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Mi piace pensare che, se fosse ancora tra noi, oggi Marco Biagi starebbe preparando una pubblicazione (magari coinvolgendo – come era sua abitudine – più autori) su ‘’Il diritto del lavoro in tempi di calamità’’, nella quale cercherebbe di individuare i confini tra i diritti indisponibili dei lavoratori e le deroghe consentite in nome dell’interesse pubblico; con particolare riguardo agli obblighi dei datori di lavoro, ai sensi dell’articolo 2083 c.c., quando i problemi di sicurezza provengono da condizioni esterne al posto di lavoro.
E non è un caso che i suoi allievi, sotto la guida di Michele Tiraboschi, stiano pubblicando molti interessanti studi e contributi sugli effetti del Covid-19 sui rapporti di lavoro e i mezzi di tutela, attraverso quel ‘’vettore’’ di grande importanza culturale, formativa e divulgativa che è il Bollettino ADAPT (fondato da Biagi venti anni fa).
Ma le mie sono considerazioni scritte sull’acqua, perché la quarantena imposta dalle autorità per resistere e difendersi dal ‘’virus venuto dal freddo’’ ha impedito agli amici, ai colleghi, alle istituzioni e alle comunità scientifiche e civili, di ricordare, con iniziative pubbliche e partecipate, l’anniversario (sono trascorsi 18 anni) dell’uccisione di Marco, sotto casa, nella sera di quel maledetto 19 marzo, una giornata che restava pur sempre (ancorchè contrassegnata nel calendario senza il ‘’rosso’’ delle festività) dedicata al papà e da festeggiare in famiglia.
Condannati ad una sorta di confino chez nous, ci è rimasto un solo modo per ricordare un amico scomparso: leggere le sue opere e quanto è stato scritto di lui. Non solo per riannodare i fili di un pensiero giuridico che, a fatica, si è aperto una breccia nella cultura dominante che lo respingeva come un’eresia, ma che è stato in grado di ispirare profondamente la nuova legislazione del lavoro. Il primo brano incontrato in questa rimpatriata è stato scritto da Marco nel 2001, eppure sembra ancora fresco di stampa: ‘’Il mercato e l’organizzazione del lavoro si stanno evolvendo con crescente velocità: non altrettanto avviene per la regolamentazione dei rapporti di lavoro.
In Europa stiamo vivendo una trasformazione epocale che in alcuni paesi di altri continenti (America, Asia, Oceania) conosce stadi di sviluppo più avanzati: il passaggio definitivo dalla ‘’vecchia’’ alla nuova ‘’economia’’, la transizione tra un sistema economico ‘’industrialista’’ ad uno nuovo, fondato sulle ‘’conoscenze’’. Il sistema regolativo dei rapporti di lavoro ancor oggi utilizzato in Italia e, seppur con diversi adattamenti, in Europa, non è più in grado di cogliere – e governare – la trasformazione in atto.’’ Intendiamoci, non è nostra intenzione sostenere che lo sguardo di Biagi, quando scriveva queste parole, arrivasse a prefigurare i problemi di oggi. Da allora le trasformazioni, in un arco di venti anni, sono state diverse.
Ciò che va sottolineato, nell’opera di Biagi, non riguarda solo i contenuti, ma il metodo, l’approccio culturale, il superamento della concezione tolemaica del diritto del lavoro per metterlo in relazione con le trasformazioni dell’economia, dei mercati e dell’organizzazione del lavoro. A pensarci bene si tratta di una svolta radicale, se non rivoluzionaria addirittura. Biagi ne è stato un protagonista, insieme ad altri tra i quali voglio ricordare Pietro Ichino, il quale, essendo sopravvissuto a Marco (anche perché giustamente difeso da una tutela che a Biagi venne rifiutata) ne ereditò l’odio a cui era sottoposto il professore bolognese.
I programmi nascono e sviluppano le idee. Quella che affascinava Marco e gli innovatori come lui era semplice; come disse Alessandro Manzoni non è difficile essere saggi: ‘’basta guardarsi attorno’’.
Il lavoratore subordinato a tempo indeterminato o standard – ecco la presa di coscienza- non è più il centro di un sistema tenuto ad adattarsi ai suoi diritti, ma sono questi ultimi che devono adeguarsi ai cambiamenti, non per svanire nella nebbia della globalizzazione, ma per continuare a vivere e a salvaguardare la dignità del prestatore d’opera nelle nuove condizioni che consentono all’apparato produttivo di svilupparsi ed essere competitivo.
Tutto sommato, la ‘’vecchia’’ cultura del diritto del lavoro restava prigioniera di un broccardo che, tuttora, caposaldo del diritto penale ha fatto di esso un ‘’diritto assoluto’’: pereat mundus iustitia fit. Biagi fu tra i primi a rompere questa sfera di cristallo e a teorizzare che le nuove forme di lavoro, convalidate da esigenze effettive, non dovevano essere forzatamente ricondotte, con la spada del diritto e le manette della giustizia, all’interno degli ordinamenti tradizionali; era compito, invece, del legislatore, e quindi dell’ordinamento giuridico, varcare i confini dell’hic sunt leones, per fornire delle regole pertinenti alle nuove realtà.
Le leggi devono servire alle persone, non le persone alle leggi. E’ questo il filo rosso della ricerca a cui Marco si atterrà con coerenza, quasi con intransigenza fino a quella sera in cui non fece più ritorno, la sera del 19 marzo di diciotto anni or sono.
Marco Biagi, quella sera, si era fermato più a lungo del solito nel suo studio presso la Facoltà di Economia di Modena, dove era titolare della cattedra di diritto del lavoro. Aveva avvertito i famigliari che sarebbe arrivato più tardi a cena. Alla stazione aveva trovato subito il treno che in una ventina di minuti lo aveva portato a Bologna, dove l’attendeva una delle tante biciclette che Marco usava per muoversi più rapidamente nel traffico, ma soprattutto per ‘’fare del movimento’’ e conservare il fisico longilineo che Madre Natura gli aveva donato e contenere quel tasso di colesterolo che era strutturalmente più elevato del normale, nonostante uno stile di vita molto rigoroso. Durante la bella stagione, Biagi si travestiva da marziano (così la moglie Marina descriveva la sua attrezzatura sportiva) e, inforcata la bicicletta da corsa, si intruppava con la squadra di Romano Prodi in un saliscendi per le colline bolognesi, spingendosi, a volte, persino sui tornati della Futa. In tempo però per recarsi allo Stadio nel primo pomeriggio, insieme ai figli, a tifare Bologna. Al Dall’Ara si incontrava con Pierferdinando Casini ed altri concittadini più o meno illustri.
In quella che sarebbe diventata da lì a pochi minuti la sua ultima sera, Marco pedalava senza sapere che ad aspettarlo c’era la morte. Il mio amico aveva messo in conto questa possibilità.
E la temeva, perché sentiva intorno a sé un clima d’odio tanto più esteso e risoluto quanto più era immotivato.
In tale contesto aveva ricevuto delle esplicite minacce, come se dovesse prima o poi espiare chissà quali delitti commessi ai danni dei lavoratori, lui, consulente del ministro del Lavoro, Roberto Maroni (come lo era stato dell’amico Tiziano Treu) coordinatore del gruppo che aveva redatto Il Libro Bianco, curatore in sede tecnica del disegno di legge delega che poi fu battezzato col suo nome.
Nei confronti del lavoro del professore le manifestazioni di un normale dissenso di merito, per altro legittimo ed utile, erano contornate da un clima contestuale di sgradevoli riprovazioni etiche che sfociavano in una sostanziale accusa di tradimento.
Un’accusa che si può sopportare solo se si possiede una grande forza morale, perché la sinistra (Biagi era socialista) è implacabile con chi, a suo esclusivo giudizio, tradisce la regola fondamentale dell’appartenenza. Biagi, dunque, sentiva sulla pelle questo clima ostile ed era molto preoccupato per la decisione del Comitato per la sicurezza di privarlo della scorta. Anche su sollecitazione della famiglia si era rivolto a chiunque potesse aiutarlo per riottenere quella tutela minima che gli avrebbe salvato la vita.
Non a caso si seppe, dopo la sua uccisione e l’arresto dei suoi assassini, che il gruppo terrorista si era accertato che il professore non fosse protetto, perché ritenevano di non essere in condizione di reggere un eventuale conflitto a fuoco con un carabiniere o un poliziotto armati.
C’è una sua lettera a Pierferdinando Casini, allora presidente della Camera, che è la prova di quello stato di angoscia. “Devo chiederti aiuto per la mia sicurezza personale – scriveva il 15 luglio del 2001 Marco Biagi alla terza carica dello Stato con il quale condivideva le medesime radici familiari a Lizzano in Belvedere sull’Appennino emiliano - Da un anno sono sottoposto al regime di tutela-scorta. Poiché collaboro con la Giunta Albertini a Milano e sono l'estensore tecnico del "Patto per il lavoro di Milano", la Digos di varie città mi ha preso in consegna contro il rischio di possibili attacchi terroristici. Il timore è che si ripeta come il caso D'Antona. Ti lascio immaginare come possa vivere tranquilla la mia famiglia. Ora collaboro anche con Confindustria e CISL, nonché con lo stesso Ministro Maroni, realizzando sul piano tecnico una strategia di flessibilità sul lavoro. Sono molto preoccupato perché gli avversari (Cofferati in primo luogo) criminalizzano la mia figura. Per ragioni che ignoro a Roma da dieci giorni è stata revocata la scorta-tutela e tutte le volte che vengo nella capitale sono molto allarmato. Ti chiederei la cortesia di fare il possibile affinché, continuando il mio impegno tecnico, di cui sopra, io venga tutelato a Roma come a Milano, Bologna, Modena e in genere in tutta Italia. Mi piacerebbe parlarti dieci minuti: se la tua segretaria ci potesse organizzare un incontro anche brevissimo ti sarei molto grato. Ti prego di non fare parola con Mamma (che delicatezza usare la maiuscola per indicare la madre del presidente ! ndr) della questione confidenziale che ti ho prospettato – concludeva Biagi - perché mia mamma ne è all’oscuro”.
In questa lettera Marco ricorda il suo contributo all’estensione del c.d. Patto per Milano, che altro non era se non un tentativo di includere, adibendoli a lavoretti di pubblica utilità gli ‘’ultimi’’, i ‘’dannati della terra’’, gli immigrati senza occupazione. Questa ‘’impresa’’, che poi è stata imitata centinaia di volte in altre città, segnò l’inizio dei suoi guai. Marco divenne l’animatore e il protagonista del patto Milano lavoro, nel febbraio del 2000. Poiché il senso di quell’intesa era essenzialmente inclusivo per i settori emarginati del mercato del lavoro e, in quanto tale, presupponeva livelli retributivi d’accesso, inferiori ai minimi contrattuali: il che offendeva i <sacri principi>. Fu quella la circostanza in cui maturò la rottura con la Cgil (che non volle aderire all’intesa). I rapporti con la confederazione <rossa> non erano buoni da un pezzo, fin da quando Marco collaborava con Treu. Ricordo che Marco (il quale in passato aveva a lungo collaborato con le organizzazioni sociali della sinistra, in particolare con la Lega Coop) mi confidava queste difficoltà con grande stupore. Non riusciva a spiegarsi come non gli fosse consentito, neppure nella sua veste istituzionale, di intessere con i dirigenti di Corso d’Italia quelle relazioni positive che erano possibili con i colleghi della Cisl e della Uil. Uno stretto collaboratore di un ministro deve necessariamente preparare gli incontri, cercare preventivamente delle soluzioni, facilitare in tutti modi il negoziato. Quando tale funzione gli viene impedita, il collaboratore ne soffre anche sul piano professionale. Finita l’esperienza con Treu, (con la coda di un breve periodo ai Trasporti), con Bassolino, prima, con Cesare Salvi poi, i rapporti si fecero più flebili. Al punto che Salvi non volle neppure sostenere la candidatura di Marco Biagi a presidente della Comitato per l’occupazione (una delle poche opportunità concrete che hanno avuto i Governi italiani in sede Ue). Biagi aveva mantenuto, però, degli incarichi presso la Presidenza del Consiglio, anche quando aveva accettato l’incarico di consulenza conferitogli dall’Amministrazione comunale di centro destra di Milano. Cominciò, allora, la litania del <tradimento>. Il nome di Marco fu trovato in un volantino di un gruppo terrorista. Così venne disposto un provvedimento di tutela che, nelle sue alterne vicende, divenne uno dei problemi degli ultimi anni di vita di Biagi. Ma torniamo alle ultime stazioni della Via Crucis di un eroe civile.
Alcuni mesi dopo Biagi tornava alla carica con il ministro Roberto Maroni: “Desidero informarLa – scriveva il professore - che oggi ho ricevuto un'altra telefonata minatoria da un anonimo che asseriva perfino di essere a conoscenza dei miei viaggi a Roma senza protezione alcuna, ancora una volta cercando di intimorirmi in relazione alle mie attività di progettazione svolte su incarico Suo e del Sottosegretario Sacconi. Desidero assicurarLa – aggiungeva - che non intendo desistere dalla mia attività di collaborazione con Lei e con il Ministero. Nel contempo vorrei rappresentarLe tutta l'urgenza affinché vengano presi provvedimenti adeguati. Invio la lettera anche al Prefetto di Bologna in quanto tali telefonate si susseguono in questa città dove risiedo. Qualora dovesse malauguratamente occorrermi qualcosa, desidero si sappia che avevo informato inutilmente le autorità di queste ripetute telefonate minatorie senza che venissero presi provvedimenti conseguenti”.
Il contenuto di questa lettera è drammatico, perché è scritta da un uomo disperato, perseguitato da telefonate anonime che ne minacciavano l’esistenza. Ma era pur sempre un militante che non abbandona il posto di combattimento.
Tuttavia, la risposta che veniva data dalle autorità, allo stesso Presidente Casini, era la solita: non vi erano pericoli. Eppure, ricordo benissimo che il venerdì precedente la rivista Panorama aveva anticipato un rapporto dei Servizi in cui veniva ipotizzato un probabile attentato contro persone che svolgevano dei ruoli chiave nella formazione delle politiche del governo. Era in pratica un identikit di Marco Biagi, da tempo al centro di durissime polemiche per il suo apporto professionale: polemiche a cui rispondeva come un ‘’Rinaldo in campo’’, confutando in prima persona le accuse degli avversari, tra i quali c’erano anche amici, colleghi, compagni di studi.
Memorabile una riunione al CNEL dove Marco dovette confrontarsi con tanti giuslavoristi che criticavano il suo impegno. Persino la Pastorale del Lavoro (Marco era credente) gli chiese un incontro per discutere del disegno di legge a cui stava lavorando.
Nel saggio ‘’Giuristi del lavoro del Novecento italiano. Profili’’ ha scritto di lui un suo Maestro, Umberto Romagnoli, uno degli ultimi grandi giuslavoristi della scuola di Federico Mancini (a cui anche Biagi apparteneva): ‘’ Così, a quanti rimpiangono il tempo in cui il diritto del lavoro legava la sua popolarità all’ascesa della logica concessivo-acquisitiva che ha presieduto alla sua evoluzione, Marco (ma non solo lui) obietta che il diritto del lavoro è rimasto vittima del suo successo nella misura in cui ha prodotto effetti controfattuali. A causa di un costo del lavoro troppo alto, gli outsider stentano a trovare occasioni di lavoro regolare e la crescita delle tutele degli occupati crea difficoltà alle imprese, le incentiva a delocalizzarsi e, al limite, a tuffarsi nell’illegalità, fino a scomparire nell’economia sommersa’’. E ancora: ‘’ Il diritto del lavoro era abituato più a ridistribuire la ricchezza prodotta che a produrne, ma Marco comincia a persuadersi che i profitti d’impresa non sono che gli investimenti di domani e saranno i posti di lavoro di dopodomani. Per questo Marco assegna la priorità all’esigenza di migliorare il contesto nel quale opera l’impresa, incoraggiandone lo sviluppo al livello di competitività più elevato possibile’’.
Ma è la conclusione di Romagnoli del Profilo dedicato a Marco che merita di essere ricordata, perché proviene da un giurista che non ne condivide fino in fondo il pensiero ma riconosce al suo allievo martire (il Maestro che gli era più vicino fu però Luigi Montuschi), l’onestà e la coerenza. ‘’ Nondimeno, lo spunto costruttivo di Marco rappresenta sicuramente il punto alto della sua instancabile ricerca di ciò in cui credeva fermamente: l’esistenza, come scrive nel 2001, di «un percorso innovatore che andasse ben al di là delle appartenenze politiche». Per questo, in un’epoca in cui si celebra l’apologia del relativismo dei valori, a ragione può dirsi che Marco Biagi è stato un simbolo e un alfiere della schiera sempre più esile di quanti uniscono all’etica della responsabilità l’intransigenza delle convinzioni assolute’’.
Che dire, diciotto anni dopo? In questo momento il mondo di Biagi – che è anche il mio – è sconvolto da una pandemia ossessiva e devastante, da cui usciremo – se ne usciremo – profondamente cambiati. Le sirene di questi giorni prefigurano che diventeremo migliori. Purtroppo non sarà così. A noi amici ed estimatori di Marco Biagi – fino a quando sarà possibile – tocca la missione che svolsero i frati Benedettini nel Medioevo. Diventare gli amanuensi della memoria delle persone che ci furono care.
Poi verrà, anche per chi scrive, il tempo di congedarsi con la parole di San Paolo: ‘’ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede’’.

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