo spirare di tale termine, l’imprenditore assoluta discrezionalità nell’esercizio del diritto di recesso (che, nel caso di specie, si traduce in un licenziamento, mascherato dal termine della fase formativa dell’apprendistato).
Le ulteriori ipotesi residue di recesso non giustificato presenti nell’ordinamento italiano sono quelle del recesso dal contratto stipulato con uno sportivo professionista ovvero con un lavoratore che abbia raggiunto i requisiti per la pensione di vecchiaia, avendo la giurisprudenza chiarito che tale principio non possa attagliarsi ai lavoratori che abbiano raggiunto i requisiti per la pensione di anzianità ; nel caso dello sportivo professionista, la ratio posta a fondamento della disposizione normativa risiede nella stessa struttura del contratto di lavoro dello sportivo, il quale, in antitesi con il contratto di lavoro subordinato classico, è ex lege strutturato come un contratto a tempo determinato, mentre nell’ipotesi del pensionamento per raggiunti limiti di età non sussiste più, per il lavoratore, più l’esigenza di ricollocarsi nel mondo del lavoro quale stretta necessità.
Fatta dunque eccezione per l’ipotesi del recesso al termine del periodo formativo dell’apprendistato, la cui ratio legis, come si è sopra accennato, risulta più difficilmente perscrutabile – verosimilmente lo si potrebbe assimilare a un mancato superamento del periodo di prova, in relazione alle specifiche capacità acquisite (o meno) dall’apprendista lungo la fase formativa – tutte le altre casistiche nelle quali non è prevista l’allegazione di un giustificato motivo o una giusta causa trovano il loro fondamento nella particolarità soggettiva del lavoratore, per aver egli, almeno in astratto, più facilità a ricollocarsi nel contesto lavorativo, o per non aver più egli questa necessità.
È qui che risiede, in ultima analisi, il reale nucleo del ragionamento che si è tentato di sviluppare nel presente lavoro: un unico strumento giuridico, vale a dire il diritto potestativo di recesso, può, a seconda del settore dell’ordinamento nel quale viene collocato e del soggetto al quale viene attribuito, acquisire valenza e significato completamente antipodali, costituendo infatti lo stesso nel diritto civile un’attuazione, seppur peculiare, del principio di autonomia contrattuale , trovando tale diritto, almeno riguardo al recesso convenzionale, pur sempre il proprio fondamento in un accordo delle parti, mentre nella normativa del rapporto di lavoro la regolamentazione del recesso appare teleologicamente indirizzata alla conservazione del vincolo contrattuale, attraverso una serie di regole e principi che assicurano la continuità del rapporto qualora non vi fosse un giustificato motivo (o una giusta causa) effettivamente sussistente che sorregga tale unilaterale manifestazione di volontà da parte di uno dei due soggetti che si vincolano al contratto di lavoro (id est: il datore di lavoro); e ciò in ossequio alla funzione (almeno tendenzialmente) protezionistica della normativa giuslavoristica, la quale sin dalla sua genesi ha sempre perseguito lo scopo di tutelare il lavoratore quale parte debole del rapporto contrattuale.
In ragione però della funzione sopra indicata, appare coerente per l’interprete domandarsi se, tuttavia, tale ragionamento, sicuramente valido a partire dall’entrata in vigore della l. 604/66, e senza dubbio rafforzato con l’emanazione dello Statuto dei Lavoratori che per primo approntò la tutela reintegratoria in capo al lavoratore illegittimamente licenziato, possa ritenersi ancora valido ed attuale alla luce della più recente legislazione, informata dal paradigma di derivazione comunitaria della cosiddetta flexicurity (termine che vorrebbe coniugare flessibilità e tutele) e che ad ogni modo vede un quadro normativo fortemente variato in seguito alla promulgazione del D.Lgs. n. 23/2015, che ha notevolmente attenuato il ricorso alla “tutela reale”, con un connesso ampliamento della tutela “obbligatoria” (previsione che naturalmente, di per se stessa, va semplicemente nella direzione della flessibilità: la componente “security” è invece demandata ad altri provvedimenti normativi, disciplinanti il sistema degli ammortizzatori sociali – già effettivamente presenti – e il collocamento sul lavoro – settore in cui l’ordinamento italiano è invece più scricchiolante -).
In sostanza, volendo riportare nell’alveo del recesso il principio appena esposto, non può non rilevarsi che, stante l’eliminazione (o comunque la significativa riduzione) dell’obbligo di reintegrazione, al datore di lavoro è di fatto attribuito un diritto di recesso, con correlativo obbligo risarcitorio – indennitario a favore del lavoratore subordinato; infatti, al di là di ogni valutazione politica e ideologica, aliena al presente scritto, l’unico vero modo per frustrare il recesso inteso come exit way dal contratto, è quello della reintegra, perché è il solo modo attraverso cui il rapporto lavorativo viene mantenuto in vita.
Poco incide, in questa cornice inerente al recesso, la pur dirompente recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 194/2018, la quale ha affermato l’incostituzionalità del sistema delle cosiddette “tutele crescenti” stabilito dal predetto Decreto Legislativo, che prevedono, come è noto, la corresponsione di un importo predeterminato al lavoratore, che viene parametrato esclusivamente in funzione dell’anzianità di servizio, esautorando in questo modo il Giudice dalla sua funzione giudicante (o quantomeno, dalla finestra di discrezionalità concessa dalla previgente normativa, che faceva salva un’autonomia giudiziale basata su una pluralità di parametri quali, a titolo esemplificativo, i carichi di famiglia, l’intensità dell’illegittimità della condotta datoriale, e, non ultima, la stessa anzianità di servizio).
E tuttavia, tale pronuncia della Consulta, pur rafforzando in linea di massima la posizione del lavoratore subordinato (o comunque fornendogli un ventaglio di garanzie più ampio), non modifica certo l’impianto voluto dal legislatore delegato del Jobs Act, atteso che si preoccupa esclusivamente di rimodulare i criteri di quantificazione della tutela obbligatoria, affidandoli in parte alla discrezionalità (motivata) del giudicante, senza però in alcun modo alterarne il perimetro, consentendo quindi in un’ampia varietà di situazioni in cui il datore di lavoro può recedere dal rapporto, avendo comunque la certezza che il lavoratore licenziato (anche illegittimamente) non rioccuperà mai più la propria posizione lavorativa in azienda.
Il problema affrontato dal Giudice Delle Leggi quindi è, in sintesi, circoscritto al quantum, ma lascia inalterato l’an.
Appare, per questo motivo, non peregrino domandarsi non tanto se la funzione del recesso sia venuta a coincidere nel diritto civile e nel diritto del lavoro, poiché è evidente che la questione non riposa in termini così assolutistici, ma quantomeno se ci sia stato un avvicinamento tra le due fattispecie (e le rispettive rationes), e soprattutto, se tale avvicinamento (che può anche configurarsi, al ricorrere di determinate condizioni, come una scelta politica precisa e non necessariamente sbagliata) sia adeguatamente compensato da una corretta attuazione del principio di flexicurity di cui si è argomentato, in ragione della quale l’eventuale recesso attuato dal datore di lavoro (legittimo o meno) non si tradurrebbe mai, avendo sempre come bussola le finalità sociali del diritto del lavoro, in un’estromissione forzata della persona dal circuito del mercato lavorativo, per effetto del combinato tra la corresponsione di ammortizzatori sociali all’uopo preposti e di un’efficace procedura di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro, che peraltro le ultime riforme, improntate ad una politica più eminentemente assistenzialistica, sembrerebbero sconfessare.