Testo integrale con note e bibliografia
Quando pensiamo al lavoro abbiamo un’immagine datata e non più veritiera. Abbiamo ancora in mente gli addetti alla catena di montaggio, il lavoro ripetitivo, l’alienazione, l’operaio massa. Invece i dati dicono un’altra cosa: più del 70% del lavoro dipendente appartiene al terziario, all’industria poco più del 20%, il poco che rimane all’agricoltura, che è il settore che aumenta in questi anni, perché i giovani hanno riscoperto la bellezza di una vita faticosa ma a diretto contatto con la natura, lontana dallo stress causato dalla frenetica vita in città.
Negli anni ’70 il lavoro nell’industria era più del 40% e le classi sociali erano ancora ben delineate: i lavoratori dipendenti, tra i quali l’operaio era il più rappresentativo, da una parte, e i padroni dall’altra. Si ignorava quasi la presenza del terziario, che comunque era vicino al 40%.
Il sindacato allora rappresentava gli ultimi e per un decennio buono conquistò salario e diritti portando la classe operaia a una condizione di relativo benessere.
Oggi il 15% dei lavoratori è a tempo determinato, più un numero imprecisato (e non potrebbe essere altrimenti) di lavoratori in nero, più un elevato numero di disoccupati ufficiali, più i cosiddetti “lavoratori scoraggiati”, cioè quelli che non cercano più neanche il lavoro. Questa massa enorme sono gli ultimi di oggi e nessuno li rappresenta. Non è cattiva volontà, è che le forme organizzative che andavano bene per gli operai e gli impiegati che avevano un impiego fisso, non vanno più bene per queste figure.
Si celebrano in questi giorni i 50 anni dello Statuto dei lavoratori, che fissò una serie di diritti e di tutele per i lavoratori dipendenti, a partire dai quali per decenni il sindacato ha costruito la sua forza. In particolare il famoso articolo 18 che rendeva molto difficili i licenziamenti individuali e tutelava in questo modo gli attivisti sindacali. Ma prima del 1970 l’impegno sindacale era molto rischioso per chi lo praticava, almeno dal punto di vista della tutela legale. C’era però una solidarietà molto sentita e, soprattutto nelle grandi fabbriche, questa funzionava da deterrente efficace contro ritorsioni padronali.
Oggi questi “ultimi” non sono protetti né dalla legge, perché molti di loro non sono classificati come dipendenti, né dalla solidarietà, data la loro dispersione in una miriade di posti di lavoro e il venir meno della solidarietà di classe, per l’avvento sempre più forte dell’individualismo, che mina alla base qualsiasi forma di azione collettiva, come quella sindacale.
Un’ osservazione molto pertinente, a proposito di licenziamenti, è che lo Statuto non prevede adeguate tutele contro i licenziamenti collettivi, che possono essere previsti dal datore di lavoro, anche in assenza del consenso sindacale e senza obblighi a carico del datore stesso. Tutto il dibattito si è concentrato sull’articolo 18, trascurando l’aspetto più inquietante della riduzione massiccia di personale.
Non ci scordiamo poi che lo Statuto arrivò dopo un decennio di lotte molto partecipate (tutti gli anni ’60) e previde una serie di conquiste che già erano state raggiunte nei contratti collettivi di lavoro. Oggi di queste lotte, soprattutto a favore degli “ultimi”, non c’è traccia e se, come insegna la storia, certe conquiste legali vengono solo dopo che si è mossa la società, siamo ancora lontani dal realizzare le appropriate tutele per questi lavoratori. Il sindacato non riesce ancora a trovare le strade per organizzarli, ed è ormai vissuto come una organizzazione che tutela i “penultimi”, perdendo così uno dei principali motivi del suo fascino.
Ci vorrebbe un grande investimento organizzativo da parte delle tre centrali confederali, ben maggiore di quello fatto per dar vita alla categoria dei lavoratori precari. Bisognerebbe allargare il campo d’azione sindacale almeno a quei lavoratori che non sono né dipendenti né autonomi, alle false partite IVA, ai disoccupati. Le categorie del futuro non saranno più solo i lavoratori dell’industria, ma anche e soprattutto quelli del terziario. Il sindacato è, in un certo senso, vittima del suo successo: ha portato gli ultimi degli anni ’70 a una condizione soddisfacente, ma si trova oggi di fronte a grandi problemi di rappresentanza e di elaborazione di rivendicazioni adeguate a una società che nel frattempo si è molto trasformata.
Un altro problema è legato all’esaurimento degli spazi di rivendicazione salariale, che, in quegli anni, facevano da traino efficace per ogni richiesta. La parabola della crescita economica è passata da più del 5% l’anno negli anni ’50 e ’60 allo 0,25% nel decenni 2000-2010 con una discesa che non ha conosciuto interruzioni. Gli spazi rivendicativi salariali si sono così ristretti, in particolare in Italia, ma l’andamento è analogo in tutta Europa.
La destra e la sinistra politiche nel nostro paese e a livello internazionale si sono sfidate per decenni a chi era più bravo a garantire benessere, misurato – sbagliando – solo con la crescita del PIL pro capite.
Ma questa sfida ha portato agli attuali problemi ambientali e a distribuire il reddito in modo sempre più diseguale all’interno sia dei paesi sviluppati che di quelli poveri o in via di sviluppo.
Il sindacato dovrà sempre più spostare la sua azione alle richieste normative. Stanno cambiando il rapporto con il tempo e i luoghi di lavoro. Il rapporto con il tempo perché sempre più il lavoro è retribuito al raggiungimento di obiettivi, anziché in rapporto al tempo. Come l’imbianchino, che fa il preventivo sui metri quadri da verniciare, indipendentemente dal tempo che ci mette. Il luogo, perché lo smart working è destinato ad aumentare, procurando risparmi di spazio alle aziende, di tempo di spostamento ai lavoratori, di minor inquinamento all’ambiente. Ci sono però pericoli di maggior sfruttamento dei lavoratori che vanno identificati e normati con un approccio del tutto nuovo.
Bisogna imparare, nei paesi ricchi come il nostro, ad accontentarsi di quello che si ha e a concentrarci di più sugli spazi di maggior libertà e sulla qualità della vita, che non può essere misurata solo in base a quanto si guadagna.