Sono trascorsi dieci anni dalla morte di Gino Giugni, uno dei più grandi giuslavoristi del secondo dopoguerra. Socialista riformista (in quanto tale vittima di un attentato delle BR, che sarebbe potuto essergli mortale), per diverse legislature fu senatore, presidente della Commissione Lavoro di Palazzo Madama, poi ministro della Repubblica del Governo Ciampi e promotore del Protocollo del 1993 che tanta influenza ha avuto nel campo delle relazioni industriali e soprattutto nella definizione di una politica salariale in senso antinflazionistico che ha consentito, insieme ad altri fattori, all’Italia di entrare fin dall’inizio nel club della moneta unica. Ha scritto in proposito Umberto Romagnoli nel suo saggio ‘’Giuristi del Novecento’’ (Ediesse 2019) che Giugni ‘’con l’attività che avrebbe svolto negli anni Novanta in qualità di ministro del Lavoro legherà il suo nome alla performance più lusinghiera della concertazione in Italia. Ma, da politico prestato al diritto, conosceva anche l’entità del rischio di una legittimazione della rappresentanza degli interessi più dall’alto che dal basso. Per questo, con la teorica dell’ordinamento sindacale (ne accennerò più avanti, ndr) aveva precostituito l’habitat culturale che permette tanto ai rappresentanti quanto ai rappresentati di sviluppare gli anticorpi’’. In pratica, non c’è un solo evento importante nella politica del lavoro del secolo scorso che non abbia avuto Gino Giugni come ideatore e protagonista. Sarà lo stesso Giugni a riconoscere che «Il mio approdo alla scienza giuridica è passato per vie molto traverse». Ma egli viene ricordato come del 1970, anche se in quel tempo era soltanto capo dell’Ufficio legislativo prima del ministro Giacomo Brodolini, poi, dopo la sua morte, di Carlo Donat Cattin. Ma quella legge fondamentale è legata per sempre al nome di Giugni perché sue furono le intuizioni (a partire dal suo contributo, dal ministero, al rinnovo del contratto dei metalmeccanici del 1969) che diedero a quel provvedimento un carattere fortemente innovativo per la cultura giuridica – e non solo – di quei tempi, grazie ad un’impostazione che affidava il riconoscimento dei diritti dei lavoratori ad un ruolo promozionale dell’azione del sindacato, introducendo nel tradizionale diritto positivo italiano modelli propri della common law e dell’esperienza americana che tanto aveva inciso sulla sua formazione, fin da quando, appena laureato, aveva avuto l’opportunità (grazie ad una borsa Fulbright), insieme a Federico Mancini e a Giorgio Bernini, di una permanenza di studio negli Usa. Il viaggio sulla motonave Vulcania cementò per sempre la loro amicizia. ‘’Gino - scrive Umberto Romagnoli - tornerà dagli States diverso da quel che era quando partì. Il fatto è che durante il viaggio per e dagli States avvenne un incontro (con Mancini, ndr) per lui importante e, per certi aspetti, determinante’’. Un incontro che segnò una lunga amicizia, una collaborazione reciproca ed un sodalizio culturale tra la scuola di Bologna e quella di Bari, associando Giugni alla prestigiosa istituzione de Il Mulino che si stava affermando – come palestra di dibattito e di innovazione politica - in quegli anni di dura contrapposizione e sterile ideologica. Di Giugni vanno ricordati, poi, altri contributi importanti, come ad esempio, l’aver diretto la commissione tecnica che elaborò la riforma del tfr all’inizio degli anni ’80, evitando il ricorso ad un referendum con effetti devastanti. Oppure l’ultimo impegno che assolse con la solita lucidità e l’infinita cultura giuridica, quando il primo Governo Prodi gli chiese di presiedere una commissione composta dai migliori giuristi italiani, tra cui Massimo D’Antona e Marco Biagi, che elaborò, all’inizio del 1997, una relazione sulla riforma della contrattazione collettiva colpevolmente ignorata dalle parti sociali, benché le proposte che vi erano contenute prefigurassero già il disegno tracciato (molti anni dopo) dagli accordi interconfederali più recenti. Ma il merito principale del Maestro rimane quello di aver fondato il moderno diritto sindacale, mediante un’operazione di carattere culturale che ebbe il senso di una vera e propria rivoluzione copernicana. Nel corso degli anni ’50 il diritto sindacale era un settore dominato da quelle che furono chiamate le . La Costituzione aveva risolto le questioni cruciali della rappresentanza e della rappresentatività sindacale e dell’efficacia erga omnes dei contratti di lavoro nel testo dell’articolo 39 che però giaceva, per tanti motivi, inattuato nonostante che ogni ministro del lavoro avesse cercato di sbloccare la situazione di stallo con un proprio disegno di legge. Nel 1960, Gino Giugni - a soli 33 anni – diede alle stampe il libro da cui emersero, grazie alla applicazione della teoria degli ordinamenti giuridici al diritto sindacale, una nuova visione e una diversa interpretazione della materia che doveva essere accettata e studiata per quello che la realtà e l’esperienza avevano espresso e non più nella sterile ricerca di un ‘dover essere’ dimenticato ed impraticabile. Scriveva Giugni a proposito dell’attività contrattuale parole destinate a cambiare la storia: <un’attività che="" si="" è="" svolta="" nel="" precario="" contesto="" della="" legge="" comune="" dei="" contratti,="" risultata="" viziata="" da="" mille="" insufficienze,="" ma="" nondimeno="" costitutiva="" di="" un="" valido="" patrimonio="" esperienze="" <diritto="" vivente="">. Di Giugni si potrebbe parlare a lungo senza mai esaurire l’argomento. Mi limiterò soltanto a ricordare un ‘botta e risposta’ che il grande giurista (il quale mi fu maestro e mi onorò della sua amicizia) ebbe con uno studente, durante una conversazione sui temi del lavoro. E concluderò con un ricordo di carattere personale, ormai lontano di decenni, ma presente e coltivato nella mia mente come se fosse successo ieri. Partiamo dal ‘’botta e risposta’’. Ad uno studente che gli chiedeva: “Lei sta dunque affermando che i fondamenti etici della Costituzione rimarranno invariati?”, Giugni rispose: “La sua domanda contiene in sé un’efficace risposta: i fondamenti etici non verranno variati. Fin tanto che la Costituzione repubblicana del 1948 rimarrà in vigore, noi avremo la certezza che i suoi principi etici funzionano e, soprattutto, che hanno un rilevante grado di effettività. Nel momento in cui tali fondamenti muteranno – insieme alle corrispondenti istituzioni – ci troveremo di fronte a fenomeni ai quali sarò contento di non assistere: mi auguro per voi che non accadano episodi di crisi delle istituzioni tali da mettere in dubbio questi principi etici”. Purtroppo, ‘’episodi di crisi delle istituzioni’’ sono avvenuti. Per sua fortuna Gino ha potuto non assistervi, perché convocato dall’Onnipotente a ricoprire la cattedra di diritto del lavoro nell’Ateneo dei Campi Elisi. Il ricordo personale (ce ne potrebbero essere tanti) mi riporta nella seconda metà degli anni ’60. In quegli anni per me fu fondamentale l’insegnamento di Gino Giugni. Quando, come e perché ho conosciuto Gino Giugni. Era la primavera del 1967 (è passato ormai mezzo secolo!). Io facevo parte da un paio d’anni della segreteria della Fiom di Bologna e stavo lavorando alla tesi di laurea in diritto del Lavoro. Saputo che ero un sindacalista Umberto Romagnoli, allora assistente di Federico Mancini, mi aveva dato da svolgere un tema stimolante (‘’Metodi e forme di risoluzione stragiudiziale delle controversie di lavoro’’) raccomandandomi di raccogliere il più possibile dati ed esperienze di fatto. Per me non era facile dedicare molto tempo alla tesi e soprattutto trovare e consultare il materiale necessario (allora non c’era Internet). Soprattutto, non riuscivo a trovare l’idea-forza su cui costruire l’elaborato. Mi dedicai prioritariamente alla stesura di due capitoli: uno relativo all’esperienza dei Collegi dei probiviri; l’altro a quella ormai ventennale (il primo accordo vi era stato nel 1947) della contrattazione interconfederale sulla conciliazione e l’arbitrato nel caso di licenziamenti individuali nell’industria. Mancava però il trait d’union. Lo trovai leggendo un piccolo libretto ‘’L’evoluzione della contrattazione collettiva nell’industria siderurgica e mineraria’’, nel quale Gino Giugni descriveva il processo che, a cavallo tra il 1962 e il 1963, aveva prodotto la svolta della contrattazione articolata. Quel testo mi rimandò al testo già ricordato e da me ritenuto fondamentale: ‘’Introduzione allo studio dell’autonomia contrattuale’’. Fu per me come essere folgorato sulla via di Damasco. Mi apparve chiaro il filone conduttore della mia tesi: le controversie, in materia di lavoro, non erano altro se non il proseguimento del negoziato, attraverso la c.d. amministrazione del contratto. Questa impostazione divenne l’idea-forza del mio lavoro. Poi, gli amici della Cisl di Bologna mi aprirono il loro centro di documentazione dove trovai tutto il materiale che mi serviva (purtroppo non mi era stato possibile reperirlo in Cgil). Ne uscì uno dei lavori più importanti della mia vita, che contribuì ad arricchirmi anche sul piano professionale e che mi procurò ben 12 punti all’esame finale trasformando una carriera universitaria caratterizzata da aurea mediocritas in una laurea a pieni voti. Ma torniamo a quando, dopo aver letto le sue opere, conobbi personalmente Giugni. L’occasione fu quella di un Convegno nazionale promosso presso l’Ateneo bolognese dai ‘’Comitati d’azione per la giustizia’’ sul tema della conciliazione e l’arbitrato. Essendo Gino Giugni tra i relatori, mi iscrissi e partecipai all’iniziativa. Si pure con il garbo di una discussione tra cattedratici, Giugni si trovò in posizione di netta minoranza. Allora andavano per la maggiore i discepoli di Ugo Natoli, i c.d. costituzionalisti, asserragliati intorno all’attuazione dell’art.39 Cost. e alla giustizia togata e statuale e molto sospettosi nei confronti di quella privata. Era presente anche una delegazione della Cgil, guidata dal vice segretario Arvedo Forni, che pronunciò un discorso sostanzialmente allineato con le posizioni di Natoli. Chi scrive si fece coraggio e chiese di parlare. Mi diedero cortesemente la parola poco prima delle conclusioni dei relatori, a dibattito già chiuso in anticipo, quando i partecipanti erano tornati dal pranzo e stavano tutti nell’Aula Magna. Benché mi fossi qualificato come uno studente, appena iniziai a parlare sciorinai i miei incarichi sindacali e pronunciai un breve discorso – ben argomentato - a sostegno delle tesi di Giugni, sottolineando che la conciliazione e l’arbitrato non dovevano essere affrontati come una via secondaria per fare giustizia, ma come parte integrante dello stesso processo di contrattazione collettiva. La cosa suscitò un po’ di scalpore nella sala: che un giovane sindacalista della Cgil dichiarasse – ben argomentandola - la sua adesione a quelle idee pericolose – prese di mira per tutto il corso del convegno - era comunque una notizia. Tanto che Giugni - che non era ancora arrivato - fu avvertito dell’episodio e si mise a cercarmi per chiedermi che cosa avessi detto. Poi, chiamato a concludere insieme agli altri relatori citò diverse volte il mio intervento qualificandomi, a bella posta, come segretario della Fiom. Il giorno dopo da Roma qualcuno chiese conto al mio segretario generale, Floriano Sita, della mia linea di condotta. Che altro dire ? Tanti anni dopo il destino volle che io, da deputato, divenissi relatore (per ben 4 letture delle 7 che furono necessarie alla sua approvazione) del c.d. Collegato lavoro (legge n.183/2010), che conteneva diverse procedure di conciliazione e di arbitrato nelle controversie di lavoro. Una disciplina innovativa, tuttavia, rimasta ancora una volta sulla carta e già dimenticata. Gino era un socialista. Una volta, parlando a dei giovani, spiegò che il socialismo democratico europeo è come il protagonista ( George Bailey interpretato da James Stewart) di un bel film di Frank Capra ‘’La vita è meravigliosa’’ (1948). George si rende conto di essere stato importante per la sua comunità quando, in un momento di disperazione, un angelo di nome Clarence mandato in missione con la promessa, al buon esito della stessa, di ottenere le ali, gli mostra come sarebbe desolata e povera, in quel momento, la sua città, se lui non fosse mai esistito.