Testo integrale con note e bibliografia
1. Introduzione.
Le recenti misure organizzative apprestate dalla sezione lavoro della Corte di cassazione “volte a rendere più efficace, in una situazione gestionale complessa, l’azione della nomofilachia” appaiono il naturale punto di approdo degli sforzi compiuti dalla stessa Corte tesi da un verso all’abbattimento del contenzioso, che a quel che consta la affligge quanto meno dagli anni ottanta ; da altro verso tesi a riappropriarsi del compito alla stessa assegnato di “assicura(re) l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto nazionale” , ovverosia di esercitare l’attività di nomofilachia, come ormai usualmente si classifica la predetta attività .
Le misure apprestate dalla sezione lavoro, allo stato e con riguardo alla predetta sezione della Corte, si pongono quale punto finale delle misure organizzative emesse tempo per tempo dalla medesima Corte e dei protocolli dalla stessa sottoscritti con soggetti esterni quali, per quel che rileva agli odierni fini, il Consiglio Nazionale Forense e l’Avvocatura Generale dello Stato .
Ma i giudici della sezione lavoro sono ben consci della circostanza che, con riguardo al primo versante ovverosia alla riduzione del numero di procedimenti pendenti, il flusso delle sopravvenienze è in costante incremento e che, anche se non venissero più depositati ricorsi per cassazione, ci vorrebbero più di tre anni per definire il solo contenzioso pendente, fermi restando ovviamente in questa stima “gli attuali livelli di produttività che sono già quelli massimi esigibili, tenuto conto che mediamente ciascun consigliere redige circa 200 provvedimenti all’anno, oltre a studiare i fascicoli, a partecipare alle udienze ed alle camere di consiglio, a curare l’aggiornamento professionale” . Preso atto pertanto della non raggiungibilità, allo stato, dell’obiettivo dell’abbattimento o quanto meno di una rilevante riduzione dei giudizi di legittimità, anche e nonostante gli strumenti introdotti dal legislatore con le riforme del procedimento di cassazione , le misure organizzative apprestate appaiono tendere per lo più al raggiungimento dell’altro prefigurato scopo, ovverosia garantire l’attività nomofilattica svolta dalla Corte medesima, ancorché, se non soprattutto, con l’aumento delle decisioni rese .
Se questo è lo scopo precipuo di siffatte misure, appare proficuo valutare l’idoneità delle stesse, ponendole all’interno del quadro legislativo e degli atti a valle assunti dalla Corte di cassazione, nonché collegandole da un verso all’attività di leale collaborazione istituzionale che potrebbe/dovrebbe svolgere l’Avvocatura e da altro verso alle modalità con le quali la stessa Corte, in specie la sezione lavoro e di essa il collegio che, tempo per tempo, è stato chiamato a decidere i giudizi di sicurezza sociale – quella ove chi scrive ha una conoscenza diretta, ha nel corso di questi ultimi anni concretamente applicato le novelle legislative delle quali si è fatto menzione.
La prefigurata verifica, nei limiti dell’odierna esposizione e senza alcuna pretesa né di esaustività né di ricostruzione dommatica delle questioni che si tratteranno, non può che prendere le mosse dalla redazione degli atti giudiziari, per poi proseguire con le modalità di individuazione del rito con il quale discutere il giudizio e dei meccanismi di tutela delle parti in specie nel rito camerale, per continuare con le modalità di redazione delle decisioni e finire con le modalità di conoscenza di queste ultime.
2. La redazione degli atti giudiziari.
Il ricorso per cassazione e il controricorso costituiscono, in considerazione dell’assetto procedimentale odierno della Corte di cassazione, i veicoli esclusivi attraverso i quali la Corte decide, innanzitutto, se il procedimento dovrà essere trattato presso la sesta sezione o presso la sezione semplice o se dovrà essere trasmesso al primo presidente per la decisione a sezioni unite .
Si rilevi che lo scrutinio operato dalla predetta sesta sezione, con il passaggio o alla sezione semplice o al primo presidente, secondo una ragionevole lettura del tessuto legislativo e in forza di una leale collaborazione fra le parti del processo, dovrebbe anche “garantire” l’avvocato dell’ammissibilità del ricorso medesimo .
Qualora poi in sede di disamina del ricorso e del controricorso, la sezione semplice dovrebbe ritenere, contrariamente a quanto concluso in prima battuta dalla sezione sesta, il ricorso inammissibile, parrebbe necessario garantire il diritto di difesa. Infatti, in considerazione dell’assenza della comunicazione della proposta del relatore, si dovrebbe prefigurare un modello procedimentale che consenta all’avvocato di avere contezza di tale nuova valutazione e di prospettare le proprie ragioni e tale funzione non può che essere affidata al passaggio dall’udienza camerale all’udienza pubblica nel corso della quale il relatore fa conoscere ai procuratori delle parti le conclusioni alle quali è giunto il collegio in punto inammissibilità del ricorso .
Una volta che il primo scrutinio operato dalla sesta sezione è sfociato nell’assegnazione del procedimento alla sezione semplice, nel nostro caso la sezione lavoro, si ha un secondo scrutino organizzativo teso all’individuazione del rito da utilizzare, quello in camera di consiglio o quello in pubblica udienza; quest’ultimo solo se si è davanti a questione di diritto di particolare rilevanza .
Il sunteggiato modello di accesso a diversi procedimenti di cassazione mette in luce il rilievo che ha il ricorso per cassazione ai fini delle decisioni da intraprendere da parte della Corte ed è pertanto evidente l’importanza che a tali fini ha l’attività di redazione dell’atto da parte dell’avvocato.
Attività di redazione che deve garantire innanzitutto e per quanto possibile:
a) da un verso di scansare il rigetto per inammissibilità ai sensi dell’art. 375.1, nn. 1 e 5 c.p.c. ;
b) da altro verso, una volta superato il primo scrutinio, di accedere all’udienza pubblica , evitando l’udienza non partecipata.
La questione sulle modalità di redazione degli atti giudiziari innanzi alla Corte di cassazione vede come punto di partenza obbligato, oltre che le regole processuali in tema di redazione degli atti, il Protocollo d’intesa sottoscritto fra la Corte e il Consiglio Nazionale Forense.
I soggetti sottoscrittori hanno ritenuto di indicare uno schema per la redazione dei ricorsi per cassazione, esplicitando che l’adozione di tale schema ha l’obiettivo di definire i limiti di contenuto e di agevolare l’immediata comprensione da parte del giudicante .
L’adozione del menzionato Protocollo evidenzia, ancor prima di soffermarsi sul contenuto dello stesso nei limiti dell’odierno scritto, la necessità di una specifica specializzazione da parte dell’Avvocato cassazionista e ciò non può che passare, nel medio e lungo periodo, nell’istituzione di corsi di formazione nei confronti di coloro che intendano patrocinare innanzi alla Suprema Corte. Mentre, nel breve periodo, si deve porre in essere da parte di coloro che intendono proporre ricorsi per cassazione l’apprestamento di tutti gli strumenti idonei a garantire un affinamento e una sensibilità professionale specifici, che assicurino una stesura di ricorsi per cassazione idonea a garantire un’efficace difesa della ragioni dell’assistito e un’efficace collaborazione con la Corte di cassazione, per il raggiungimento del comune obiettivo rappresentato dall’emanazione di una decisione nel più breve tempo possibile e comprensibile nelle sue motivazioni innanzitutto per le parti .
L’analisi dello schema di ricorso approvato nel predetto Protocollo, alla luce anche della riforma del 2016, conduce a ritenere opportuno indicare in esso:
a) il quesito di diritto connesso alla predicata violazione di legge , al fine di consentire prima facie alla Corte di individuare immediatamente qual è la questione da risolvere, pacifici i fatti di causa ;
b) le ragioni sottese alla particolare rilevanza della questione giustificanti la trattazione in pubblica udienza da parte della sezione, o le ragioni individuanti la questione di massima di particolare importanza e che giustificherebbero una pronuncia a sezioni unite .
Lo schema di ricorso adottato, valevole anche per tutti gli altri atti giudiziari previsti per il giudizio di legittimità, ovviamente non dice, né può dirlo, in che cosa si sostanzino da un verso “lo svolgimento del processo” e da altro verso i “motivi di impugnazione”.
Con riguardo al primo elemento si legge che si deve trattare di un’esposizione, contenuta nel limite massimo di cinque pagine, sommaria e funzionale alla percepibilità delle ragioni poste a fondamento delle censure poi sviluppate nella parte motiva. La concretizzazione di tale espressione, in specie della sommarietà dell’esposizione e della sua funzione di comprensione da parte della Corte delle ragioni che saranno esposte nei motivi di impugnazione, non è ex ante e in astratto possibile. In via generale pare potersi affermare che in tale prima parte del ricorso è necessario e sufficiente che siano dipanati i soli elementi di fatto, epurando la narrazione di tutto quello che non è funzionale a tale obiettivo, propedeutici ai motivi di impugnazione .
Con riguardo al secondo elemento si legge che si deve trattare dell’esposizione, contenuta nel limite massimo di trenta pagine, delle argomentazioni a sostegno delle censure fatte alla sentenza di merito e deve avere le caratteristiche di specificità e concentrazione dei motivi. Anche questa espressione, al pari della precedente, soffre di un tasso di genericità non facilmente riducibile, non si può ex ante e in via generale prefigurare un modello espositivo che abbia queste caratteristiche. Caratteristiche si osservi che mutano da un verso a seconda del tasso di complessità della questione di diritto da affrontare e da altro verso se si tratta di un vizio di motivazione, essendo chiamato in quest’ultimo caso l’avvocato a percorrere un percorso giuridico che è ormai ridotto a un viottolo e che spesso conduce nel baratro dell’inammissibilità .
L’ultima delle indicazioni sulle quali appare utile soffermarsi attiene agli elenchi allegati. Il Protocollo si limita a rinviare, come noto, alla disposizione del codice di rito che prevede, a pena d’improcedibilità del ricorso il deposito, unitamente allo stesso, degli atti processuali, dei documenti, dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda (art. 369.2, n. 4), c.p.c.). Regola questa che, come noto, si connette alla precedente regola in forza della quale in sede di stesura del ricorso, a pena di inammissibilità dello stesso, vi deve essere la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda .
Al fine di non incorrere nella dichiarazione di improcedibilità, è necessario pertanto depositare unitamente al ricorso per cassazione tutti quegli atti e documenti che, secondo l’esposizione dei fatti di causa e dei motivi sottesi a ciascuno dei motivi di doglianza, siano necessari e sufficienti per dimostrare la fondatezza del ricorso. Né tale obbligo è assolto se ci si limita a individuare i predetti atti e documenti, rinviando per la loro consultazione al fascicolo di merito ove gli stessi sono stati prodotti (in specie se la produzione è stata di controparte e questa potrebbe non costituirsi nella fase di legittimità); né, ancora, pare potersi assolvere a tale obbligo, depositando unitamente al ricorso tutto il fascicolo di merito, di primo e secondo grado, in quanto così si porrebbe nel nulla la regola del codice di rito, che fa onere alla parte di avere la capacità di discernere e puntualmente indicare e produrre solo quegli atti e documenti serventi ai motivi di doglianza prospettati.
3.Il rito camerale e la tutela della posizione delle parti.
In questa sede ci si limiterà a verificare se l’utilizzo del rito camerale davanti alla Corte di cassazione, quale rito generalizzato, garantisca la posizione fatta alle parti, in specie ai loro procuratori, ponendoli nella stessa situazione in cui li pone l’udienza pubblica . Mentre il fine perseguito dal legislatore di accelerazione del giudizio di cassazione e di abbattimento dei procedimenti giudiziari di legittimità è condivisibile; di contro non appare condivisibile l’individuazione del metodo per raggiungere tale scopo. Scelta che si concretizza nella generalizzazione del rito camerale a scapito dell’udienza pubblica ed è da chiedersi se le regole connesse a tale generalizzato utilizzo siano neutre rispetto al diritto di difesa delle parti o se le stesse pongono in una posizione deteriore le parti, rispetto a quella fatta alle stesse in udienza pubblica; e se, infine, siffatta posizione deteriore sia giustificata rispetto ad altre esigenze che, nella scala di valori utilizzata dal legislatore, siano poste in posizione superiore al diritto di difesa. Sin d’ora, pare potersi affermare che né la funzione di accelerazione dei processi, né la funzione di nomofilachia possono prevalere sull’esigenza di difesa della parti del giudizio. Parti, si ricordi, che costituiscono i destinatari immediati e diretti dell’attività esercitata sia dai difensori, sia dai giudici .
La prima differenza di posizione fatta alle parti, a seconda che si utilizzi il rito camerale o meno, attiene all’effetto che ha la mancata notifica del controricorso.
Nel rito che si conclude con la pubblica udienza, tale mancata notifica e la costituzione del controricorrente con la sola procura speciale non preclude la partecipazione alla discussione, giusto il disposto dell’art. 370.1, secondo periodo, c.p.c. Di converso, nel rito camerale la mancata costituzione con il controricorso, nonostante la costituzione con procura speciale, non consente alla parte, secondo quanto affermato dalla Corte di cassazione, di depositare le memorie rispettivamente previste dall’art. 380-bis e dall’art. 380-bis.1 c.p.c. .
La soluzione accolta dalla Corte non pare ragionevole se confrontata con l’effetto che lo stesso comportamento ha nel rito che finisce con l’udienza pubblica, ne appare funzionale all’obiettivo della accelerazione dei giudizi di legittimità e della riduzione dei procedimenti di legittimità, non potendosi prospettare alcun ritardo nella decisione dal possibile deposito di memorie in vista della decisione che prenderà la sezione sesta o la sezione semplice in udienza non partecipata. Pertanto riconoscere tale possibilità appare essere una soluzione ragionevole, armonica e rispettosa del ruolo della difesa tecnica. Difesa tecnica, il cui ruolo di patrocinio della parte e di necessaria parte del processo, con partecipazione leale all’attività affidata al giudice, resta sempre eguale e non può essere funzione del rito scelto, senza alcuna possibilità di interlocuzione sul punto, dallo stesso giudice chiamato a decidere dell’esito del ricorso (sulla necessaria neutralità del modello processuale ai fini della tutela del diritto, si è pronunciata la stessa Corte di cassazione in materia previdenziale, con la decisione del 26.11.2019, n. 30860, v. nota 10).
Ulteriori caratteristiche del rito camerale, sia esso dinanzi alla sesta sia dinanzi alla sezione semplice, sono state precedentemente accennate (si v. note 10, 11 e 15) e riguardano la possibilità che ha il collegio di decidere diversamente o dalla proposta del relatore portata a conoscenza delle parti (art. 380-bis c.p.c.) o di procedere a un nuovo scrutinio di ammissibilità del ricorso, nonostante l’approdo della sesta sezione sul punto (art. 380-bis.1 c.p.c.).
In entrambe le ipotizzate fattispecie la decisione finale è il frutto di una valutazione e disamina di questioni del tutto sconosciute alle parti. Parti che non hanno potuto interloquire sulle stesse e che apprendono di siffatta novità solo con la decisione. Non pare che l’opzione ermeneutica accolta dalla Corte, con riguardo al rito camerale, sia rispettosa e garantisca la difesa tecnica, ponendo questa in uno stato di ignoranza ineliminabile che si concretizza, si aggiunga, in una difficile spiegazione al cliente dell’esito del giudizio opposto a quello che ragionevolmente ci si poteva attendere dopo la lettura della proposta relatore o una volta constatato che il giudizio era stato assegnato alla sezione semplice dopo il sommario esame di ammissibilità compiuto dalla sesta .
Pare che una tutela del diritto di difesa, che si aggiunga non appare in questo caso ragionevolmente posto in posizione recessiva rispetto ad altri interessi, quali l’accelerazione del giudizio e l’abbattimento dei procedimenti pendenti, possa condurre ragionevolmente la corte:
a) allorché opta, per la non condivisione della proposta del relatore, a comunicare alla parti le ragioni sottese a tale scelta, fissando una nuova udienza e consentendo loro di esporre le ragioni adesive o contrarie a tale scelta;
b) allorché opta, per l’inammissibilità del ricorso nonostante il diverso esito dello scrutinio della sesta, a informare di tale scelta le parti del giudizio, con la comunicazione della fissazione della camera di consiglio, consentendo pertanto loro di articolare difese sul punto con la memoria o, se non si accede a tale possibilità, concedere alle medesime di partecipare all’udienza camerale, stante il tenore della disposizione che parla di decisione presa in camera di consiglio senza l’intervento del pubblico ministero e delle parti (art. 380-bis.1, ultimo periodo, c.p.c.).
4.La motivazione della sentenza e la conoscenza delle decisioni.
L’attività della Corte di cassazione, con riguardo a ciascun giudizio sottoposto al suo vaglio, si conclude con l’emissione di una decisione che prende la forma dell’ordinanza o della sentenza (irrilevante agli odierni fini è soffermarsi sui decreti) .
La sentenza deve contenere, per quel che interessa e nei limiti della presente esposizione, una concisa esposizione delle ragioni di diritto e di fatto, mentre l’ordinanza deve essere succintamente motivata. I testi legislativi usano l’avverbio “succintamente” con riferimento all’ordinanza e l’aggettivo “concisa” con riferimento alla sentenza. Entrambi i termini usati appaiono contenutisticamente sovrapponibili, indicando un discorso breve e sintetico . Senza che, però, tale caratteristica faccia venir meno l’ostensione delle ragioni che hanno condotto il giudice a decidere in un senso piuttosto che in un altro. Le ragioni del decidere devono essere sempre e comunque rappresentate, ancorché sinteticamente, e devono essere comprensibili sotto il profilo logico, sintattico e giuridico.
Chiarito che caratteristica comune di tutte le decisioni anche della Corte di cassazione è la sinteticità alla quale si connette inscindibilmente la chiarezza e l’esaustività, resta sempre la questione di individuare il percorso lessicale e logico che dovrebbe essere utilizzato dalla Corte per motivare la propria decisione. Percorso che, non essendo soggetto ad alcun altro tipo di verifica (si prescinde in questa sede dalla revocazione), deve consentire in ordine gradato innanzitutto alle parti di comprendere il perché siano risultati vincitori o soccombenti poi a tutti gli altri operatori del diritto, siano essi pratici o teorici, di comprendere il perché la Corte abbia deciso in un modo piuttosto che in un altro .
Mentre il primo livello di comprensione è sempre necessario e sufficiente ai fini della decisione accolta dalla Corte; il secondo pare assumere un rilievo via via più rilevante, a seconda della circostanza che la questione giuridica affrontata e risolta abbia una spettro applicativo che trascende le parti e gli interessi delle stesse. Spettro applicativo più ampio che può essere rappresentato, alternativamente o cumulativamente, dall’ambito soggettivo di efficacia, dalla rilevanza economica.
A quel che consta le tecniche redazionali della motivazione sono state oggetto di esame da parte degli stessi giudici, ovverosia da parte di coloro che istituzionalmente sono chiamati a produrre tale prodotto letterario, pertanto pare opportuno prendere le mosse da tali approdi . Ancorché, sia consentito osservare, il tasso di comprensibilità delle ragioni che hanno condotto un giudice ad accogliere la tesi di una parte piuttosto che dell’altra, dovrebbe essere l’esito del vaglio affidato a soggetti non appartenenti al medesimo ruolo, in quanto naturali destinatari dell’esercizio dell’attività giurisdizionale.
Già nel 1987 un magistrato formulava proposte operative tese a rendere più agile e razionale l’opera di redazione delle motivazioni, con le quali si sarebbe potuto recuperare molto, in termini di tempo e di disponibilità, da dedicare allo studio e alla decisione di un maggior numero di ricorsi, nella prospettiva della progressiva riduzione prima e dell’eliminazione poi dell’arretrato esistente . Lo stesso però non si soffermava sulla tecnica di redazione delle ragioni della decisione.
Tecnica sulla quale invece si sofferma altro magistrato che predica una distinzione fra motivazione e argomentazione, evincendola dalla lettura dell’art. 132.2, n. 4 c.p.c., che conduce all’affermazione che la motivazione è ragione della decisione e ragione non è necessariamente argomentazione .
Indicazioni sulle modalità di redazione delle ordinanze e delle sentenze si rinvengono da un verso nel “Documento programmatico sulla sesta sezione civile” e da altro verso nei provvedimenti emessi dal Primo Presidente della Cassazione rispettivamente il 22.1.2011 e il 14.9.2016 .
Nel più recente provvedimento del Primo Presidente, quello al quale si è adeguata l’attività di redazione delle decisioni da parte dei componenti della Suprema Corte nel corso di questi ultimi anni, si afferma da un verso che per lo svolgimento della funzione nomofilattica della Corte, tutti i provvedimenti devono rispettare i canoni della chiarezza, essenzialità e funzionalizzazione della motivazione alla decisione; da altro verso che è contestualmente indifferibile un processo di accelerazione a prassi di lavoro più snelle rispetto ai procedimenti che non attingono alla valenza dello jus constitutionis.
Solo con riguardo alle sentenze che svolgono un ruolo nomifilattico e quindi, per quel che rileva l’odierna indagine, quelle rese dalla sezione semplice una volta svolta l’udienza pubblica, il provvedimento del Primo Presidente prevede che le stesse siano improntate ai canoni di:
1. chiarezza ed essenzialità;
2. stretta funzionalità dell’iter argomentativo alla decisione;
3. assenza di motivazioni subordinate, di obiter dicta e di ogni enunciazione che vada oltre ciò che è indispensabile alla decisione;
4. puntualità dei richiami ai precedenti della giurisprudenza di legittimità.
Con riguardo alle ordinanze emesse dalla sesta sezione e dalla sezione semplice, il citato provvedimento afferma che per la loro redazione devono essere adottate tecniche più snelle di redazione motivazionale, differenziate a seconda del grado di complessità delle questioni. Una volta individuato il grado di complessità si afferma che:
1. l’esposizione dei fatti di causa deve essere estremamente concisa e funzionale solo a rendere comprensibili le ragioni della decisione, e può essere assente, quando i fatti di causa emergono dalle ragioni della decisione;
2. l’esposizione dei motivi di ricorso, quando non necessaria, deve essere preterita, quando al censura possa risultare dal medesimo tenore della risposta della Corte.
La bipartizione compiuta nel citato documento è condivisibile se funzionalizzata a ridurre graficamente il testo delle ordinanze rispetto al testo delle sentenze, lasciando inalterata la necessità che, per entrambi i tipi di decisione, esista una motivazione, chiara ed essenziale, idonea a sorreggere la statuizione e comprensibile alle parti e a chiunque intenda leggerla.
La stessa Corte di cassazione, in specie la sezione lavoro, nell’esaminare la bontà delle motivazioni rese dalle corti di merito ha affermato che la tecnica di redazione dello svolgimento logico del pensiero che sorregge la decisione deve garantire la comprensibilità degli elementi della concreta fattispecie che il ragionamento ha posto a fondamento delle scelte operate dal giudice e non può ridursi alla mera affermazione di condizioni del tutto astratte e ipotetiche. E, proprio con riferimento al richiamo di precedenti giurisprudenziali, nella stessa decisione la Corte ha affermato che affinché tale richiamo soddisfi il parametro di concretezza richiesto dall’obbligo costituzionale di motivazione, è necessario almeno affermare che la fattispecie concreta in esame sia del tutto coincidente con il precedente .
Pare che l’individuato percorso possa essere pianamente applicato anche alle motivazioni rese dalla Corte, con la precisazione, connessa al ruolo di chiusura del sistema che ha la Corte medesima, che, allorquando la stessa afferma di applicare un principio precedentemente statuito, è necessario individuare il comune denominatore che pone in logica e giuridica connessione la causa decisa e quella che si sta per decidere.
In breve pare potersi concludere su questo delicato aspetto che le uniche differenze, ai fini della redazione della motivazione sintetica, fra sentenze e ordinanze, siano da individuare nella circostanza che con riguardo alle seconde è possibile preterire l’esposizione dei fatti di causa e dei motivi di ricorso, quando entrambi siano reperibili e comprensibili in sede di motivazione, ma giammai in sede di stesura della motivazione che deve garantire, a prescindere dal veicolo utilizzato per giudicare, la comprensione delle ragioni che hanno condotto la Corte a decidere in un modo piuttosto che in un altro.
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Una volta che la decisione è resa, si pone l’ulteriore problema della sua conoscibilità e della sua comprensibilità (caratteristica questa che rinvia alle modalità di redazione e alla qualità della motivazione).
Il primo livello di conoscenza ovviamente riguarda le parti e lo stesso è assolto con il deposito della decisione e l’invio del biglietto di cancelleria.
La conoscibilità della decisioni con riguardo a soggetti che non sono stati parti del giudizio, come noto, è ora assicurata da un verso e per le sentenze degli ultimi cinque anni dal libero accesso al sito della cassazione “sentenzeweb” ; da altro verso e con riguardo alle decisioni della Corte meritevoli di essere massimate dall’Ufficio del Massimario della Cassazione .
Ufficio questo che, se si segue il filo di Arianna sinora dipanato con riferimento all’utilizzo dell’udienza pubblica per tutti i procedimenti giudiziari di legittimità a valenza nomofilattica tout court, dovrebbe massimare tutte le decisioni emesse dalle sezioni semplice in udienza pubblica, nonché tutte le decisioni rese dalle sezioni unite della Corte .
La conoscenza delle decisioni emesse invece dalle sezioni semplici, tramite la loro massimazione, non è invece automatica con riguardo alle decisioni rese da queste a seguito di procedimento camerale. Per tali tipi di decisione che, secondo il dettato legislativo, concludono giudizi che non hanno affrontato questioni di diritto di particolare rilevanza, parrebbe opportuna una valutazione per singola decisione al fine di garantire la massimazione di quelle ordinanze della Corte che risolvono questioni di diritto che, in negativo, non hanno particolare rilevanza o che reiterano principi di diritto precedentemente affermati.
Altra contigua, connessa e conseguente questione, derivante dalla conoscenza/massimazione delle decisioni della Corte di cassazione ma sempre nel campo dell’informatica giuridica documentaria , è quella dell’adeguamento del comportamento degli operatori del diritto ai principi affermati dalla Corte. La reiterazione da parte del giudice della nomofilachia dello stesso principio di diritto nei confronti di fattispecie omologhe dovrebbe condurre gli operatori del diritto chiamati a valutare fattispecie sovrapponibili a quelle esaminate dalla Corte di cassazione, ad adeguarsi. Adeguamento che, per gli avvocati, si dovrebbe concretizzare nella non promozione di un’azione giudiziari e che, per i giudici, in specie quelli di merito, si dovrebbe concretizzare nell’emissione di una decisione che applica il principio di diritto affermato dalla Suprema Corte .
5.Considerazioni finali
In conclusione di questa sommaria disamina è da chiedersi se le strutture organizzative preposte in seno alla sesta sezione-lavoro e alla sezione semplice lavoro, oltre ad assicurare il corretto instradamento dei giudizi, per garantire che il rito assegnato sia corrispondente al tasso di rilevanza di ciascun giudizio, secondo la scala di valori prefigurata dal legislatore e oltre ad assicurare che lo studio della controversia e la decisione accolta siano il frutto di una consapevole conoscenza di ogni singola fattispecie e della giurisprudenza antecedente della stessa Corte, possano avere un ruolo attivo di modulazione del rito camerale che garantisca l’esercizio del diritto di difesa, ogni qual volta si sia davanti a una scelta del Collegio ignota ai procuratori delle parti.
Pare che possa essere auspicabile che, all’interno di tali modelli organizzativi, si pongano anche attività procedimentali che consentano al giudizio di fermarsi nella sua corsa alla decisione, per consentire alle parti di esercitare il proprio diritto di difesa, quando sia la stessa sezione a intraprendere strade del tutto ignote alle parti e che condurrebbero all’emissione di decisioni “a sorpresa”.