Testo integrale con note e bibliografia
1. La fattispecie concreta, la questione giuridica fondamentale e la soluzione della Cassazione
Una persona fisica e un ente si accordano affinché la prima svolga in favore del secondo, dietro retribuzione, varie attività – a quanto pare – di consulenza. L’ente ritiene che il rapporto intercorso sia di lavoro autonomo, ma la persona fisica sostiene che si sarebbe in realtà instaurato un rapporto di lavoro subordinato, agendo in giudizio affinché ciò sia riconosciuto, con condanna del datore di lavoro al pagamento delle relative differenze retributive e all’accantonamento del trattamento di fine rapporto.
Tralasciando alcune altre problematiche di ordine meramente o prevalentemente processuale (per le quali si rinvia al testo della sentenza), la questione giuridica fondamentale è una sola, ovverosia la precisazione degli elementi sulla base dei quali il contratto di lavoro subordinato si distingue dal contratto d’opera e dagli altri tipi in materia di lavoro autonomo.
In tutti e tre i gradi del processo, i giudici negano senz’altro la sussistenza o per meglio dire la dimostrazione di un rapporto di lavoro subordinato, con la conseguenza che l’attore soccombe, essendo pure condannato al pagamento delle spese processuali.
La Cassazione raggiunge tale esito dopo avere rammentato come quella in parola sia una «vexata questio», resa però più complicata che in passato dall’assetto della società contemporanea, ove i rapporti di lavoro hanno sovente perso la loro «primigenia simplicitas» risultando sempre più difficili da classificare, difficoltà questa che peraltro non impedisce di tenere fermo l’orientamento giurisprudenziale in linea di principio consolidato, secondo cui «l’elemento essenziale di differenziazione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato consiste nel vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, da ricercare in base ad un accertamento esclusivamente compiuto sulle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa».
Tale fondamentale criterio di distinzione, incentrato in estrema sintesi sulla concreta presenza oppure non dell’eterodirezione, si collegherebbe alla risalente distinzione tra locatio operarum e locatio operis, espressioni queste secondo la Cassazione da impiegarsi anche con riferimento al diritto italiano odierno per designare con la prima il lavoro subordinato e con la seconda il lavoro autonomo, poiché, «mentre la subordinazione implica l’inserimento del lavoratore nella organizzazione imprenditoriale del datore di lavoro mediante la messa a disposizione, in suo favore, delle proprie energie lavorative (operae) ed il contestuale assoggettamento al potere direttivo di costui, nel lavoro autonomo l’oggetto della prestazione è costituito dal risultato dell’attività (opus)».
Sempre secondo la Cassazione, anche altri elementi possono essere considerati, per esempio «l’assenza del rischio economico, il luogo della prestazione, la forma della retribuzione e la stessa collaborazione», ma solo con «valore indicativo e non determinante».
In modo analogo, pure la qualificazione del rapporto eventualmente esplicitata dalle parti nel contratto, magari con l’indicazione di uno specifico «nomen iuris» o persino con l’espressa esclusione della subordinazione, dovrebbe essere tenuta in una qualche considerazione, rimanendo però aperta la possibilità che si dimostri, in concreto, una diversa e prevalente classificazione.
Tra i comuni canoni ermeneutici, assume infatti, ad avviso della Cassazione, una posizione preminente il comportamento delle parti (anche) posteriore alla conclusione del contratto (di cui al 2° co. dell’art. 1362 c.c.), che potrebbe peraltro essere considerato non solo per interpretare l’accordo originariamente concluso, ma se del caso anche per dimostrare la stipulazione di un nuovo accordo di lavoro subordinato sia pure essendosi inizialmente concordato un rapporto di lavoro autonomo, poiché, «in caso di contrasto fra i dati formali iniziali di individuazione della natura del rapporto e quelli di fatto emergenti dal suo concreto svolgimento, a questi ultimi deve darsi necessariamente rilievo prevalente», anche «in considerazione della posizione debole di uno dei contraenti, che potrebbe essere indotto ad accettare una qualifica del rapporto diversa da quella reale pur di garantirsi un posto di lavoro».
Il criterio fondamentale rimane comunque il binomio eterodirezione/subordinazione, per l’accertamento del quale si ribadisce l’utilizzabilità di alcuni «indici» quali «la retribuzione fissa mensile in relazione sinallagmatica con la prestazione lavorativa; l’orario di lavoro fisso e continuativo; la continuità della prestazione in funzione di collegamento tecnico organizzativo e produttivo con le esigenze aziendali; il vincolo di soggezione personale del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia; l’inserimento nell’organizzazione aziendale», fermo restando però che l’onere della prova grava sul lavoratore che intende affermare in giudizio la subordinazione, e che nel caso di specie detto onere non può ritenersi assolto, come già verificato dai giudici di merito con motivazione ritenuta coerente dalla Cassazione.
Così sintetizzata la sentenza in commento, nel prosieguo ci allontaneremo da essa, soffermandoci in generale sulle principali tesi elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza in merito alla distinzione in esame, per ritornare infine alla sentenza, formulandone una valutazione conclusiva.
2. Cenni alla nozione di lavoro autonomo e al suo rapporto con il contratto d’opera
Si pone innanzi tutto il problema della definizione del lavoro autonomo in rapporto al contratto d’opera. Al riguardo, potrebbe a prima vista pensarsi – secondo quella che è stata definita una «affascinante prospettiva alchemica di ricomposizione unitaria» – che la nozione di lavoro autonomo, non esplicitata dal legislatore, coincida con quella di contratto d’opera, cioè che il primo si svolga solo attraverso il secondo, che assumerebbe dunque una notevole portata generale.
In questo senso depongono la denominazione riferita proprio al lavoro autonomo («Del lavoro autonomo») del Titolo III del Libro V e la circostanza che in detto Titolo è contenuta sostanzialmente solo la disciplina del contratto d’opera (sia manuale sia intellettuale).
Però, secondo l’impostazione dominante, le intitolazioni legislative, se pure possono integrare un argomento rafforzativo di interpretazioni desunte aliunde, non possono mai essere, da sole, decisive, per il semplice motivo che non sono dotate del valore precettivo proprio esclusivamente del testo degli articoli di legge in esse contenuti .
Secondo la tesi consolidata, pertanto, l’ambito di applicazione del contratto d’opera è molto meno esteso rispetto a quello del lavoro autonomo, deponendo in tal senso la formulazione letterale dell’art. 2222 c.c., ove, dopo essersi inquadrato il contratto d’opera come lavoro autonomo (alla luce anche della denominazione del Titolo III), si afferma l’applicazione delle «norme di questo capo», però «salvo che il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro IV» , lasciandosi così chiaramente intendere che vi sono ipotesi particolari di lavoro autonomo tra i contratti di servizi del Libro IV , e che solo qualora non ricorra (in tutto o in parte) alcuna di dette ipotesi ci si può richiamare (in tutto o in parte) alla disciplina del contratto d’opera, da intendersi pertanto, sotto il profilo in esame, come residuale e sussidiaria , anche se ciò non toglie che la medesima disciplina assuma pure portata generale , fermo restando che il problema giuslavoristico del lavoro autonomo può dirsi, de iure condito , da tempo risolto nel senso che la figura «si declina al plurale» .
3. La tesi che sovrappone la distinzione tra contratto d’opera e contratto di lavoro subordinato a quella tra locatio operis e locatio operarum
Quanto qui interessa, comunque, è non affrontare il compito di definire compiutamente il lavoro autonomo, bensì tracciare la distinzione tra contratto d’opera quale figura generale di lavoro autonomo e contratto di lavoro subordinato .
Orbene, secondo un primo, risalente e però da tempo per lo più superato orientamento la distinzione in parola si collegherebbe a quella tradizionale (almeno secondo una certa lettura delle fonti, peraltro assai discutibile sotto il profilo storico-giuridico ) del diritto romano, e poi in tempi moderni soprattutto del diritto tedesco, tra locatio operis e locatio operarum (in senso stretto ) . Più precisamente, l’idea di fondo sarebbe quella di una precisa sovrapposizione tra la nostra distinzione e quella tra impegno al raggiungimento di un certo risultato (opus), quale trasfuso in tempi moderni nel modello tedesco del Werkvertrag (e così anche, si vorrebbe, del contratto d’opera), e impegno a un semplice comportamento diligente, cioè a porre le proprie energie lavorative (operae) a disposizione della controparte, quale trasfuso in tempi moderni nel modello tedesco del Dienstvertrag .
Come è stato già illustrato altrove , in tale maniera, il sistema tedesco sostanzialmente eleva al livello della conformazione dei tipi contrattuali la peraltro molto discussa distinzione, sviluppatasi soprattutto in ambito francese con riguardo alla disciplina dell’obbligazione in generale, tra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi, sul cui significato nella presente materia torneremo tra breve. Ciò che preme ora rammentare è, però, che nei due modelli fondamentali tedeschi di contratti di servizi si trova sancita – insieme ad altre differenze di disciplina – una diversa ripartizione del rischio tra le parti, nel senso che, mentre nel Dienstvertrag il prestatore può pretendere il compenso per il semplice fatto di avere tenuto diligentemente la condotta promessa, a prescindere dalla circostanza che la medesima abbia oppure non avuto successo, nel Werkvertrag è, in linea di principio, l’Unternehmer a sopportare il rischio che la sua attività non raggiunga, sia pure senza sua colpa, il risultato cui è rivolta, in quanto costui può normalmente pretendere il corrispettivo solo quando l’opera, esattamente compiuta, sia presa in consegna dalla controparte.
Anche nel nostro ordinamento si trova talvolta affermato – sia pure per lo più al semplice fine di indicare un criterio orientativo, da considerare insieme ad altri – che il lavoratore autonomo si differenzierebbe dal lavoratore subordinato per l’assunzione del rischio della propria opera , ma la tesi non persuade, non potendosi dire che il contratto d’opera segua davvero, sotto questo profilo, il modello del Werkvertrag, poiché nella figura italiana l’attività del prestatore risulta, già a prima vista, molto più valorizzata in quanto tale , specialmente negli artt. 2225 e 2228 c.c., che si prestano tra l’altro a essere interpretati in questa direzione più di quanto comunemente si faccia .
Nel contratto d’opera, inoltre, ben potrebbe esservi un impegno del prestatore a una mera condotta diligente, con conseguente ripartizione del rischio più favorevole rispetto a quella che deriverebbe da un Werkvertrag, ciò che normalmente accade, per opinione tradizionale, perlomeno nel caso del contratto d’opera intellettuale. Il Dienstvertrag tedesco, cioè la figura che si ispira alla locatio operarum (in senso stretto) e che dovrebbe, secondo la prospettiva in esame, corrispondere al nostro contratto di lavoro subordinato, del resto, ricomprende non solo l’Arbeitsvertrag, ma anche il freier Dienstvertrag, cioè un contratto avente per oggetto una prestazione d’opera svolta in regime di autonomia.
Se a tutto ciò si aggiunge che il contratto di lavoro subordinato, per esempio nei casi di lavoro a cottimo (o di rapporto associativo di lavoro con partecipazione agli utili), potrebbe anche presentare una ripartizione del rischio più sfavorevole del normale per il lavoratore, risulta chiaro come il criterio appena esaminato non possa essere né generalizzato, né considerato decisivo .
4. Cenni al problema della distinzione tra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi, dal punto di vista della disciplina dell’obbligazione in generale
Da più parti ci si chiede, allora, se la distinzione tra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi rifletta quella tra contratto d’opera e contratto di lavoro subordinato almeno qualora la si consideri (non sul piano della disciplina dei singoli tipi, secondo il modello tedesco, bensì) sul diverso piano della disciplina dell’obbligazione in generale, secondo il modello francese .
Alla luce delle conclusioni già raggiunte altrove , la questione appare però male impostata, essendosi verificato che il sistema italiano, in ossequio alla sua evoluzione storica, dovrebbe, nella nostra materia, prediligere l’esame della disciplina dei singoli tipi, piuttosto di quella dell’obbligazione in generale.
Peraltro, anche ipotizzando che non sia così, la distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato non solo non è inequivocabilmente sancita dalla disciplina codicistica dell’obbligazione, ma risulta pure variamente in linea con premesse di teoria generale comunque contestabili proprio alla luce di detta disciplina, motivo per cui tale distinzione dovrebbe essere, se non radicalmente abbandonata, almeno considerata di valenza puramente descrittiva .
Se a ciò si aggiunge che, come si accennava nel paragrafo precedente, dalle previsioni dettate con specifico riguardo al contratto d’opera e al contratto di lavoro subordinato non emergono conclusioni differenti, non accogliendo esse, né esplicitamente né implicitamente, la distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, la medesima distinzione risulta comunque inutile per l’individuazione dei confini tra le due tipologie in esame .
Una siffatta conclusione non sembra smentita nemmeno dalle pronunce che pure talvolta richiamano o evocano, al fine di individuare un contratto di lavoro subordinato, la nozione di obbligazione di mezzi , le quali però, a ben vedere, utilizzano detto riferimento semplicemente come un possibile indizio di quello che, come verificheremo tra breve, integra il fondamentale elemento distintivo, ovverosia la subordinazione intesa come eterodirezione del lavoro .
5. Il profilo temporale come criterio distintivo tra contratto di lavoro subordinato e contratto d’opera
Un altro criterio prospettato per distinguere contratto di lavoro subordinato e contratto d’opera concerne il profilo temporale. In quest’ottica, vigente il Codice civile del 1865, si è sostenuto che la locazione d’opera (ovverosia, in prospettiva odierna, il contratto d’opera) avrebbe dato luogo a un contratto a esecuzione istantanea, cioè attraverso un unico atto, oppure periodica, cioè attraverso più atti distanziati tra loro nel tempo ma pur sempre istantanei, mentre il contratto di locazione di opere (ovverosia, in prospettiva odierna, il contratto di lavoro subordinato) avrebbe integrato un contratto a esecuzione continuata, avendo a oggetto un’attività svolta senza soluzione di continuità nel tempo . I fautori di un simile orientamento, riproposto anche in relazione al Codice civile attualmente vigente, non negano che l’attività del prestatore d’opera possa estendersi nel tempo, ma sottolineano che il momento consumativo dell’esecuzione sarebbe solo quello dalla consegna del lavoro finito .
In una variante della posizione appena esposta, si separano le nozioni di durata e di continuità della prestazione lavorativa, identificandosi la prima con la semplice idoneità di parti della prestazione a soddisfare parzialmente l’interesse del creditore in ragione del tempo, e la seconda con l’illimitata divisibilità in ragione del tempo della prestazione in relazione all’interesse del creditore , e si basa quindi la distinzione tra contratto di lavoro subordinato e contratto d’opera non sulla prima nozione, ma sulla seconda. In quest’ottica, si sostiene che il contratto di lavoro subordinato dia luogo a una obbligazione di facere illimitatamente divisibile ratione temporis, e il contratto d’opera a una obbligazione di facere indivisibile o (nel caso già accennato della prestazione periodica) solo limitatamente (considerata l’intrinseca inscindibilità dei singoli opera in cui detta prestazione si articola) divisibile ratione temporis, salva peraltro la particolarità delle professioni intellettuali, il contratto per lo svolgimento delle quali assomiglierebbe, sotto il profilo temporale, a quello di lavoro subordinato .
Posizioni di questo tipo, però, a parte il fatto che – come è stato acutamente segnalato in dottrina – sembrano in realtà replicare da altro punto di vista il criterio distintivo tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato , la cui inutilità in relazione alla nostra questione è già stata segnalata, si scontrano, fatalmente, con il dato normativo, ove figure contrattuali riconducibili al lavoro autonomo risultano almeno in alcune occasioni strutturate quali contratti a esecuzione continuata in senso tecnico, come l’appalto di servizi di cui all’art. 1677 c.c., ipotesi questa che può senz’altro verificarsi, mutatis mutandis, anche per il contratto d’opera .
Inoltre, nella disciplina del contratto d’opera manuale, ha rilevanza, oltre al momento finale dell’esecuzione, pure l’attività precedente, come dimostra per esempio l’art. 2225 c.c., ove si prevede che il giudice determini il corrispettivo in relazione non solo al «risultato ottenuto», ma anche al «lavoro normalmente necessario per ottenerlo» .
Corrispondentemente, anche nella disciplina del contratto d’opera intellettuale si contempla non solo l’attività del prestatore (ciò che potrebbe far pensare a una valorizzazione del tempo impiegato per compierla), ma anche l’esito della stessa, come si può verificare nel comma 2 dell’art. 2231 c.c., ove si parla di un compenso «adeguato all’utilità del lavoro compiuto», nel comma 2 dell’art. 2233 c.c., secondo cui la misura del compenso deve essere in ogni caso «adeguata all’importanza dell’opera», e pure nel comma 2 dell’art. 2237 c.c., ove si parla sempre di un compenso da determinarsi «con riguardo al risultato utile […] derivato al cliente», così che davvero non è condivisibile la sopra citata tesi che vorrebbe accomunare il contratto d’opera intellettuale, sotto il profilo temporale, al contratto di lavoro subordinato, distinguendolo dal contratto d’opera manuale.
Pertanto, anche a voler tralasciare che non è nemmeno sicuro che il contratto di lavoro subordinato debba sempre considerarsi un contratto a esecuzione continuata , il profilo temporale non serve a distinguere chiaramente detta figura dal contratto d’opera .
6. La volontà delle parti come criterio distintivo tra contratto di lavoro subordinato e contratto d’opera
Si trova poi di frequente indicato, sempre al fine di distinguere tra contratto d’opera e contratto di lavoro subordinato, il criterio della scelta (volontà) delle parti per l’una o per l’altra figura.
Detto criterio è già da molto tempo prospettato da parte della dottrina , ma è altresì tradizionalmente per lo più considerato subordinato rispetto alla verifica del reale contenuto del rapporto, in ossequio a una sorta di principio di effettività, e soprattutto in quanto la volontà contrattuale, anche quando è chiara, rischia in questa materia di risultare distorta dalla disparità economico-sociale dei contraenti .
In ogni caso, una simile posizione non può essere estremizzata fino al punto di affermare l’irrilevanza della volontà contrattuale in materia di qualificazione negoziale, facendosi leva sulla inderogabilità della disciplina del lavoro subordinato, e giungendosi per questa via ad affermare un aprioristico favor dell’ordinamento per la subordinazione, già solo in quanto l’inderogabilità della relativa disciplina dovrebbe essere la conseguenza, non la premessa della qualificazione del contratto .
Nemmeno si dovrebbe arrivare, peraltro, all’estremo opposto di riconoscere alle parti un pieno potere di qualificazione del contratto, ciò che si tradurrebbe in una inaccettabile, completa disponibilità del tipo legale , così che risulta da preferire la soluzione, sostanzialmente intermedia, secondo cui la qualificazione, ovverosia il nomen iuris prescelto dalle parti, ha sì una qualche rilevanza discretiva, ma solo sussidiaria .
7. Il criterio distintivo fondamentale: la subordinazione del lavoratore e il potere direttivo del datore di lavoro
È giunto il momento di prendere in considerazione quello che rimane, alla luce di quanto rilevato in precedenza, il criterio discretivo fondamentale, ovverosia la subordinazione del lavoratore (subordinato, evidentemente), cui corrisponde, quale altra faccia della stessa medaglia, il potere direttivo del datore di lavoro.
Che proprio questo sia il criterio fondamentale (anche se non esclusivo ) è dimostrato dall’art. 2222 c.c., ove si precisa che il prestatore d’opera svolge la propria attività «senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente», e anche dall’art. 2094 c.c., ove si evidenzia (l’appena citata altra faccia della medaglia, cioè) che il lavoratore subordinato svolge il proprio lavoro, intellettuale o manuale, «alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore».
Il criterio in parola, senza dubbio difficile da precisare a livello teorico e anche da adattare alle più diverse fattispecie concrete, riguarda comunque non la natura o il contenuto della prestazione lavorativa, bensì le sue modalità attuative, esprimendo l’idea di fondo per cui l’organizzazione delle medesime compete al datore di lavoro nel contratto di lavoro subordinato e al prestatore nel contratto d’opera . Più precisamente, il potere direttivo del datore di lavoro subordinato si compone, tradizionalmente, di due aspetti, assenti nel lavoro autonomo: un potere di conformazione della prestazione lavorativa in sé considerata e un potere di coordinamento, sia spaziale sia temporale, di detta prestazione nell’ambito della complessiva organizzazione di cui essa fa parte . Un così intenso ruolo del datore di lavoro giustifica, dal punto di vista della disciplina, il fatto che il lavoratore subordinato, a differenza del lavoratore autonomo (v. infatti l’art. 2226 c.c.), in linea di principio non risponde delle difformità e dei vizi dell’opera compiuta .
Peraltro, ogni attività lavorativa, anche se subordinata, presenta aspetti di autonomia, così come ogni attività lavorativa, anche se autonoma, presenta aspetti di subordinazione (quantomeno alla «regola d’arte» di cui all’art. 2224 c.c.) nelle sue modalità attuative. Ma solo nel lavoro subordinato si ha una «oggettivazione della forza lavoro» che attribuisce al creditore della medesima «una piena e costante facoltà di intervento sulle modalità organizzative interne del comportamento dovuto» .
Così, mentre nel lavoro subordinato una prestazione contraria a direttive (errate) del datore di lavoro potrebbe essere sanzionata per insubordinazione anche se idonea a raggiungere il risultato voluto, nel lavoro autonomo può configurarsi la responsabilità del prestatore il quale, conformandosi a direttive (errate) del committente, disattenda le nozioni tecniche e di esperienza che dovrebbe al contrario seguire, e per questo motivo non raggiunga il risultato voluto .
Più in generale, occorre comunque ribadire come il criterio in esame sia, in significativa misura, per sua stessa natura, flessibile, ciò che spiega come la giurisprudenza sia potuta passare, negli ultimi decenni, da una interpretazione più estensiva a una più restrittiva della subordinazione, emergendo così un crescente favor per l’autonomia (e pertanto anche per il contratto d’opera), ritenuta da tempo compatibile perlomeno con talune direttive generiche (e forse persino, in certe peraltro limitate ipotesi, istruzioni ) del creditore .
8. L’autonomia del prestatore d’opera e l’adeguatezza delle riflessioni svolte sia alle opere manuali sia alle opere intellettuali
Tutto ciò chiarito, possiamo formulare alcune conclusioni generali in merito ai margini di intervento del creditore sullo svolgimento della prestazione lavorativa nel contratto d’opera.
Se pure si può ammettere – secondo l’orientamento più recente, come si diceva – che anche in detto contratto il creditore esprima direttive generiche nei confronti del debitore della prestazione di lavoro, si è già accennato come simili direttive – a differenza di quanto accade nel lavoro subordinato – rimangano però gerarchicamente sotto-ordinate rispetto alle regole tecniche e di esperienza concernenti una determinata attività, ciò che discende dall’art. 2224 c.c., ove, quali modalità di esecuzione dell’opera, sono indicate solo «le condizioni stabilite dal contratto» e la «regola d’arte».
Più precisamente, ai sensi dell’articolo in parola, spetta innanzi tutto all’accordo tra le parti (ovverosia a «le condizioni stabilite dal contratto») individuare l’attività da compiere, rimanendo poi le modalità di svolgimento di detta attività soggette a una logica di autodeterminazione da parte del prestatore, appunto secondo la «regola d’arte». Di fronte a ciò, il committente ha un potere di controllo (derivante dagli artt. 1662, comma 1, e 1665 c.c., dettati per l’appalto ma analogicamente applicabili al contratto d’opera ), però – a differenza di quello del datore di lavoro subordinato – solo eventuale e discontinuo , e cui comunque non si collega – a differenza di altri contratti – un potere di ingerenza tale da estendersi fino al punto della modificazione unilaterale dell’oggetto del contratto (ius variandi), ma solo un diritto di recesso (salvo il risarcimento dei danni) ai sensi del comma 2 dell’art. 2224 c.c. .
Le conclusioni appena raggiunte sono adeguate sia alle opere manuali sia alle opere intellettuali, considerate in termini unitari. Anche per le seconde, si pone, infatti, in termini non dissimili rispetto alle prime, il problema della distinzione tra i casi in cui esse sono oggetto di un contratto di lavoro subordinato e quelli in cui sono invece oggetto di un contratto d’opera (intellettuale) , integrando una acquisizione consolidata che «ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato sia di rapporto di lavoro autonomo, a seconda delle modalità di svolgimento» . Per questa via, da un lato l’art. 2224 c.c. si presenta come espressivo di un principio generale applicabile, ai sensi dell’art. 2230, comma 1, c.c. a qualsivoglia contratto d’opera, (non solo manuale ma) anche intellettuale, e dall’altro lato emerge una sorta di unitarietà del tipo in parola, che lo scrivente ha altrove tentato di dimostrare in termini tendenzialmente generali .
9. Conclusioni: una sentenza da condividere pienamente nel suo esito, parzialmente nella sua motivazione
Ritornando alla sentenza da cui abbiamo preso le mosse, il suo esito risulta da condividere pienamente, in quanto in linea con le riflessioni sopra svolte.
Peraltro, nonostante che l’impiego della terminologia latina da parte del giurista contemporaneo sia tutt’altro che da criticare, essendo da un lato assai difficile immaginare che il latino ritorni a essere la lingua delle relazioni giuridiche internazionali , ma rimanendo esso quantomeno preferibile rispetto a lingue straniere – specialmente l’inglese – troppo spesso impiegate anche quando non ve ne sarebbe bisogno, se non addirittura per finalità poco commendevoli , occorre notare come la sentenza in commento abbondi di espressioni latine, in alcuni casi generiche (vexata quaestio, simplicitas, etc.) ma in almeno un caso evocative di istituti che hanno assunto precisi significati nella storia del diritto e nel diritto comparato, riproponibili secondo alcune opinioni anche in relazione al diritto italiano attualmente vigente.
Si allude alla «qualificazione sub specie di locatio operis o locatio operarum» che la sentenza testualmente impiega per richiamare con altre parole la «distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e rapporto di lavoro subordinato», riprendendola persino nel passaggio centrale della sua motivazione (quello di cui alla massima), ove, subito dopo aver affermato che «l’elemento essenziale di differenziazione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato consiste nel vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro», si precisa, potrebbe sembrare come un necessario completamento della tesi fondamentale prescelta, che l’opus sarebbe oggetto della prestazione di lavoro autonomo, e che da esso dovrebbero distinguersi le operae caratterizzanti il lavoro subordinato.
Come abbiamo già avuto modo di evidenziare, simili posizioni giurisprudenziali non sono nuove e può in realtà ritenersi che esse, oggi come in passato, nulla tolgano all’unico fondamentale elemento distintivo del lavoro subordinato dal lavoro autonomo, ovverosia l’eterodirezione del lavoro, nei termini già chiariti.
Se a ciò si aggiunge che la netta separazione in due diversi tipi contrattuali di locatio operarum e locatio operis è dal punto di vista storico assai discutibile (trattandosi se non di una invenzione quantomeno di una forzatura delle fonti del diritto romano da parte della dottrina moderna soprattutto di area tedesca ) e che essa si trova attualmente recepita nel BGB, che presenta però in materia di contratti di servizi un assetto non sovrapponibile a quello del Codice civile italiano, rammentandosi pure che la collegata distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato (nonostante la persistenza di alcune sia pure autorevoli diverse posizioni dottrinali ) sembra aver assunto nel diritto italiano contemporaneo un significato non più che descrittivo dal punto di vista dell’obbligazione in generale, e nemmeno un significato di tal fatta dal punto di vista dei contratti di servizi, si può concludere lodando la Suprema Corte per il suo condivisibile orientamento consolidato, opportunamente confermato dalla sentenza qui commentata, e però al tempo stesso chiedendole che voglia in futuro modificarne in parte la motivazione, eliminando o quantomeno contestualizzando più precisamente quei davvero “pericolosi” riferimenti alle nozioni di locatio, opus e operae.