Testo integrale con note e bibliografia
Per “leggere” e decifrare tutti gli importanti e tumultuosi cambiamenti avvenuti nel mondo del lavoro, occorre oggi dotarsi di una nuova capacità di sguardo. Servono occhiali bifocali che ci garantiscano una visione nitida, da vicino e da lontano. Da vicino, con occhio attento alle esperienze in atto che ci evidenziano, sopra ogni altra osservazione, che un posto di lavoro non è e non sarà più per tutta la vita. Da lontano, soprattutto guardando ad altri Paesi europei che hanno sperimentato rapporti di lavoro improntati all’agilità e alla continua evoluzione.
Sono la mobilità e la flessibilità oltre alla c.d. digitalizzazione lavorativa, ad aver segnato e modificato le tradizionali forme di organizzazione del lavoro. Uno scenario complesso e complicato dall’inadeguatezza dell’ordinamento italiano nel sostenere la crescita del sistema produttivo nazionale.
Questa è la “drammatica” esperienza di un avvocato giuslavorista che assiste (ormai impotente) alle sconsolanti carenze del complesso delle norme giuridiche e all’incapacità di fissare una rotta decisa senza dover sempre cercare, di volta, in volta, bussole che indichino un orientamento.
La verità è che le debolezze del sistema giuridico provocano conseguenze nefaste. Le imprese sono costrette a navigare in mari burrascosi e difficilmente sopravvivono se non possono disporre della scialuppa di salvataggio degli aiuti pubblici.
Molte delle imprese italiane non hanno gambe robuste sulle quali camminare e crescere. Crescono, invece, i casi di imprese straniere che non trovano appetibile e conveniente investire in Italia e guardano ad altri Paesi europei che possono contare su organizzazioni del lavoro più dinamiche. E non offrono certo un esempio incoraggiante quelle imprese nazionali che abbandonano il territorio italiano verso mercati e sistemi normativi più ragionevoli, dove la burocrazia e la giustizia civile non rischiano di intralciare lo sviluppo .
Ad essere nemiche dell’impresa sono normative di difficile ed incerta applicazione (anche l’interpretazione giudiziaria). Eppure, invece, l’economia nazionale richiederebbe adattamenti veloci per quanto riguarda tutta la mole della legislazione che condiziona l’economia.
Prendiamo il caso dei licenziamenti collettivi. Or bene, la disciplina dei licenziamenti collettivi, che incide assolutamente con priorità sulla flessibilità della produzione, risale al lontano 1991 (Legge n. 223). Peraltro si tratta di disposizioni che non hanno subito essenziali modifiche legislative (ed è questa una rarità nel panorama del diritto del lavoro italiano !). La procedura delineata dalla legge nel recesso dai contratti di lavoro provoca disagio, incertezza ed ansia nella gestione dell’impresa.
Vi è da dire, senza alcun dubbio, che gli organigrammi aziendali complessi e articolati non aiutano ad individuare quali siano le figure professionali in eccedenza. Di solito, diventa farraginosa ed estremamente faticosa la contrattazione sindacale per delineare un accordo sulla gestione degli esuberi. E‘ una trattativa intrisa di sospetti reciproci e di enormi difficoltà nella precisazione delle esigenze di “dimagrimento” aziendale. L’imprenditore si propone con la già convinta volontà di estromettere dipendenti ben individuati. E’ pressoché difficile, quasi impossibile, cercare di spiegare che la norma non consente passi affrettati. L’imprenditore deve seguire un percorso selettivo estremamente articolato che diventa, nei fatti, una vera e propria corsa ad ostacoli. Il sindacato, dal suo canto, non condivide le scelte imprenditoriali, teso come è alla conservazione di tutti i posti di lavoro. Inizia un gioco a nascondino delle parti che finisce con il condurre al fallimento della trattativa.
Quando il licenziamento è divenuto effettivo, la difficoltà di capire la scelta imprenditoriale si trasferisce nelle aule giudiziarie.
Il giudice, assolutamente digiuno di organizzazione aziendale, sulla base di criteri meramente formali, finisce col legittimare la “ricostruzione” di un’organizzazione aziendale ovvero mantenere la stessa organizzazione (in caso di declaratoria di illegittimità del licenziamento). Ne deriva che la sorte di un’impresa viene affidata a criteri assolutamente vetusti (col malcelato intento di mantenere il principio di parità ed eguaglianza fra i dipendenti). Ci si limita a riscontri di comparazione di anzianità o di carichi familiari, ma in questo percorso, si dimenticano assolutamente le esigenze della produzione.
Nel procedimento giudiziario, spesso, sia l‘avvocato sia il giudice non cercano di chiarire e motivare le reali esigenze dell’impresa per un suo più proficuo sviluppo. Avvocati e giudici non combattono su questo punto che sarebbe assolutamente il tema centrale della disputa e cioè, fare chiarezza sulla necessità dello sviluppo, ma, inevitabilmente, avvocati e giudici si fronteggiano sul criterio di pariteticità fra i dipendenti.
L’impresa, dunque, non è certamente “liquida” nel suo adattamento alla richiesta del mercato, ma ne esce incatenata da eccessi di formalismi giuridici. Dall’inizio della fase stragiudiziale fino alla fine della fase giudiziaria, non è assolutamente facile (possibile?) prevedere l’esito dell’iniziativa dell’imprenditore che si trova nella massima incertezza sul suo futuro, perché legato all’imponderabilità dell’intervento pubblico nella procedura di licenziamento ed altresì all’imprevedibilità dell’esito giudiziario.
L’imprenditore si muove in un contesto nel quale avverte troppi nemici: il sindacato, poi, la Pubblica Amministrazione e anche il giudice e pure i dipendenti che talora accettano l’improduttività aziendale (e semmai il fallimento) piuttosto che il licenziamento.
Se l’impresa non è “liquida” nella sua capacità di adattarsi ai tumulti del mercato, diventa, invece, “liquida”, perché perde il suo contenitore che è il mercato. Rimettere al giudice la decisione finale rispetto alle sorti di un’organizzazione aziendale (perché questo è quello che davvero accade nelle aule di giustizia) significa perdere di vista la realtà dell’attuale globalizzazione dell’economia. Le imprese sono ormai organizzazioni estremamente complesse (si pensi addirittura ai gruppi internazionali) dove le ristrutturazioni sono quotidiane (o quasi) : cambiano velocemente uomini e competenze.
Uomini (imprenditori, sindacalisti, avvocati e giudici) devono avere una competenza polifunzionale per decidere del futuro di un’organizzazione così importante e delicata come è l’impresa, un centro di sperimentazioni sociali e di produzione di ricchezza collettiva. Sguardo nuovo, dicevamo nella tranche d’avvio di questo scritto, e aggiungiamo: con la messa in pratica di quella capacità intellettiva che si chiama apofenia/pareidolia. Non ci renderebbe incolpevoli non saper vedere e non sapere guardare. Restare ad occhi chiusi, poi, sarebbe fonte di un rischio che non possiamo permetterci, pena la perdita di ogni possibilità di governare i cambiamenti.
Nelle aule di giustizia, invece, continuamente si riproduce un atteggiamento eccessivamente protettivo nei confronti dello status quo dell’impresa che non aiuta, ma anzi, ostacola il pieno dispiegarsi dell’attività dell’impresa stessa. Rigide interpretazioni delle normative non consentono di accogliere in maniera positiva un nuovo progetto di crescita e di sviluppo, mentre si ha a che fare con una società che ha l’attitudine a modificarsi continuamente. Invece di provare a percorrere sentieri nuovi, si preferisce battere la strada già conosciuta e rassicurante. E qui sta l’errore! Non è rassicurante, infatti, affidarsi a quello che già conosciamo e abbiamo sperimentato. Perseverare su un cammino collaudato può davvero riservare molte incognite.
Questo è lo scenario che un avvocato giuslavorista vede passare ogni giorno davanti ai propri occhi. E, allora, se la società nelle sue diverse articolazioni (si pensi all’inarrestabile sviluppo dell’evoluzione tecnologica) si propone flessibile e modificabile, come può, invece, l’organizzazione del lavoro restare rigida e inamovibile? Nessuno trae vantaggio da un’ostinata conservazione del presente che si tiene puntellato sul passato. Se come studi e ricerche ci illustrano, il 65% dei giovani che frequentano la scuola, nell’arco dei prossimi dieci anni farà un lavoro che ancora non esiste né si riesce ad immaginare (e i lavori che resisteranno saranno organizzati in maniera diversa), allenare la nostra mente alla flessibilità e pensare fuori dagli schemi è una strada obbligata.
Sta a tutti noi (imprenditori, sindacalisti, avvocati, giudici) guardare bene dentro la realtà e prendere le distanze da ciò che frena e ingabbia. La normativa più recente ci offre a riguardo l’opportunità di ripensare, di cogliere nuove opportunità anche dove mai avremmo pensato si potessero trovare.
Consideriamo la disciplina della mobilità orizzontale prevista dal nuovo testo dell’art. 2103 c.c. (la sua formulazione era ferma al 1970) come novellato dall’art. 3, comma 1 del D.Lgs. 81/2015, nell’ambito della riforma del lavoro attuata con il c.d. Jobs Act. Nel ridisegnare i limiti all’esercizio del potere di jus variandi , è stato abolito il parametro dell’equivalenza, sostituito, invece, dal criterio per cui le mansioni devono essere “riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento” delle precedenti mansioni concordate o effettivamente svolte.
Se la precedente formulazione della disposizione era tutta imperniata sulla tutela della professionalità del lavoratore, la novella legislativa effettua un provvido bilanciamento tra le esigenze organizzative aziendali e la conservazione della professionalità del lavoratore.
A prevalere, ora, è una visione dinamica, più adatta a governare i processi di cambiamento della produzione e dell’organizzazione del lavoro, spesso di portata radicale, in conseguenza delle innovazioni tecnologiche che hanno investito le attività produttive.
Il fatto, però, è che, invece di guardare alle novità come elemento propositivo di sviluppo, nuova opportunità o diversa e possibile “way of working”, si dà fiato al senso di timore per una paventata perdita di posizione acquisita e consolidata. Una percezione più marcata, soprattutto nei lavoratori anziani, poco avvezzi ai cambiamenti e più orientati al bisogno di certezze “immodificabili” .
A soddisfare questo bisogno di granitiche certezze è soprattutto quello che i lavoratori già conoscono ed hanno sperimentato. “Potrei essere assegnato a mansioni inferiori e veder svilite tutte quelle capacità che ho accumulato nel tempo”, è il pensiero ossessivo che ha fatto breccia tra molti di loro. Eppure, la norma parla chiaro: il lavoratore può essere assegnato (unilateralmente) a mansioni di livello immediatamente inferiore a quello di inquadramento solo “in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali”. Un perimetro ben delineato che non deve sfociare in alcun arbitrio o pretesto e assegna al datore di lavoro l’onere della prova del giustificato motivo dell’assegnazione a mansioni inferiori. Ci deve essere, insomma, un nesso oggettivo di causalità tra la riorganizzazione aziendale e l’adibizione a mansioni inferiori. La norma non mira ad accrescere i poteri del datore di lavoro rendendo più vulnerabile il prestatore di lavoro. E’ una disposizione, invece, che tende a semplificare i rapporti di lavoro prevedendo specifiche garanzie dispositive e procedimentali a protezione del lavoratore.
Vi è da dire che il nuovo scenario disegnato dalle novità del Job Act profila anche un diverso ruolo del giudice nell’esame della legittimità dell’azione datoriale. In concreto, il giudice è chiamato a verificare sul piano formale se le nuove mansioni siano riferibili allo stesso livello di inquadramento di quelle precedentemente svolte finanche “alla progressiva riduzione del controllo giudiziale sull’esercizio dei poteri datoriali e nel senso della ricerca di una maggiore certezza del diritto” .
Quello che davvero si avverte è la diffidenza tra imprenditore e lavoratore che neppure tutte le buone intenzioni del mondo (né le norme) riescono a scalfire. Così è accaduto e accade che l’impresa orientata a riorganizzare o ristrutturare, si ritrovi suo malgrado, a difendere in Tribunale le proprie motivazioni alla base di scelte organizzative-produttive (che, talvolta, sono anche una soluzione per conservare i posti di lavoro). Come se l’imprenditore avesse avuto carta bianca e potesse fare e disfare a proprio piacimento, non curandosi dei confini che pone la norma.
Dall’osservatorio di un avvocato giuslavorista, ad emergere con nitidezza, (ma anche con profonda preoccupazione) è, in definitiva, la circostanza che la legge prova a tenere il passo, ma lo fa con grande fatica e in questo cammino zoppicante, finisce per complicare ed appesantire, invece, di semplificare ed alleggerire come si domanda da parte delle imprese.
E’ desolante sperimentare che la legge, anche quando sta dalla parte di una visione più lungimirante, sia in affanno nel fare il proprio dovere. Eppure, accade che, talvolta, anche l’introduzione di lodevoli interventi normativi possa rivelarsi un limite per lo sviluppo dell’impresa. E’ il caso dell’assunzione dei soggetti disabili regolata dalla L.68/1999, profondamente modificata dal D.Lgs. 151/2015 .
Nata con la finalità di tutelare i soggetti deboli, e quindi meritevoli della dovuta attenzione, nella prassi, la nuova normativa ha sollevato più di un problema di non poco conto. Le imprese di piccole e medie dimensioni si sono sentite appesantite da questo obbligo e, attraverso le organizzazioni di categoria, hanno manifestato un aperto dissenso . Per buona parte di loro, il collocamento obbligatorio contraddice il principio del collocamento mirato che è il perno della legge. E’ opinione condivisa e diffusa che l’obbligatorietà dell’inserimento al lavoro dei disabili possa costituire un onere economico troppo elevato da poter sostenere. Tra le organizzazioni di categoria prevale la convinzione che dovranno essere ben individuati i profili professionali da inserire nelle imprese paventando anche la possibilità che la virtù della legge si trasformi in un freno allo sviluppo dell’impresa.
Allora, non è pessimistico ritenere che su questo fronte i contenziosi potranno prendere campo. L’amara conclusione, dunque, è che anche una legge virtuosa rischi di non trovare la marcia giusta e, soprattutto, con il risultato che nessuno ne tragga beneficio, ma, anzi, inasprendo le relazioni lavorative e umane.
Diverso, per le imprese di maggiori dimensioni che, in maniera pioneristica hanno messo in atto “buone pratiche”. A riguardo, restando in argomento, risultati imprevedibili e sui quali porre una lente d’ingrandimento sono emersi dalla ricerca "I manager e la gestione dei lavoratori con disabilità". L'indagine, realizzata da AstraRicerche, promossa da Aism (Associazione Italiana Sclerosi Multipla), Prioritalia, Manageritalia e Osservatorio Socialis è stata presentata nel maggio scorso a Roma nel corso del convegno "Disabilità & Lavoro - La sfida dei manager. Rinnovare cultura, organizzazione, competenze”. La ricerca ha elaborato 700 risposte di manager italiani. Orbene, l’88,2% ha dichiarato che la gestione di un lavoratore disabile impone un miglioramento gestionale e organizzativo che va a vantaggio di tutti gli altri dipendenti e dell’azienda stessa. Un vero e proprio ripensamento sulle mansioni e sulle attribuzioni dei compiti.
Musica per le orecchie di quelle imprese che hanno guardato con scrupolosa attenzione ai cambiamenti in atto e si sono ormai convinte che era tempo di fare. Imprenditori decisi ad affermare che a dare robustezza ad un’impresa aperta, dinamica, “liquida” siano le innovazioni tecnologiche, ma soprattutto gli uomini, con le loro capacità di essere flessibili e di forgiare l’organizzazione del lavoro richiesta dai tempi nuovi (e, magari, provando ad anticipare il nuovo!). In definitiva, quello che con un linguaggio manageriale, si chiama gestione delle risorse umane.
Nelle aule di giustizia, in verità, non si discute di risorse umane, ma certamente di istituti che impattano profondamente sulle risorse umane. Questo accade, ad esempio, quando si affrontano questioni dirimenti come quella dell’orario di lavoro (oggetto di una profonda trasformazione). E’ questo uno dei temi che sollecita una seria riflessione e che sta investendo gli studi lavoristici . Una vera e propria parabola di cosa siano divenute la società e le imprese: fatti e persone, storie e vicende che si intersecano come in una matrioska.
La scomposizione degli stili di vita, sempre meno massificati e ingabbiati in poche griglie uguali per tutte, pone giuristi, sociologi, studiosi dell’organizzazione, imprese e sindacati dinanzi al fatto che non ci si può affidare ad una sola risposta per comprendere e fronteggiare fenomeni complessi alimentati da una società “liquida” quale è la nostra.
Il rapporto tra i giovani e il mondo del lavoro così come si è andato configurando negli ultimi dieci anni, per esempio, ci evidenzia un caleidoscopio di comportamenti e progetti di vita che incidono su aspetti del rapporto di lavoro quali orario, luoghi, formazione, percorsi di carriera. Si è affermata prima la percezione, poi la convinzione, che la realtà cammini ben più in fretta delle normative e dei progetti aziendali. Vi sono giovani (ma anche meno giovani) che si muovono esclusivamente in un ambito lavorativo contraddistinto non soltanto dalla mancanza di un posto fisso, ma da lavori on demand attraverso piattaforme ed app dedicate .
Non è facile identificare il confine tra esigenze aziendali alle quali stanno strette le tradizionali garanzie contrattuali e la volontà di gruppi di lavoratori (comunque non si può leggere questa realtà come se rappresentasse tutto il mondo del lavoro) di decidere, per quanto possibile, il tempo da dedicare al lavoro, di eseguire più lavori (e non soltanto per ragioni di maggior reddito), magari di lavorare restando a casa invece di essere regimentati nei flussi pendolari e nella scansione dei tempi dettata dalla timbratura dei cartellini.
La lettura dei fenomeni in atto è, però, continuamente disarticolata e mette in discussione analisi e previsioni. Talvolta, ancor prima che il legislatore intervenga a regolamentare situazioni cocenti, queste sono sottoposte all’esame delle corti giudiziarie. E’ il caso dei c.d. riders che hanno intentato una causa nei confronti della società tedesca di food delivery Foodora. Il Tribunale di Torino , ha respinto le domande dei fattorini volte all’accertamento della subordinazione al fine di ottenere il relativo trattamento economico e normativo. I lavoratori, ha rilevato il Tribunale, “non avevano obbligo di effettuare la prestazione lavorativa”, né il datore di lavoro aveva obbligo di riceverla. In concreto, questi lavoratori non erano “sottoposti al potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro”. Tuttavia, ancora qui, il giudice risulta inadeguato a risolvere “la vita” sulla base di vetusti canoni giurisprudenziali: non è più suo compito. O meglio non ha gli “attrezzi” per intervenire in quel nuovo mondo.
Il nuovo, dunque, avanza (ancorché limitato ad alcuni segmenti del mondo del lavoro) e lancia sfide estremamente complesse ad un impianto del diritto del lavoro sedimentato sulla omologazione della società con i suoi orari, (assolutamente quasi uguali per tutti, come nell’era fordista) e con la sua concentrazione dei lavoratori in fabbriche e uffici.
Potrà essere, forse, il “lavoro agile” come una particolare modalità di svolgimento della prestazione lavorativa subordinata, oggetto di specifica pattuizione tra le parti, una delle risposte possibili e meno traumatica, anche per chi è refrattario ai cambiamenti o per chi non vuole essere bloccato in regole rigide?. Lavoro, ma senza l’obbligo di presenza in azienda né di orario . In definitiva, un nuovo approccio all’organizzazione aziendale in cui le esigenze individuali del lavoro si accordano in maniera complementare con quelle dell’impresa, anche attraverso la responsabilizzazione del lavoratore che, a fronte di un’autonomia gestionale (di spazi, orari e strumenti da utilizzare) deve conseguire un risultato utile all’organizzazione del lavoro.
Un recente ed interessantissimo survey dell’Employer Brand Research 2018, pubblicato da “Il Corriere della Sera” il 8.07.2018, ha precisato i dieci principali fattori per scegliere un datore di lavoro in Italia. Il 55% degli intervistati ha indicato “l’equilibrio vita-lavoro”; il 48% “retribuzione e benefit”; il 46% “sicurezza sul posto di lavoro”; solo il 16% “utilizzo delle ultime tecnologie” (ovviamente agli intervistati venivano prospettati tutti i fattori al fine di verificare l’incidenza di ciascuno di essi).
Se ne ricava che rimane lo zoccolo duro della immutabilità del posto di lavoro durante la vita lavorativa (ma siamo calati al 46%, circostanza significativa rispetto ai tempi passati: il 54% , ovvero la maggioranza, si rende conto che sono cambiati i tempi). Direi naturale e scontato (ma ancor qui non in maggioranza) l’attenzione primaria alla retribuzione ed al welfare: da qui la necessità assorbente che le imprese si adeguino a premi di produttività e adattamenti più stimolanti nel campo welfare.
Ma ciò che da una parte conforta e dall’altra sconforta sono gli altri due dati residuali, ovvero il 55% predilige “l’equilibrio vita-lavoro” e solo il 16% “le innovazioni tecnologiche”: fattori che sono antitetici.
Sappiamo che il lavoro agile si basa essenzialmente e principalmente sulle innovazioni tecnologiche ed è la modalità di espletamento della prestazione lavorativa che maggiormente favorisce l’equilibrio vita-lavoro.
Quindi non è facile a comprendersi la dicotomia fra l’uno e l’altro fattore.
Sembra che il lavoratore aspiri ad una situazione lavorativa ottimale che, però, non è in grado di gestire rifiutandosi di utilizzare quegli strumenti che, unici, gli consentono di goderne.
E’ pur vero che la gran parte dei lavoratori attuali (data l’alta disoccupazione giovanile) appartiene ad una generazione che non ha eccessiva dimestichezza con gli strumenti più avanzati della tecnologia presente (ed ancor più futura) e, quindi, pur aspirando a quell’equilibrio di vita-lavoro, di cui tanto si parla e di cui si è inevitabilmente convinti, non è in grado di realizzare.
Sarà interessante verificare con altro survey, nel prossimo futuro, quanti saranno i contratti “agili” conclusi, per controllare se il numero corrisponde o meno a quel 16% dell’attuale ricerca.
All’attualità, però, il dato, così negativo rispetto all’accettazione delle innovazioni tecnologiche, non favorisce né la flessibilità (in termini generali) né l’adattamento organizzativo alle esigenze del mercato.
E qui si aprirebbe il capitolo relativo alla necessaria formazione continua delle risorse umane ancor più impellente e rilevante nell’attuale era tecnologica.
Forse quel 16% avrebbe un’impennata consistente a riprova che anche le imprese “liquide” debbono investire in formazione per vincere la sfida del costante adeguamento del personale alle loro esigenze: e tale arricchimento non potrebbe che incentivare la cultura della flessibilità e delle mobilità sia interna che esterna alla singola impresa, avvantaggiandosene tutti, impresa e risorse umane, ed in ultimo la produttività.
Eppure si devono aprire ragionevoli opportunità attraverso le quali rivitalizzare il dialogo sociale nel quale gli attori collettivi sono chiamati a ridefinire i propri ruoli in una nuova e possibile alleanza tra impresa e lavoratore.
Alleanza tra impresa e lavoratore (dicevamo sopra) che troverebbe ancora e singolarmente il conforto di una norma semplicissima, ma efficace che ha resistito 76 anni ovvero la inossidabile disciplina del lavoro subordinato che evidenzia nel codice civile del 1942 la sua fonte essenziale: art. 2094 “e’ prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”. Il legislatore utilizza il termine “collaborare” ovvero cooperare, lavorare insieme, dove il profilo congiunto delle attività risalta in modo evidente.
La giurisprudenza e il sindacato nei decenni successivi hanno individuato elementi conflittuali di contrapposti interessi e ruoli, allontanando quel concetto originario di collaborazione che si è perso nell’oblio.
L’antica collaborazione risorge oggi con l’originario significato, perché l’interesse all’organizzazione più proficua è ormai nella quotidianità aziendale.
E’ giunto il momento che il legislatore semplifichi al meglio le numerose fattispecie (sottospecie?) del lavoro subordinato che si sono stratificate nei lustri al fine di rendere più diretto e più facile il ricorso all’inserimento nel mercato del lavoro.
Sicuramente siamo in un’epoca in cui c’è (e ci deve essere) più autonomia nel lavoro subordinato per una maggiore produttività e responsabilizzazione di entrambe le parti nella realizzazione del risultato.
Siamo alla soglie di un lavoro sempre più autonomo nell’alveo di una subordinazione che rimane quasi solo formale. E’ immaginabile l’estinzione del lavoro subordinato?
Ovviamente ne scorrerà d’acqua sotto i ponti, ma responsabilità e autonomia contraddistingueranno il lavoro del futuro prossimo.
Il sindacato non perderà né d’importanza né di significato: il lavoro autonomo nelle sue varie declinazioni è pur sempre lavoro da tutelare, in tutte le sue ipotetiche fattispecie.
Si tratterà di una riconversione non tanto della funzione sindacale quanto del soggetto e della prestazione tutelata. In questo senso, a piccolissimi passi, si muove il lavoro agile e il lavoro su piattaforma digitale che (come l’energia elettrica nella locomozione e nei trasporti) sostituirà i vecchi canoni giurisprudenziali del lavoro subordinato ormai fatiscente.
Ne potrà derivare semmai maggior controllo sui supporti tecnologici utilizzati dall’operatore: ma, ancor qui, in parte inevitabile per la connessione funzionale del supporto allo svolgimento della prestazione, in parte corretto, negli eccessi maliziosi e ingiustificati, da una normativa sulla privacy di sempre maggior garanzia dei diritti fondamentali.
Sui reciproci abusi delle parti dovrà lavorare l’educazione alla legalità, il rispetto della reciproca “collaborazione”, l’interesse al mutuo profitto (anche sotto nuove forme di partecipazione di welfare). Il tutto governato dal principio ispiratore della “semplificazione” del rapporto così frantumato e reso complicato nei tre quarti del secolo trascorso, con picchi di conflittualità spesso anche autolesivi.
Dell’art. 2094 c.c. rimarrà la dipendenza economica (questo carattere inevitabile e da tutelare), ma sempre meno (fino forse a scomparire) la direzione.
La rivoluzione economica tecnologica di ogni giorno (direi ad horas) non lascia spazio a figure del passato: il diritto non può, in questo settore ed in questo momento, come sempre è accaduto, arrivare in ritardo rispetto alle innovazioni (ed alla vita) dell’uomo.
La definizione di piani strategici aziendali passa quindi dalla condivisione tra datore di lavoro e lavoratore che sperimentano insieme metodi innovativi capaci di soddisfare le esigenze delle imprese che vogliono proporsi come “liquide” sul mercato del lavoro ovvero adattabili, come l’acqua, ai contenitori del mercato in cui operano.
Semplificare il lavoro, facilitare i rapporti tra le persone sono tutte sfide complesse che esigono una nuova visione, un punto di vista dal quale, come spronava Einstein, continuare a meravigliarsi e a provare stupore