Testo integrale con note e bibliografia
1. Premessa
Ricorre quest’anno il cinquantesimo anniversario dello Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970 n. 300, entrata in vigore in data 11 giugno 1970) che, secondo una communis opinio, può essere considerato una pietra miliare nella storia del diritto del lavoro italiano che, grazie allo Statuto, si è rinnovato profondamente e si è trasformato diventando complessivamente più moderno e più vicino ai modelli europei.
Ed infatti lo Statuto ha determinato in primo luogo, forse al di là delle finalità perseguite dal legislatore dell’epoca, che erano dichiaratamente quelle di riformare i rapporti di lavoro nella grande fabbrica, un nuovo equilibrio di posizioni tra le contrapposte parti del rapporto di lavoro subordinato, nuovo equilibrio caratterizzato, in particolare, da una maggiore consapevolezza, da parte del prestatore di lavoro, dei suoi diritti e della sua dignità e che ha riguardato tutto il mondo del lavoro, a prescindere dalla tipologia e dalle dimensioni del datore di lavoro. Mi riferisco a quelle norme, contenute soprattutto nel titolo primo che prevedono un apparato normativo a tutela della “persona” del lavoratore con conseguente limitazione dei tradizionali poteri autoritativi dell’imprenditore.
Peraltro, con ciò non voglio, naturalmente, sottovalutare il fatto che l’efficacia innovativa dello Statuto ha riguardato in particolare i dipendenti delle imprese di medie o grandi dimensioni, atteso che, con riferimento ad esse, il legislatore ha previsto norme finalizzate, in particolare, da un lato, a rafforzare la tutela del lavoratore nell’ipotesi di licenziamento illegittimo e, dall’altro, a garantire e promuovere l’attività sindacale in azienda.
2. Statuto dei lavoratori e processo. Il ruolo del giudice
Storicamente, un ruolo fondamentale nell’affermazione e nel sostegno dei diritti individuali e collettivi previsti dallo Statuto è stato svolto dalla giurisprudenza, in primo luogo quella di merito, che si è trovata ad affrontare il primo impatto di questa normativa così fortemente innovativa rispetto alla situazione preesistente e che ha saputo interpretare ed applicare in modo adeguato, a mio avviso, ma esprimo un’opinione generalmente condivisa, i principi introdotti dalla nuova normativa.
E questo ruolo è stato reso possibile, in particolare, dall’entrata in vigore, a distanza di circa tre anni rispetto allo Statuto dei lavoratori, della nuova legge sul processo del lavoro (legge n. 533 del 1973), che ha istituito il ruolo del giudice specializzato nella materia e ha introdotto nel processo una serie di principi che hanno consentito al giudice di operare in modo rapido ed efficace (1).
E i giudici, grazie al nuovo processo del lavoro, si sono sentiti investiti di un ruolo di supplenza e hanno saputo svolgere tale impegnativo ruolo con entusiasmo e carica creativa, come sottolineato, in dottrina da GROSSI (2), il quale afferma, tra l’altro, che in coincidenza con l’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori e del nuovo processo del lavoro “una generazione nuova di giudici si sentì investita di una missione garantistica” (3).
A ben vedere, prima il legislatore dello Statuto, con l’art. 28, e poi il legislatore del processo del lavoro, avevano puntato molto sulla capacità di risposta dei giudici di merito e, in particolare, dei pretori del lavoro.
Il procedimento regolato dall’art. 28 della legge n. 300 del 1970, finalizzato alla repressione della condotta antisindacale, ha affidato al giudice del lavoro un compito estremamente impegnativo ed un ruolo centrale nella gestione del conflitto sindacato/datore di lavoro.
Ruolo che emerge in tutta la sua evidenza esaminando le caratteristiche e la struttura del procedimento delineato dalla norma. Procedimento caratterizzato da sommarietà ed urgenza e sostanzialmente deformalizzato, nel quale l’unico passaggio vincolato per il giudice del lavoro è quello della convocazione delle parti e dell’assunzione di sommarie informazioni. All’esito di tale procedimento, da svolgersi in tempi rapidissimi, il giudice, qualora ritenga sussistente una condotta antisindacale (definita come “comportamenti diretti ad impedire o limitare l'esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero”) deve provvedere con decreto motivato ed immediatamente esecutivo ordinando al datore di lavoro, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione dei suoi effetti.
Si tratta di un meccanismo frutto di una scelta sostanzialmente obbligata da parte del legislatore, in relazione all’esigenza di non vanificare in partenza l’effettività della tutela dei diritti sindacali. Con tale procedimento viene assicurato l’intervento rapido del giudice sulle concrete situazioni compromesse dalla condotta antisindacale, intervento che si risolve nell’emanazione immediata di un provvedimento giurisdizionale, immediatezza che è indispensabile in situazioni nelle quali è insufficiente una tutela meramente risarcitoria o restitutoria, ed è particolarmente elevato il rischio che una giustizia che arrivi in ritardo si risolva in una giustizia puramente illusoria (4).
Come appare assolutamente evidente, la chiave di volta per assicurare il corretto funzionamento di tale procedura, è costituita dal ruolo del giudice il quale, all’epoca di entrata in vigore dello Statuto, non era nemmeno un giudice specializzato (lo sarebbe diventato soltanto tre anni dopo con l’entrata in vigore della disciplina del processo del lavoro).
I problemi applicativi della nuova normativa riguardavano in primo luogo delicati profili interpretativi. Mi riferisco in particolare al riconoscimento della legittimazione attiva, riservata dall’art. 28 agli “organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse”; disposizione questa che imponeva al giudice di indagare, in alcuni, non infrequenti, casi, sulla sussistenza, o meno, del requisito della dimensione nazionale del sindacato ricorrente, nelle ipotesi in cui tale requisito non era immediatamente percepibile ed in assenza di parametri idonei a definire e qualificare la natura nazionale del sindacato. Tali parametri verranno definiti dalla giurisprudenza di legittimità solo a partire dagli anni ottanta.
Ma i problemi più complessi riguardavano, da un lato, l’attività istruttoria e, dall’altro, la decisione.
L’attività istruttoria in quanto, in un contesto caratterizzato da una radicale deformalizzazione del procedimento a dall’attribuzione al giudice di un ampio potere istruttorio ufficioso, questo doveva trovare le corrette modalità di assunzione delle sommarie informazioni salvaguardando, oltre alla sua posizione di terzietà, l’essenziale esigenza del contraddittorio (desumibile dalla previsione dell’obbligo di sentire le parti) e la necessità di rispettare i limiti del devolutum quale emergeva dal ricorso del sindacato.
La decisione, considerando le imponenti difficoltà applicative riguardanti la definizione del concetto di antisindacalità in rapporto agli interessi fisiologicamente contrapposti dell'impresa e del sindacato. Va sottolineato in proposito che tale definizione è resa particolarmente difficoltosa dal fatto che, come è stato condivisibilmente affermato in dottrina (5) la definizione della condotta antisindacale fornita dall’art. 28 non è analitica ma (meramente) teleologica. La norma individua cioè il comportamento illegittimo non già in base a caratteristiche strutturali di esso, ma in base alla sua idoneità a ledere i beni protetti. È stato in proposito altresì rilevato da colui che viene considerato “il padre” dello Statuto dei lavoratori (6) che la previsione della norma è volutamente indeterminata, poiché il legislatore era consapevole del fatto che, nella realtà del conflitto industriale a livello di azienda, i suddetti beni possono venire lesi in una varietà di modi, difficilmente tipizzabili a priori in un testo di legge.
In questo contesto il compito del giudice era (ed è attualmente, atteso che la norma è rimasta, in parte qua, immutata) quello di trovare una linea di confine fra comportamenti antisindacali, e come tali illegittimi, e comportamenti datoriali dialetticamente contrapposti al sindacato ma pienamente legittimi in quanto meramente antagonistici e quindi ricompresi nella corretta dialettica fra parti contrapposte. Una linea di confine che può essere trovata soltanto attraverso la corretta applicazione dei princìpi dell'ordinamento, ed in particolare dei principi costituzionali.
3. Il ruolo del giudice del lavoro nella riforma del 1973
Ma il salto di qualità sul ruolo del giudice chiamato ad applicare e dotare di effettività i diritti ed i principi enunciati nello Statuto dei lavoratori avviene con la riforma del codice di procedura civile del 1973 (legge 11 agosto 1973 n. 533) che ha introdotto il nuovo processo del lavoro, informato ai princìpi, di origine chiovendiana, dell’immediatezza, della concentrazione e dell’oralità. Un processo quindi trasparente e pienamente comprensibile a tutte le parti in causa, e quindi anche al prestatore di lavoro, normalmente meno attrezzato culturalmente, che, in sede di interrogatorio libero, ha la piena opportunità di spiegare le proprie ragioni e, in sede di tentativo di conciliazione, di negoziare una soluzione idonea alle proprie esigenze (7).
Il tutto, affidato al governo del giudice del lavoro, dotato, fra l’altro, di rilevanti poteri d’ufficio, il cui esercizio, finalizzato al “perseguimento della verità materiale” come ripetutamente chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, è svincolato dal sistema legale delle fonti di prova del codice civile.
Il nuovo processo del lavoro si rivela da subito come strumento idoneo a realizzare l’affermazione dei diritti dei lavoratori, in termini di effettività e, almeno nei primi anni di sua applicazione, in termini di rapidità, riuscendo così di fatto a ridurre in modo sostanziale il vantaggio per la parte più forte economicamente derivante da un processo caratterizzato da tempi lunghi.
Le novità più rilevanti sono costituite: a) dall’obbligatorietà dell’interrogatorio libero delle parti alla prima udienza; b) dal rigido regime delle preclusioni che si coniuga con l’attribuzione al giudice di poteri d’ufficio concentrati sull’ammissione di mezzi di prova; c) dalla provvisoria esecutorietà ex lege delle sentenze di condanna di primo grado favorevoli al lavoratore; d) dalla possibilità per il giudice di disporre, in corso di causa, il pagamento di somme non contestate ovvero, ma esclusivamente in favore del prestatore di lavoro, di somme, a titolo provvisorio, quando ritenga il diritto accertato e nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova (8).
In primo luogo, la legge impone sostanzialmente al giudice di conoscere tutti i dettagli della causa fin dalla prima udienza, dettagli che devono essere esplicitati a pena di decadenza da entrambe le parti del giudizio in sede di ricorso introduttivo e di memoria di costituzione. Ciò rende pienamente operativi i principi dell’oralità e dell’immediatezza del processo ai quali è ispirato il nuovo processo e costituisce una condizione imprescindibile per un efficace tentativo di conciliazione e per un efficiente e non dispersivo interrogatorio libero delle parti.
Ma ciò che caratterizza maggiormente il ruolo del giudice nel processo del lavoro è sicuramente la disposizione prevista dall’art. 421 c.p.c. che conferisce allo stesso poteri istruttori ufficiosi. Poteri che si risolvono essenzialmente nella possibilità di disporre d’ufficio, in qualsiasi momento, l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile (ad eccezione del giuramento decisorio), nonché nella possibilità di richiedere informazioni e osservazioni, scritte o orali, alle associazioni sindacali indicate dalle parti (secondo comma).
È stato condivisibilmente osservato in dottrina (9) che con tale norma il legislatore, pur non attuando un sistema inquisitorio puro, tende a contemperare, in considerazione della particolare natura dei rapporti controversi, il principio dispositivo — che obbedisce alla regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova — con quello della ricerca della verità materiale mediante una rilevante ed efficace azione del giudice nel processo.
Dal punto di vista sistematico la disposizione di cui all’art. 421 c.p.c. trova una spiegazione del tutto convincente nell’osservazione di PROTO PISANI (10) secondo cui l’attribuzione al giudice del lavoro, non solo di incisivi poteri di direzione del processo, previsti dall’art. 420 c.p.c., ma anche (e soprattutto) di poteri istruttori esercitabili d’ufficio, è pienamente giustificata dal fatto che quasi tutti i diritti del lavoratore trovano immediato riscontro in precise norme costituzionali - ad esempio, il diritto all’integrità fisica e alla salute (art. 32 Cost.); il diritto al lavoro nelle sue varie manifestazioni (art. 4 Cost.); il diritto al riposo settimanale e alle ferie (art. 36, ultimo comma, Cost.); il divieto di discriminazione nei confronti della donna (art. 37 Cost.) - e quindi esulano da una considerazione limitata alla relazione obbligatoria fra prestatore e datore di lavoro ed acquistano una rilevanza generale in quanto diritti fondamentali strettamente inerenti alla persona. Si tratta talvolta di diritti assolutamente disponibili e, più frequentemente, di diritti relativamente indisponibili.
In tale contesto, l’attribuzione al giudice del lavoro dei poteri sopra citati — da esercitarsi con la diversa incisività resa necessaria dal diverso grado di indisponibilità del diritto concretamente dedotto in giudizio — trova piena giustificazione nella necessità di comporre la seguente contraddizione: a) da un lato, atteso il carattere almeno parzialmente indisponibile delle situazioni soggettive che ne costituiscono l’oggetto, il processo del lavoro deve perseguire tendenzialmente l’obiettivo di pervenire alla verità materiale, ed evitare quindi il rischio che la rimessione dell’attività istruttoria alla totale disponibilità delle parti private determini una sostanziale violazione o disapplicazione di una disciplina sostanziale inderogabile; b) dall’altro, in considerazione della particolare deteriorabilità delle situazioni soggettive implicate nel rapporto di lavoro (e più in generale della necessità di garantire effettività alla tutela giurisdizionale), il processo del lavoro, ancorché senza incidere sulla pienezza della cognizione, deve essere rapido e tale rapidità viene ottenuta mediante un massiccio ricorso alla tecnica delle preclusioni, tecnica che, se non adeguatamente temperata, rischia — stante l’impossibilità di allegazione di fatti e di prove tardive — di incidere negativamente sulla giustizia sostanziale della decisione.
Sotto altro profilo deve rilevarsi che i poteri istruttori ufficiosi del giudice del lavoro trovano ulteriore giustificazione nell’opportunità di supplire alle possibili deficienze della difesa tecnica della parte, la quale non solo può stare personalmente in giudizio (art. 417 c.p.c.) ma che, ove si tratti del prestatore di lavoro, è per definizione ipotizzata come economicamente e socialmente più debole.
Se quindi, la norma trova ampia giustificazione sistematica, essa pone al giudice del lavoro la necessità di trovare, in ogni giudizio allo stesso sottoposto, un punto di equilibrio fra la necessità, da un lato, di conservare la sua posizione di terzietà e di rimanere nell’ambito dei confini delle allegazioni delle parti e, dall’altro, quella di ricercare, almeno tendenzialmente, la verità materiale, in un contesto di rigide previsioni decadenziali a carico delle parti, previsioni peraltro considerate dal legislatore assolutamente necessarie per garantire un rapido svolgimento del processo, nella consapevolezza che il suo protrarsi danneggia, in particolare, la parte più debole del rapporto e quindi il prestatore di lavoro (11).
I profili sopra descritti costituiscono a mio avviso gli esempi più evidenti del ruolo chiave attribuito dal legislatore al giudice del lavoro con la riforma del 1973. E se ne potrebbero ricordare molti altri, quali, a mero titolo di esempio, e rimanendo nell’ambito degli istituti che trovano la loro disciplina nello Statuto dei lavoratori, l’individuazione dei criteri per la definizione delle mansioni equivalenti, di quelle superiori ovvero di quelle inferiori ai fini del controllo della legittimità dell’esercizio dello ius variandi da parte del datore di lavoro (art. 13), l’individuazione dei criteri per la definizione dei sindacati maggiormente rappresentativi sul piano nazionale (art. 19, comma 1, lett. a) nella versione originaria della norma), la definizione dei criteri per la verifica dei parametri di specificità e tempestività della contestazione nel procedimento di irrogazione delle sanzioni disciplinari (art. 7).
Il giudizio sulla qualità della risposta che il giudice del lavoro ha saputo dare alla sfida del legislatore non può che essere ampiamente positivo (12). A parte qualche episodico eccesso, di origine ideologica, verificatosi specialmente nei primi anni di applicazione delle nuove norme, la giurisdizione del lavoro ha saputo dare una risposta sostanzialmente adeguata, sia in termini di correttezza delle soluzioni giuridiche adottate, sia in termini di forte accelerazione dei tempi del processo del lavoro e quindi di miglioramento della sua efficacia in termini di garanzia dell’effettività delle tutele. E ciò appare tanto più notevole ove si consideri che, almeno nella fase iniziale, il giudice del lavoro ha dovuto applicare le nuove leggi ed i nuovi istituti giuridici ivi contenuti in assenza pressoché totale di precedenti giurisprudenziali (la giurisprudenza di legittimità ha iniziato a fornire parametri consolidati solo a partire da metà degli anni ottanta).
Il suddetto giudizio positivo trova del resto una implicita conferma nel fatto che ai meccanismi del processo del lavoro, ed in particolare ad alcuni dei suoi tratti caratteristici, quali, ad esempio, il regime delle decadenze processuali, l’esecutorietà della sentenza di primo grado, il legislatore ha fatto ampio richiamo negli anni successivi , in particolare con la riforma del 2011, per tentare di migliorare i tempi e la qualità del processo civile ordinario, tradizionalmente caratterizzato dalla carenza di adeguati poteri di impulso del giudice.
Segno questo che dimostra come, nonostante il progressivo peggioramento dei tempi di durata del processo del lavoro, particolarmente accentuato in alcuni distretti di Corte d’appello - peggioramento determinato in prevalenza da fattori esogeni ai meccanismi processuali, quali la crescita del numero dei ricorsi in materia previdenziale e di quelli in tema di rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato senza alcun adeguamento, in termini di risorse, per la trattazione degli stessi – il modello processuale introdotto con la legge del 1973 appare ancora essere il più moderno ed efficace.
4. Quale ruolo per il giudice del lavoro del prossimo decennio.
A questo punto una domanda si impone: come si evolverà il ruolo del giudice del lavoro nei prossimi anni?
La risposta a questa domanda non può prescindere da una brevissima disamina dell’evoluzione più recente del diritto del lavoro quale emerge dagli interventi legislativi che si sono susseguiti negli ultimi anni. Tale disamina mostra chiaramente che il legislatore non si è limitato a incidere sulla disciplina degli istituti lavoristici tradizionali, ma ha reso necessaria ed indifferibile una profonda rimeditazione di concetti fondamentali del diritto del lavoro quali, in particolare, quelli della subordinazione e dell’autonomia nell’ambito del rapporto di lavoro.
Con la legislazione più recente la nozione di subordinazione sembra sfumare – ovvero, secondo alcuni, dilatarsi – in relazione all’emergere di una moltitudine di forme di collaborazione fra prestatori di lavoro e imprese che non appaiono facilmente inquadrabili nella suddetta nozione pur concretandosi, almeno tendenzialmente, in prestazioni di opera continuativa e coordinata prevalentemente personale (e quindi nella definizione fornita dall’art. 409, n. 3, cod. proc. civ.).
In particolare, l’entrata in vigore del d.lgs. n. 81 del 2015 (in tema di disciplina dei contratti di lavoro e di revisione della normativa concernente le mansioni) e della legge n. 81 del 2017, recante il titolo, certamente significativo, «misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato» impongono un mutamento di prospettiva nel diritto del lavoro che non può essere più limitato alla valutazione dell’efficacia delle tutele e alla capacità di contemperamento, da parte del legislatore, degli opposti interessi ma che, in una situazione di cambiamento epocale dei sistemi economici e produttivi, deve estendere la propria riflessione a tutte le forme di prestazione aventi a oggetto un facere a favore di altri. Occorre in altre parole ripensare alla sfera di applicazione delle tutele e trovare una diversa ed equilibrata modulazione delle stesse in relazione alle singole manifestazioni che le nuove modalità del lavoro esprimono.
Il quadro complessivo è reso ancor più complesso dal continuo evolversi dell’organizzazione aziendale, imposto, in particolare, dalla globalizzazione e dalla connessa esigenza di far fronte alla concorrenza internazionale, e reso possibile dall’evoluzione tecnologica e, in particolare, dal proliferare delle c.d. piattaforme informatiche (13); basti pensare ai casi dei riders di Foodora o degli autisti di taxi di Uber, casi che rappresentano solo la prima emersione delle suddette problematiche.
Il panorama normativo si è, recentemente, arricchito ulteriormente con le norme introdotte dal decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (recante disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2018, n. 96. Norme che incidono sulla disciplina di istituti centrali nell’ambito del diritto del lavoro, come il contratto a termine e il licenziamento, e delle quali occorre esaminare e valutare gli effetti.
Da ultimo è stato emanato il decreto-legge n. 101 del 2019 (recante disposizioni urgenti per la tutela del lavoro e per la risoluzione di crisi d’azienda), convertito in legge n. 128 del 2019, che ha previsto significative modifiche all’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015.
In questo contesto emerge in modo sempre più evidente la necessità per l’interprete, ed in particolare per il giudice che, sulla base dell’interpretazione delle nuove norme deve decidere i casi concreti che gli vengono sottoposti, di trovare una chiave di lettura logica e coerente della disciplina alla quale ho sopra accennato, disciplina che non sempre costituisce un quadro di riferimento affidabile in relazione al continuo evolversi dei rapporti che coinvolgono la figura del prestatore di lavoro.
Si tratta di una situazione indiscutibilmente nuova, che pone al giudice del lavoro, ed in particolare a quello di primo grado che per primo è chiamato a pronunciarsi, in una situazione che per la sua sostanziale novità, oltre che per la sua complessità presenta analogie con quella che si è verificata nel 1970 con l’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori.
La storia dei prossimi anni ci dirà se il giudice del lavoro saprà vincere anche questa sfida.