Testo integrale con note e bibliografia
1. Il patto di non concorrenza del lavoratore subordinato. Inquadramento generale.
Il patto di non concorrenza del lavoratore subordinato, previsto e disciplinato dall’art. 2125 cod. civ., costituisce un contratto accessorio ed autonomo rispetto al contratto di lavoro , mediante il quale il prestatore si obbliga, per il tempo successivo alla cessazione del rapporto , ad astenersi dallo svolgimento di attività in concorrenza con l’attuale datore di lavoro, a fronte del riconoscimento di un corrispettivo.
Il patto di non concorrenza viene correntemente qualificato come negozio oneroso ed a prestazioni corrispettive , finalizzato alla protezione del patrimonio immateriale aziendale, tanto nelle sue componenti interne (organizzazione tecnica e amministrativa, metodi e processi di lavoro) quanto in quelle esterne (avviamento, clientela) , dalla concorrenza ‘differenziale’ del prestatore di lavoro . Questa particolare forma di concorrenza, di per sé lecita in quanto non integri la fattispecie della concorrenza sleale di cui all’art. 2598 cod. civ. , viene ritenuta particolarmente insidiosa per l’impresa, in ragione della diretta conoscenza di importanti componenti del know how aziendale da parte del prestatore di lavoro che, una volta sciolto dal vincolo contrattuale , venisse impiegato in un’impresa concorrente o si risolvesse ad intraprendere in proprio, divenuto egli stesso imprenditore, un’attività concorrenziale con quella del precedente datore di lavoro .
E tuttavia nel nostro ordinamento, in cui il diritto al lavoro – in una con la tutela delle sue condizioni – è riconosciuto ed affermato al più alto rango (artt. 4 e 35 Cost.), quale diritto fondamentale, principale strumento di realizzazione della persona e contributo dell’individuo al progresso materiale e spirituale della società , la salvaguardia della posizione di mercato dell’impresa che il patto di non concorrenza mira a realizzare deve andare soggetta ad un equo bilanciamento con il contrapposto diritto del prestatore a poter svolgere un’attività di lavoro non soltanto idonea a procurargli una retribuzione sufficiente ed adeguata (secondo i parametri dettati dall’art. 36 Cost.), ma anche confacente con il proprio bagaglio professionale .
La protezione della posizione di mercato della singola impresa, che le viene garantita dalla stipulazione del patto, si traduce inevitabilmente in una restrizione, diretta o indiretta, della libertà di iniziativa economica altrui. Anche la libertà di impresa, di cui la concorrenza costituisce un immediato corollario, è un bene riconosciuto e tutelato dall’ordinamento costituzionale (art. 41 Cost.), seppure non a livello di diritto fondamentale . La restrizione all’altrui libertà economica, quale inevitabile ‘esternalità’ della stipulazione del patto, confligge altresì con il valore riconosciuto alla concorrenza tra operatori economici dal diritto dell’Unione Europea, di cui l’economia sociale di mercato e la libertà di concorrenza rappresentano un fondamentale pilastro .
Il difficile bilanciamento tra tutti questi diritti soggettivi, tra loro confliggenti ed a vario titolo coinvolti nella causa del patto di non concorrenza del lavoratore subordinato, è ancora oggi affidato alla disciplina contenuta nell’art. 2125 cod. civ.
Questo lavoro non si propone l’obiettivo di fornire un’esaustiva trattazione di tutte le complesse questioni ermeneutiche poste dalla disciplina del patto di non concorrenza ; più semplicemente, si vogliono tematizzare le maggiori criticità dell’istituto, che a molti anni dal suo riconoscimento giuridico presenta significative fratture tra le prassi aziendali e le regole di corretto funzionamento previste dalla disciplina legale.
2. I requisiti per la validità del patto di non concorrenza: forma e contenuto secondo l’art. 2125 cod. civ.
«[I] Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto – dispone l’art. 2125 cod. civ. – è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.
[II] La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata [2557, 2596; 198 trans.]».
Con questa disposizione il codice civile del 1942 supera il divieto generalizzato alla stipulazione delle intese limitative della concorrenza dell’ex prestatore di lavoro previsto dalla legge sull’impiego privato . Vengono così accolte le istanze di una parte importante della dottrina dell’epoca, che giudicava ormai anacronistico il divieto assoluto contemplato dalla previgente disciplina del 1924 .
Dal 1942 ad oggi la disciplina legale dell’istituto non è mai stata modificata; nemmeno durante la stagione di maggiore fioritura della normativa di protezione del lavoratore, a cavallo degli anni Sessanta e Settanta del Novecento, il patto di non concorrenza del lavoratore subordinato è stato oggetto di interventi legislativi. Ed anzi la questione della sua pretesa (in)compatibilità con l’affermazione solenne del diritto al lavoro contenuta nell’art. 4 Cost., quando sollevata, è stata sempre giudicata manifestamente infondata dalla magistratura, e quindi nemmeno sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale .
Il dato non deve sorprendere.
Anzitutto l’art. 2125 cod. civ. subordina la validità del patto di non concorrenza a stringenti requisiti di forma e di contenuto. La disposizione già costituisce, dunque, una norma protettiva verso il lavoratore subordinato, nella misura in cui venga letta, come suggerito da autorevole dottrina , quale ‘norma divieto’: è vietato, in quanto nullo per espressa dizione di legge, il patto di non concorrenza che non sia stipulato per iscritto, che non preveda un corrispettivo per l’astensione dall’attività concorrenziale, e che non rispetti determinati limiti di oggetto, di durata e di ambito geografico. E la considerazione del preminente interesse del prestatore di lavoro alla possibilità di svolgere un’attività di lavoro coerente con il proprio bagaglio professionale, diretto corollario del dettato costituzionale, dovrà indirizzare l’interprete verso una valutazione necessariamente rigorosa della legittimità dell’accordo concluso dalle parti, in rapporto alla norma di legge.
L’art. 2125 cod. civ. mutua altresì il carattere imperativo, ovvero inderogabile in senso peggiorativo per il lavoratore, che è proprio della disciplina protettiva codicistica e statutaria . Qualora la valutazione in concreto della conformità del singolo patto di non concorrenza rispetto al modello legale dia esito negativo, potranno dunque trovare applicazione tutti gli istituti contemplati dall’ordinamento per il caso del contrasto tra l’assetto d’interessi preveduto dal contratto e la norma imperativa: alla nullità completa del patto – espressamente prevista dalla norma – potranno affiancarsi gli altri meccanismi rimediali della nullità parziale e della sostituzione automatica della clausola negoziale invalida con la disciplina legale . Con la precisazione che anche l’eventuale ricorso al meccanismo rimediale conservativo del contratto non potrà mai condurre ad un’elusione della funzione protettiva della norma inderogabile .
Volendo ora procedere ad una lettura d’insieme dei contenuti della disposizione, prima di analizzare partitamente le questioni di maggiore interesse per il nostro lavoro, quale primo requisito di validità del patto l’art. 2125 cod. civ. prescrive la forma scritta, ‘ad substantiam’. Tale previsione costituisce in effetti un aspetto piuttosto singolare nell’ambito della normativa lavoristica, dove il requisito formale viene quasi sempre utilizzato in funzione di prova di un particolare elemento del contratto. Secondo la condivisibile lettura proposta dalla dottrina , lo scopo di tale previsione, che esprime un certo disfavore del legislatore verso l’istituto, è di consentire al prestatore di lavoro di acquisire, sin dal momento della stipulazione del patto, piena consapevolezza dei vincoli alla propria attività – lavorativa, ed eventualmente anche imprenditoriale – per il tempo successivo alla cessazione del rapporto. Come vedremo a breve, tale precisazione comporta alcune importanti conseguenze nella verifica del rispetto dei successivi criteri previsti dalla disposizione per la validità del patto di non concorrenza.
Sul piano sostanziale, i requisiti per la validità dell’accordo attengono all’esistenza di un corrispettivo a favore del dipendente, chiaramente distinto, sul piano causale, dalla retribuzione erogata per la prestazione di lavoro, ed alla determinazione di limiti di oggetto, di durata e di luogo per la restrizione all’attività in concorrenza. La norma – peraltro opportunamente, non essendo affatto possibile individuare in astratto criteri universalmente validi – rimanda all’autonomia individuale la determinazione puntuale dei limiti di oggetto, di durata e di luogo, oltre che del corrispettivo. Soltanto il termine di durata viene specificato, nella misura massima di cinque o di tre anni, a seconda dalla qualifica, dirigenziale o no, del prestatore contraente .
Se è corretto quanto sopra osservato circa la funzione propria del requisito formale, deve senz’altro concludersi che la mancata determinazione – già nel testo contrattuale – dell’ambito oggettivo, geografico e temporale del vincolo comporta la radicale nullità del patto, non essendo possibile integrare ex post, men che meno per iniziativa giudiziale, il contenuto del contratto . Dall’accertamento in giudizio della nullità del patto di non concorrenza discenderà l’immediato scioglimento del lavoratore da ogni obbligazione assunta, oltre alla liceità dell’attività di lavoro o d’impresa, di natura concorrenziale, che fosse già stata espletata in costanza del patto dichiarato invalido; con il solo obbligo per il lavoratore di restituire, qualora richiesto, il compenso che fosse già stato anche parzialmente erogato, in quanto ormai privo di causa .
La qualificazione del patto di non concorrenza come contratto a prestazioni corrispettive comporta ancora, in caso di sua violazione, l’applicabilità degli specifici rimedi previsti dal codice civile per la sopravvenuta alterazione del vincolo sinallagmatico . Qualora venga accertato in giudizio l’inadempimento del lavoratore, la risoluzione del contratto, cui potrà seguire il diritto alla restituzione del corrispettivo già erogato, e fatto salvo il risarcimento degli ulteriori danni, può tuttavia rappresentare un rimedio non del tutto soddisfacente per l’impresa, che si troverebbe infatti ugualmente esposta alla concorrenza differenziale dell’ex dipendente, vedendo così vanificato lo scopo pratico del patto sottoscritto e poi violato. Maggiormente rispondente alle finalità proprie dell’istituto si rivela invece la richiesta giudiziale di adempimento del contratto, azionabile anche in sede cautelare ex art. 700 c.p.c., con conseguente inibitoria alla prosecuzione dell’attività concorrenziale vietata, generalmente ammessa dalla giurisprudenza . Per ovviare alle oggettive difficoltà di prova in giudizio dei danni derivanti dalla violazione del patto, potrà essere inserita nel contratto un’apposita clausola penale, peraltro riducibile, su domanda del lavoratore, in caso di eccessiva onerosità .
Così sommariamente tratteggiati i contenuti generali della disciplina codicistica del patto di non concorrenza, possono ora passarsi in rassegna gli aspetti dell’istituto maggiormente controversi nella casistica giurisprudenziale, ovvero l’ambito di applicazione (oggettivo e territoriale) del patto, la determinazione del corrispettivo e l’ammissibilità di clausole (opzione e recesso) che consentano all’impresa di valutare in un secondo momento – tipicamente, alla cessazione del rapporto di lavoro – la convenienza a dar seguito o no all’esecuzione dell’accordo.
3. Alcuni profili critici della disciplina del patto di non concorrenza in rapporto alla prassi: a) l’oggetto dell’obbligazione di astensione dall’attività concorrenziale del prestatore e l’ambito territoriale di applicazione del patto;
Come abbiamo visto, l’art. 2125 cod. civ. non definisce concretamente i contenuti sostanziali del patto (eccezion fatta per il termine massimo di durata), rimandando all’autonomia individuale la loro determinazione. Anche la giurisprudenza, conseguentemente, presenta un approccio piuttosto casistico verso l’istituto, dovendo valutarsi caso per caso, qualora contestata, la conformità del singolo accordo alla disciplina legale.
Ciononostante, con il conforto della stessa giurisprudenza ed anche alla luce delle premesse di ordine sistematico che abbiamo enucleato in precedenza, è possibile individuare alcuni ‘principi guida’ in ordine alla conformità del patto al modello legale: a) l’interesse datoriale alla protezione della propria capacità concorrenziale, elemento costitutivo della causa del patto di non concorrenza e che ne determinerà, di fatto, l’oggetto e l’ambito territoriale; b) la garanzia per il lavoratore di una residua spendibilità delle competenze professionali acquisite, elemento che fungerà da limite interno al contratto; c) la conoscibilità ex ante da parte del prestatore dei vincoli assunti e della contropartita economica, in funzione della effettiva programmabilità della futura carriera lavorativa e dei conseguenti riflessi sulla propria condizione reddituale e professionale; d) la valutazione necessariamente congiunta dei contenuti del patto, dove l’ampiezza e la durata dei vincoli ed il corrispettivo erogato saranno oggetto di un giudizio di bilanciamento, peraltro non scevro di qualche ineliminabile soggettività.
Quanto all’oggetto dell’obbligazione astensiva, il patto di non concorrenza può essere legittimamente sottoscritto anche da dipendenti che non rivestono qualifiche particolarmente elevate, e financo da lavoratori adibiti a mansioni di carattere esecutivo (come l’addetto alla vendita di un negozio di abbigliamento), purchè si tratti però di soggetti potenzialmente in grado di minare la concorrenzialità dell’impresa, in ragione della diretta conoscenza dei processi produttivi o delle preferenze della clientela (come nell’esempio del venditore) . L’obbligo di astensione dall’attività in concorrenza può legittimamente eccedere le specifiche mansioni svolte in costanza del rapporto di lavoro , mentre non dovrebbe ritenersi lecita, in quanto priva di interesse, un’obbligazione di non concorrenza estesa ad un settore estraneo all’attività imprenditoriale già in essere .
Nella valutazione in concreto del rispetto del requisito oggettivo – scontata la sua specifica determinazione nel testo del patto – il criterio guida sarà costituito dalla natura concorrenziale (o no) dell’attività vietata, in rapporto a quella esercitata dall’impresa. Esattamente come avviene nel caso in cui si contesti all’ex dipendente l’inadempimento del patto, ovvero lo svolgimento di attività concorrenziale vietata.
Maggiori difficoltà si presentano – almeno in apparenza – nella valutazione in concreto del rispetto del criterio territoriale. Facendo leva sul preminente interesse del lavoratore a poter svolgere anche in costanza del patto una qualche attività coerente col proprio bagaglio professionale – detto altrimenti, l’ex dipendente non dev’essere costretto a cambiar mestiere – in passato autorevole dottrina aveva sostenuto, per il caso di particolare estensione geografica dell’ambito operativo dell’impresa, che il datore dovesse in qualche modo ‘scegliere’ quali zone proteggere dall’eventuale concorrenza differenziale del prestatore, lasciandolo libero di operare nelle altre.
Chi scrive ritiene invece che alla valutazione di un congruo spazio residuo di operatività per il lavoratore dovrà procedersi tenendo conto soprattutto – se non esclusivamente – della professionalità acquisita dall’interessato; mentre il requisito territoriale, che pure dovrà essere oggetto di specifica determinazione nel patto, fungerà prevalentemente da limite esterno di validità del contratto . Non potranno invece ammettersi, in quanto prive di interesse, pattuizioni estese ad ambiti territoriali attualmente non coperti dall’attività dell’impresa. Proprio ragionando a partire dalla ratio protettiva del prestatore dell’art. 2125 cod. civ., maggiore sarà la spendibilità in settori merceologici similari delle competenze professionali già acquisite dal lavoratore, minori problemi di compatibilità con il modello legale deriveranno dalla particolare estensione territoriale del patto. Guardando all’esempio di un’impresa operativa nell’intero territorio europeo (o perché no, anche mondiale), non si vede perché mai l’imprenditore che voglia proteggersi dalla concorrenza differenziale dell’ex prestatore di lavoro anche per l’intero territorio di proprio interesse non possa farlo, dovendo per forza escludere dall’ambito territoriale di applicazione del patto alcune zone; purchè, naturalmente, l’obbligo di astensione dalla concorrenza sia adeguatamente compensato, ed al prestatore sia comunque consentito utilizzare la propria capacità professionale per conseguire un reddito soddisfacente, impiegandosi in un settore merceologico differente.
Nella casistica giurisprudenziale si annoverano contratti il cui ambito geografico coincide con l’intero territorio italiano o addirittura continentale , in funzione dell’effettiva operatività sovranazionale dell’impresa. Volendo individuare una linea di tendenza, la giurisprudenza più recente si dimostra maggiormente incline ad assecondare l’interesse datoriale ad una maggiore estensione territoriale dei vincoli all’attività in concorrenza, in ragione del cambiamento del tessuto economico e del potenziale sviluppo dei mercati reso possibile dalle nuove tecniche di comunicazione. Dirimente, nelle decisioni giudiziali, non risulta tanto l’estensione territoriale in sé del patto, quanto piuttosto l’effetto – sulla residua spendibilità delle competenze professionali da parte del lavoratore – della sua combinazione con la limitazione, più o meno penetrante, all’attività concorrenziale .
4. (segue) b) il corrispettivo a favore del prestatore di lavoro: misura e modalità di erogazione;
Misura e modalità di erogazione del corrispettivo previsto dal patto di non concorrenza costituiscono probabilmente il profilo dove la prassi sconta le maggiori criticità.
Molto diffusa – se non statisticamente prevalente – è infatti la pratica di erogare il corrispettivo già in costanza del rapporto di lavoro, quale percentuale fissa – o a volte crescente, in funzione dello sviluppo professionale – della retribuzione. Diversamente, il corrispettivo in denaro può essere erogato con cadenza periodica per il tempo di effettiva operatività del patto, oppure come somma una tantum al momento della cessazione del rapporto di lavoro.
Anche a prescindere dalle doverose cautele in sede di redazione del prospetto paga , dal più sfavorevole trattamento fiscale (e forse contributivo), e dalle evidenti difficoltà operative che possono porsi all’azienda in tutti i casi in cui debba procedersi al recupero di quanto già medio tempore erogato in costanza del rapporto – per intervenuta risoluzione o dichiarazione di nullità del patto –, tutti aspetti che già militano per l’inopportunità dell’erogazione del compenso del patto di non concorrenza in costanza del rapporto di lavoro, ad opinione di chi scrive – condivisa peraltro da un orientamento sempre più diffuso nella giurisprudenza di merito più recente – tale prassi non può considerarsi generalmente legittima, per almeno due ordini di ragioni.
In primo luogo, fatto salvo il caso in cui venga comunque prevista una misura minima, tramite versamento di un eventuale conguaglio al momento della cessazione del rapporto di lavoro, l’erogazione del corrispettivo in costanza del rapporto pone un evidente problema di determinabilità ex ante della contropartita economica alle future – e certe – limitazioni all’attività di lavoro del prestatore. Se, come abbiamo osservato in premessa, la funzione propria del requisito formale è di rendere il lavoratore pienamente consapevole della effettiva portata delle obbligazioni astensive derivanti dal patto , davvero non si comprende come a tale apprezzamento si possa giungere senza un preciso riscontro della contropartita economica dell’accettazione dell’accordo.
In secondo luogo, e questo è probabilmente l’aspetto decisivo che depone per l’illegittimità di tale prassi, l’erogazione del compenso in costanza del rapporto quale percentuale della retribuzione – sempre fatto salvo il caso in cui sia comunque prevista una misura minima – introduce un elemento di aleatorietà del tutto estraneo al modello legale, e snatura il patto di non concorrenza tramutandolo impropriamente in uno strumento di ‘fidelizzazione’ del dipendente. Nella parte finale di questo lavoro torneremo su questo aspetto, perchè meritevole di ulteriori approfondimenti, ma sin da ora può osservarsi che la ‘fidelizzazione’ del dipendente non risponde affatto alla causa tipica del patto di non concorrenza, consistente invece nello scambio corrispettivo tra una futura astensione dell’attività concorrenziale del dipendente ed una contropartita economica.
Concretamente, non è possibile indicare una misura adeguata, nemmeno indicativa, del corrispettivo del patto. La giurisprudenza esclude recisamente la liceità di compensi irrisori o simbolici , mentre in linea generale può dirsi che il parametro di riferimento per la valutazione dell’adeguatezza del corrispettivo può essere rappresentato da una percentuale della retribuzione erogata per la prestazione di lavoro (seppure non possa farsi applicazione, per determinare il congruo compenso, dei principi di sufficienza e adeguatezza dettati all’art. 36 Cost. in relazione alla retribuzione), più o meno consistente in funzione del sacrificio alla futura ricollocazione professionale arrecato dal patto .
Sotto il profilo fiscale, il compenso del patto di non concorrenza è qualificato come reddito da lavoro dipendente , e potrà avvalersi della più favorevole tassazione separata soltanto qualora erogato alla cessazione del rapporto di lavoro .
Sul piano contributivo, il corrispettivo è assimilato alla retribuzione, e dunque soggetto ad imposizione, fatto salvo il caso, almeno secondo un indirizzo più risalente della Cassazione , poi non confermato da altra pronuncia più recente , di erogazione a rapporto di lavoro cessato. L’argomento decisivo per l’affermazione della imponibilità contributiva del corrispettivo viene individuato nella non ricorrenza di alcuna delle ipotesi tassative di esclusione dalla contribuzione previdenziale previste dall’art. 12 della Legge n. 153 del 1969 . Si fa però osservare che, più recentemente, la sezione tributaria della stessa Cassazione ha ricondotto il corrispettivo del patto di non concorrenza, seppur a fini fiscali, tra le «indennità corrisposte in dipendenza della cessazione del rapporto di lavoro» : qualora tale qualificazione fosse dunque riportata anche a fini contributivi – e non si intravedono ragioni ostative, posto che, con la riforma del 1997, nella determinazione della base imponibile a fini contributivi il legislatore ha operato un rinvio alla disciplina fiscale – l’assoggettabilità a contribuzione previdenziale del corrispettivo percepito in conseguenza del patto andrebbe probabilmente ripensata .
5. (segue) c) l’opzione e la clausola di recesso dal patto a favore dell’impresa.
Normalmente, il momento della stipulazione del patto di non concorrenza coincide con l’assunzione del dipendente; più di rado, la sua accettazione viene posta come condizione per un successivo sviluppo professionale. Potendo quindi trascorrere anche molto tempo dalla sottoscrizione del patto all’effettiva operatività dell’accordo, la convenienza per l’azienda del patto di non concorrenza, ovvero l’opportunità di sostenerne gli oneri economici (qualora non già anticipati nel corso del rapporto) al momento della sua effettiva esecuzione potrebbe mutare: si pensi al caso del dipendente che per ragioni di età, familiari o di salute decidesse di ritirarsi dal lavoro o trasferisca la propria residenza al di fuori dell’ambito territoriale di operatività dell’impresa, o viceversa al caso del lavoratore che nel corso della carriera presenti uno sviluppo professionale particolarmente significativo, entrando in possesso delle competenze ‘sensibili’ per la concorrenzialità dell’azienda.
Per ovviare a tali eventualità, è abbastanza diffuso nella prassi l’inserimento nel patto di non concorrenza della clausola di opzione o di recesso a favore dell’azienda: entrambi gli istituti sono funzionali a salvaguardare l’interesse datoriale ad operare una più attenta valutazione dell’effettiva convenienza del patto. Sia l’opzione che il recesso consentono infatti all’imprenditore di differire nel tempo, ad un momento successivo alla stipulazione del patto - che solitamente viene individuato in un termine decorrente dalle dimissioni rassegnate dal lavoratore, o coincide con la cessazione del rapporto per licenziamento o scadenza del termine - la scelta di avvalersi o no del patto di non concorrenza.
Chi scrive condivide l’orientamento che va sempre più diffondendosi, anche nella giurisprudenza di legittimità , in ordine alla generale illiceità dell’apposizione di queste clausole accessorie al patto di non concorrenza. La stipulazione di per sé del patto di non concorrenza, anche se questo è destinato a valere successivamente alla conclusione del rapporto, incide sin da subito sulla programmabilità della futura occupazione del lavoratore. Il dipendente, una volta sottoscritto il patto, pur non avendo ancora la certezza dell’effettiva volontà dell’azienda di avvalersene, viene normalmente indotto a rifiutare eventuali offerte di lavoro da imprese concorrenti, per il timore di esporsi a pesanti richieste risarcitorie, o di vedersi addirittura inibito alla prosecuzione del rapporto con l’impresa concorrente. L’azienda esercita così un improprio condizionamento sulle future scelte di carriera del dipendente, indotto obtorto collo alla permanenza nel posto di lavoro, senza accollarsi (normalmente) alcun sacrificio economico corrispettivo.
Conclusivamente, l’inserimento nel patto di non concorrenza della clausola di recesso o dell’opzione, salva la previsione di specifici corrispettivi (la cui adeguatezza potrà essere comunque vagliata in sede giudiziale), va ritenuta potenzialmente elusiva della disciplina imperativa prevista dall’art. 2125 cod. civ., e pertanto generalmente illegittima.
6. I limiti all’attività concorrenziale del lavoratore subordinato alla conclusione del rapporto dopo il Jobs Act.
Volendo trarre alcune conclusioni dal ragionamento sin qui condotto, e volendoci interrogare sulle prospettive future dell’istituto, va segnalato come nella giurisprudenza più recente paia delinearsi un approccio maggiormente restrittivo verso la validità delle intese limitative della concorrenza dell’ex dipendente. Se rispetto al passato l’ampiezza territoriale del vincolo presenta meno complicazioni, valorizzandosi maggiormente la residua possibilità di impiego del prestatore, in relazione alla professionalità acquisita e nel rispetto del contrapposto interesse datoriale alla protezione della propria posizione di mercato, particolare disfavore è riservato a tutte quelle clausole – quali l’opzione e il recesso – o prassi – segnatamente l’erogazione della retribuzione in costanza del rapporto di lavoro – che tendono ad eludere in vario modo la funzione protettiva del prestatore di lavoro, insita nella disciplina inderogabile in peius dettata dall’art. 2125 cod. civ.
Riprendendo le fila del discorso iniziato a proposito della erogazione ‘anticipata’ del corrispettivo, oltre alle criticità già evidenziate dalla giurisprudenza in punto di (in)determinabilità ex ante, per il prestatore, della contropartita economica del patto, tale prassi si traduce in una impropria utilizzazione del patto di non concorrenza quale strumento di ‘fidelizzazione’ del dipendente. Chi scrive non condivide la collocazione dell’istituto – già sul piano sistematico – tra le forme proprie di ‘fidelizzazione’ del lavoratore , quali possono considerarsi, invece, la clausola di durata minima garantita, la retribuzione incentivante, il prolungamento del periodo di preavviso, oltre ad altri strumenti di best practices che attengono piuttosto alla costruzione di un ‘clima’ aziendale particolarmente favorevole ed incentivante alla permanenza del lavoratore. La disincentivazione alla ricerca di una nuova occupazione, che può sì favorire, indirettamente, una prolungata permanenza del ‘core worker’ legato dal patto di non concorrenza, è semplicemente l’effetto dell’oggettiva riduzione delle possibilità di re-investimento della professionalità del lavoratore, soggetto a un vincolo giuridico.
La causa tipica del patto di non concorrenza consiste nello scambio tra un’obbligazione di astensione dall’attività in concorrenza per il tempo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro e l’erogazione di un corrispettivo economico, in funzione meramente protettiva del patrimonio immateriale – la posizione sul mercato – dell’azienda. Qualsiasi prassi che abbia la finalità o l’effetto di snaturare la funzione propria dell’istituto, anche senza tradursi in una aperta elusione della disciplina protettiva a danno del lavoratore, comporta inevitabilmente un costo ulteriore, non prevedibile né preveduto dall’assetto tipico del contratto (e men che meno implicato dalla sua disciplina legale). Il costo ‘differenziale’ di un utilizzo improprio del patto di non concorrenza è percepibile proprio nel momento in cui il contratto dovrebbe avere un principio di esecuzione, ovvero alla cessazione del rapporto di lavoro.
Il dipendente che abbia già percepito l’intera utilità economica prevista dal patto – avendone oltretutto sofferto un maggior carico fiscale – si troverà ormai a doverne sopportare soltanto gli effetti sfavorevoli, in termini di maggiori difficoltà occupazionali e perdita di reddito. Egli avrà dunque tutto l’interesse a contestare la validità del patto, da cui non trae più alcun utile, confidando sul recupero delle maggiori opportunità di impiego pregiudicate dal patto. Qualora poi il corrispettivo percepito sia stato particolarmente esiguo, e dunque presumibilmente inadeguato a ristorare la perdita di opportunità professionali e reddituali, il lavoratore sarà più facilmente indotto a violare il patto, confidando sui limitati effetti di un’eventuale domanda di restituzione del corrispettivo che mai dovesse seguire all’accertamento in giudizio della nullità del patto. L’erogazione del corrispettivo in costanza del rapporto, nell’uno come nell’altro caso, potrebbe inoltre essere riqualificata in sede contenziosa come forma di retribuzione incentivante o superminimo (soprattutto qualora il lavoratore riuscisse a provare l’erogazione del corrispettivo per ‘patto di non concorrenza’ alla generalità dei dipendenti, senza distinzione di funzione, esperienza e professionalità), nel qual caso nessuna obbligazione restitutoria potrebbe mai discendere dall’eventuale accertamento della nullità del patto.
Dalla prospettiva aziendale, l’erogazione del corrispettivo differita al tempo dell’effettiva esecuzione del patto garantisce se non altro un immediato strumento di autotutela, nel caso in cui dovesse riscontrarsi l’inadempimento del lavoratore. Diversamente, soprattutto nel caso di corrispettivi versati anticipatamente ed indeterminati ex ante in una misura minima, l’azienda rimarrebbe seriamente esposta alle conseguenze di una declaratoria giudiziale di nullità del patto, qualora il lavoratore promuovesse la relativa azione di accertamento o (più semplicemente) eccepisse la nullità del patto nel giudizio introdotto dall’azienda per far valere l’inadempimento dell’obbligo di non concorrenza. L’affidamento sull’effettivo raggiungimento dello scopo pratico del patto – la protezione dalla concorrenza ‘differenziale’ –, che postula anzitutto la ‘tenuta’ dell’accordo in un eventuale contenzioso, risulterebbe dunque notevolmente affievolito.
Come si vede, l’erogazione del corrispettivo in costanza del rapporto di lavoro, anche a prescindere da ogni criticità circa il rispetto dei principi di determinabilità e adeguatezza (che potrebbe valutarsi soltanto ex post), comporta sempre un costo aggiuntivo, derivante dalla maggiore incertezza sulla successiva stabilità dell’intesa, e può d’altro canto incentivare la violazione del patto.
Guardando al futuro, è facilmente pronosticabile che, perdurando la sfavorevole congiuntura economica e occupazionale, e soprattutto, rimanendo sostanzialmente inalterato l’impianto della disciplina dei licenziamenti disegnato dal nuovo ‘contratto a tutele crescenti’ , con l’accantonamento della tutela reintegratoria in favore di un mero indennizzo economico al lavoratore illegittimamente licenziato anche nelle aziende medio-grandi, l’atteggiamento di grande cautela, se non di sostanziale disfavore, che la giurisprudenza più recente già dimostra verso l’istituto, tenderà ad acuirsi.
Non si tratta di valutazioni politiche ‘spicciole’, o di un’opposizione ideologica al ‘nuovo che avanza’. Se l’occupabilità del lavoratore, la sua protezione sul mercato - che la logica della Flexicurity pretende di scambiare con dosi massicce di tutela all’interno del rapporto, che vengono via via erose - costituiscono oggi valori da difendere, si comprende immediatamente la cautela con cui debbano essere riguardati tutti quegli istituti giuridici che abbiano l’effetto di compromettere la possibilità del lavoratore, considerato nella nuova veste di ‘operatore economico’, di spendersi con successo nel mercato.
Pur nella convinzione che tale processo non dovrebbe portare, in ogni caso, al ritorno al divieto assoluto contenuto nella legge sull’impiego privato del 1924, è facilmente prevedibile che nel prossimo futuro le più recenti aperture normative alla libertà di licenziamento sottoporranno ad ulteriore tensione i già precari equilibri sottesi all’istituto del patto di non concorrenza.