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Nel secondo governo Berlusconi (2001-2006) mi fu offerta l’opportunità di ritornare all’impegno pubblico quale sottosegretario al ministero del lavoro e delle politiche sociali. Lasciai così il mio impiego presso l’International Labour Office ove avevo lavorato per oltre sei anni quale Branch Office Director. Ministro era Roberto Maroni che mi conferì una ampia delega alla riforma del mercato del lavoro con l’obiettivo di produrre more and better jobs in Italia sulla base delle indicazioni della strategia europea per l’occupazione prevista dal processo di Lussemburgo. Proposi immediatamente al ministro di avvalermi della collaborazione del professor Marco Biagi che aveva già rivelato la sua sintonia con il disegno comunitario quale consulente della stessa Commissione Europea, dei precedenti governi nei quali aveva assistito il ministro e collega Tiziano Treu, del comune di Milano per il quale aveva realizzato un Patto con i principali attori sociali per l’inclusione delle fasce più deboli del mercato del lavoro del territorio metropolitano. Quale primo atto ci consiglio’ di tradurre in norma l’accordo sul recepimento della direttiva europea in materia di contratti a tempo determinato che egli stesso aveva accompagnato constatando come la Cgil, che pure aveva contribuito alla definizione del testo, avesse poi deciso di non sottoscriverlo perché “precarizzante”. Convenimmo contemporaneamente di far precedere gli ulteriori interventi legislativi dalla redazione di un Libro Bianco sul Mercato del Lavoro in Italia per la quale coordinammo insieme un gruppo di esperti scelti per la loro oggettiva competenza senza chiedere lealtà politica. Tutti fummo affascinati dalle sue intuizioni che costituirono l’ossatura fondamentale del documento. In sintesi, questo segnalava i limiti cronici del mercato del lavoro italiano nei bassi tassi di occupazione generale, nel profondo divario territoriale, nel lento ingresso dei giovani a causa dei “difficili processi di transizione dalla scuola al lavoro”, negli elevati livelli di esclusione degli adulti e delle donne, testimoniati dalla disoccupazione di lunga durata, nella significativa dimensione del lavoro sommerso e atipico ovvero di bassa qualità. Ne derivava un pericoloso “sottoutilizzo di capitale umano” al quale doveva contrapporsi l’obiettivo di una “società attiva”. Secondo Biagi ciò era “il risultato di rigidità nella regolamentazione dei rapporti di lavoro ed in particolare del prevalere della tutela dei rapporti in essere”. Ma egli non si iscriveva banalmente al filone neo-liberale della flexicurity. Certo evidenziava la debole protezione della persona volonterosa di lavorare e l’inefficienza dei meccanismi di incontro tra domanda e offerta. “Istituzioni, centrali e locali, e parti sociali sono chiamate a disegnare - scriveva - un sistema di politiche del lavoro basato non più sul singolo posto di lavoro bensì sull’occupabilita’ e sul mercato del lavoro.” La sua originalità, frutto della assoluta negazione di ogni approccio ideologico e di un criterio di osservazione della persona al lavoro, consisteva innanzitutto nella visione di un progressivo cambiamento del rapporto di lavoro. Biagi fu probabilmente il primo giurista ad analizzare le conseguenze della conclusione dell’epoca fordista della produzione per cui sosteneva che “il prestatore di oggi, e soprattutto di domani, è assai più che semplice titolare di un rapporto di lavoro, è un collaboratore che opera all’interno di un ciclo. Si tratti di un progetto, di una missione, di un incarico, di una fase della attività produttiva o della sua vita. Il percorso lavorativo è segnato da cicli in cui si possono alternare fasi di lavoro dipendente ed autonomo, in ipotesi intervallati da forme intermedie e/o da periodi di formazione e riqualificazione professionale.” Per primo Biagi vedeva insomma il superamento delle produzioni seriali e dell’operaio (o anche del colletto bianco ) massificato. I lavoratori avrebbero riacquistato un volto. Non a caso collegava “i mutamenti che intervengono nell’organizzazione del lavoro e la crescente spinta verso una valorizzazione delle capacità dell’individuo”. E affermava in conseguenza la necessità di “sperimentare nuove forme di regolazione rendendo possibili assetti regolatori conformi agli interessi del singolo lavoratore ed alle specifiche aspettative in lui riposte dal datore di lavoro”. Infatti sosteneva che “in un contesto crescentemente individualizzato di rapporti e contratti di lavoro sono individualizzate anche le scelte dei prestatori: ciò che può essere migliorativo per l’uno, può risolversi in una condizione di peggior favore per l’altro”. Da queste premesse derivava l’indicazione della autonomia negoziale assistita attraverso l’introduzione dell’istituto della certificazione (della libera e consapevole volontà delle parti) a cura di soggetti terzi come istituzioni o corpi sociali bilaterali. La certezza che ne sarebbe derivata avrebbe incoraggiato la propensione ad assumere tanto quanto il facile contenzioso, ed una giurisprudenza frequentemente orientata alla aprioristica ragione del contraente debole, hanno sempre determinato effetti di segno opposto. Coerentemente fu individuato anche il corollario dell’arbitrato per equità che, in un quadro di relazioni di lavoro collaborative, avrebbe dovuto consentire soluzioni tempestive e prevedibili alle liti comunque prodottesi. Qui è bene ricordare che l’istituto fu poi introdotto dalla legge n. 183/10, dopo un lunghissimo iter parlamentare dovuto anche ad un originale rinvio alle Camere da parte del Presidente della Repubblica, ma non è mai entrato in vigore perché, esperito inutilmente l’accordo con le parti sociali per l’opposizione di una di esse, i ministri che si sono succeduti non hanno ritenuto di adottare un autonomo atto ministeriale nonostante la legge vi facesse esplicito rinvio.
Se è vero che poi si auspicava un rinnovamento fondato sul dialogo e sul controllo sociale, era nondimeno evidente l’attraversamento del Rubicone ovvero il superamento del pregiudizio ideologico verso il contratto individuale e questo fu evidente soprattutto ai suoi detrattori. Egli tuttavia non metteva da parte la contrattazione collettiva. Anzi, la potenziava riducendo il peso della legge e applicando il principio della sussidiarietà tanto orizzontale quanto verticale. Ma al centro di essa avrebbe dovuto collocarsi la persona. Ne conseguiva lo spostamento del baricentro contrattuale verso la dimensione aziendale e territoriale in quanto più prossime alla persona stessa. Biagi insomma, pur avendo la limitata conoscenza delle tecnologie informatiche di quel tempo, intuiva le grandi trasformazioni nei modi di produrre e di lavorare che poi sarebbero intervenute, comprendeva il superamento della rigida separazione tra autonomia e subordinazione della prestazione, avvertiva il cambiamento in senso transizionale del mercato del lavoro, declinava la flessibilità nella capacità adattiva della contrattazione di prossimità e la sicurezza nell’agevole accesso alle fonti di apprendimento. Egli condivise le misure urgenti di flessibilita’ in entrata e in uscita nei rapporti di lavoro perché concepite come un utile “sbottigliamento” che avrebbe rapidamente innalzato i tassi di lavoro regolare. Purtroppo non visse per constatare quanto avesse ragione perché negli anni successivi alla sua legge si registrò un drastico incremento della intensità occupazionale della pur modesta crescita economica. Ma l’obiettivo vero e ultimo restava quello indicato nello stesso Libro Bianco, la sostituzione dello Statuto dei Lavoratori attraverso un moderno Statuto dei Lavori. A differenza della gran parte di coloro che tuttora lo ritengono un vangelo intoccabile, Biagi ed io eravamo, per diverso percorso, figli della stessa esperienza politica che tanto aveva voluto e ottenuto lo Statuto. Avevamo vent’anni nel 1970 e io ricordo tre anni dopo una assemblea di lavoratori nello stabilimento Zoppas di Conegliano con il ministro del lavoro Gino Bertoldi, succeduto a Donat Cattin e Brodolini, nel corso della quale si manifestarono l’opposizione della Cgil e la freddezza della Cisl rispetto alla recente legge. Per ragioni diverse le due organizzazioni furono contrarie anche se la Cisl fu alla fine soddisfatta del compromesso con cui fu evitata la ingerenza della normativa nella libertà contrattuale. La confederazione di matrice cattolica, nel dibattito che precedette la conclusione dell’iter parlamentare, era solita affermare: “il nostro Statuto è il contratto”. Convinta sostenitrice del modello privatistico di relazioni industriali, la Cisl si era infatti opposta ad ogni ipotesi di regolazione pubblicistica degli organismi di rappresentanza attraverso l’attuazione degli articoli 39 e 40 della Carta Costituzionale. Ed aveva subito il trasferimento dalla fonte contrattuale a quella legislativa di alcune disposizioni che Governo e Parlamento avevano voluto applicare a tutti i settori della produzione. Biagi ed io siamo stati influenzati da questa cultura sindacale per cui, in un tempo diverso da quello della elaborazione ed approvazione dello Statuto e nella prospettiva dei cambiamenti di cui si è detto, non ci è stato difficile ipotizzarne la riforma. In particolare, di fronte alla esigenza di proteggere tutti i lavori, scrivemmo che “non può certo essere condiviso l’approccio ..... di estendere rigidamente l’area delle tutele senza prevedere alcuna forma di rimodulazione all’interno del lavoro dipendente”. Nel momento in cui si manifestava una tendenziale confusione tra autonomia e subordinazione, ipotizzammo “un nucleo minimo di norme inderogabili”, soprattutto di specificazione del dettato costituzionale, al di sopra del quale si riteneva “opportuno lasciare ampio spazio all’autonomia collettiva e individuale” per declinare in prossimità le nuove tutele come la formazione. Con l’aggiunta di un avvicinamento dei regimi previdenziali così da rendere neutrale la scelta della tipologia contrattuale. Il 14 febbraio 2002, a pochi giorni dalla morte, nel contesto del conflitto politico e sociale che accompagnò il confronto sulle nostre prime proposte di attuazione del Libro Bianco, Biagi scrisse sul mio personal computer al ministero del lavoro una bozza di norma delega per la redazione dello Statuto dei Lavori ( il file Marina dal nome della amata moglie), che avrebbe poi costituito il testo di riferimento per l’art. 8 del DL 138/11 relativamente alla distinzione tra norme inderogabili e capacità della contrattazione di prossimità. Insomma, tanto lo Statuto dei Lavoratori aveva quale presupposto la loro omologazione nella seconda rivoluzione industriale, quanto lo Statuto dei Lavori avrebbe dovuto riflettere la pluralità dei mercati del lavoro, il superamento delle rigide mansioni con compiti via via rinnovati in relazione ad obiettivi mutevoli, la definizione di tutele dinamiche per essere effettive, l’adattivita’ reciproca delle parti ai diversi contesti, una base minima di regole uguali per tutti. Quasi venti anni or sono questa impostazione trovo’ la durissima opposizione di una Confederazione sindacale ma il consenso di tutte le altre organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro. Si arrivò perfino alla firma formale di un documento (Patto per l’Italia) da parte di 36 su 37 associazioni convocate al tavolo del dialogo tripartito. È quindi ben paradossale che oggi, di fronte alla più evidente necessità di ripensare il sistema di protezioni nella rivoluzione cognitiva, si sia prodotta la secca estensione della disciplina tradizionale del lavoro subordinato a tutte le attività prestate in favore di terzi. Si tratta di una prima attuazione della “Carta dei diritti universali” proposta dalla Cgil che vuole l’applicazione di tutte le tutele previste dall’ordinamento a tutti. A partire dal ben noto art.18 che, in effetti, se dovesse essere riconosciuto come un diritto (e non come una tutela), dovrebbe estendersi anche a quella metà circa di lavoratori cui oggi non si applica. Lo stesso salario minimo obbligatorio, altrove regolato al livello della metà circa dei salari mediani, qui dovrebbe persino eguagliarli. La tesi ha invero una sua popolarità corrispondente alla crescente insicurezza generata dai profondi cambiamenti nei modi di produrre e lavorare. Eppure non è difficile immaginare, anche alla luce di recenti sperimentazioni, come una tale rigidità avrebbe il solo effetto di ridurre ulteriormente il monte ore lavorate e di incoraggiare l’effetto sostitutivo delle macchine. Si tratta di una illusione ottica non dissimile da quella prodotta dal meccanismo della indicizzazione dei salari al tempo dell’inflazione a due cifre. La risposta meramente difensiva e statica in un’ epoca così dinamica si risolve proprio nella penalizzazione delle componenti più fragili della società perché meno attrezzate ad affrontare le novità. Può essere certamente difficile la discontinuità rispetto ad un pensiero rimasto a lungo dominante che ha voluto identificare nella norma e nel giudice la fonte primaria della sicurezza del lavoro. Lo scambio ( o l’equilibrio ) tra flessibilità e sicurezza non si è realizzato tuttavia anche per l’approccio datato alle politiche attive. Da tempo i mercati del lavoro sono caratterizzati da transizioni continue per cui le attività di accompagnamento ad una nuova occupazione non possono avere il carattere della straordinarietà ne’ possono limitarsi al mero incontro tra domanda e offerta in un contesto di permanenti mutazioni organizzative. La fondamentale sfida per il lavoro consiste inevitabilmente nella costruzione in ciascun territorio di ecosistemi formativi attraverso la duttile collaborazione tra scuole, università, centri e istituti di formazione, imprese, professioni ed enti bilaterali. Non si tratta di costruire rigidi organismi burocratici ma di sviluppare ovunque una molteplicità di percorsi di apprendimento e riqualificazione tarati sulle specificità di ogni area. Biagi sosteneva la integrazione (ancor più che l’alternanza) tra scuola e lavoro, tra imprese ed istituzioni educative, in un tempo in cui molti contestavano questa contaminazione nel timore che l’apprendimento teorico (per la vita) fosse condizionato da contingenti esigenze (dell’azienda). Ricordo un incontro che Biagi ed io avemmo con il coordinatore degli assessori regionali per promuovere i nuovi contratti di apprendistato per il conseguimento di titoli e qualifiche, anche di tipo universitario, disegnati in perfetta armonia con l’ambiziosa riforma dell’istruzione promossa da Letizia Moratti per contrastare il drop out scolastico e per superare la separazione dell’Universita’. Non si voleva accettare l’idea che queste due tipologie contrattuali “a causa mista” potessero essere innanzitutto offerta educativa. Così come ricordo le successive difficoltà incontrate con la Conferenza dei Rettori a proposito degli uffici di placement. Oggi, come sappiamo, il modello duale tedesco viene costantemente invocato come la migliore pratica europea per l’inclusione dei giovani e ogni Università cerca interlocutori nell’economia del territorio per co-progettare percorsi utili alla occupabilita’ delle persone e alla competitivita’ delle imprese. Ma quante polemiche, quante contestazioni accompagnarono quelle ipotesi innovative ritardando processi utili all’inclusione sociale attraverso il lavoro. Ed ancora oggi ne viene sottovalutata o ridimensionata la portata con inutili formalismi.
Emblematicamente potremmo dire che per Marco Biagi il diritto all’apprendimento teorico e pratico, alla formazione integrale, alla occupabilita’ perpetua, era il post-moderno art.18 tanto da ipotizzarsi nel Libro Bianco la fine della sanzione della reintegrazione per licenziamento ingiustificato (non discriminatorio!) in corrispondenza a questo percorso. Entrambe tutele reali con la differenza che la nuova tutela avrebbe dovuto essere accessibile a tutti e rivelarsi effettiva in ogni contesto. Se poi riflettiamo sulla sua portata ai fini dello sviluppo delle imprese e dei territori, ne deduciamo che non si tratta solo di un diritto ma anche di un dovere per il lavoratore. Verso se’ stesso ed il contesto relazionale in cui vive. Per questo le intuizioni di Biagi vanno oltre la definizione del nuovo impianto regolatorio come Statuto dei Lavori, allora utile ad evidenziare la fine del fordismo e della connessa omologazione del lavoro. Oggi potremmo riassumere il suo punto di arrivo in uno “Statuto dei diritti e dei doveri della persona attiva” per sottolineare l’originalità di ogni lavoratore e la inevitabile connessione tra le tutele pubbliche o collettive e la responsabilità di ciascuno. Abbiamo ora detto della rilevanza sociale della autosufficienza della persona nel mercato del lavoro attraverso la buona formazione. Nondimeno evidente e’ la connessione tra diritto e dovere nel caso di sussidi che devono rappresentare una tutela transitoria giustificata dal contestuale impegno per una nuova occupazione. Perfino nel caso della salute e sicurezza la Cassazione ha affermato che “il sistema della normativa antinfortunistica si è evoluto, passando da un modello “iperprotettivo”, interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro, quale soggetto garante investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori, ad un modello “collaborativo”, in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori”.
Non si tratta assolutamente di relativizzare la tutela del contraente debole in quanto la coincidenza tra diritti e doveri, proprio per i profili fondamentali, ne rafforza il bisogno di effettività e quindi ogni diritto diventa più sostenibile grazie ad un corrispondente dovere. D’altronde, evocare i doveri accanto ai diritti concorre a superare il vecchio impianto conflittuale nelle relazioni di lavoro. Il salto tecnologico e le imprevedibili variabili immanenti nella globalizzazione inducono le parti alla condivisione delle fatiche e dei risultati. Ovviamente non basta affermare ciò in astratto perché solo lo sviluppo delle relazioni adattive di prossimità potrà generare duttilmente e continuamente le regole contrattuali per questo equilibrio.

 

 

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