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Allo scadere di ogni decennio ci si interroga su come si debba guardare oggi allo Statuto e si alternano varie impostazioni. C’è una tendenza all’amarcord, che in termini più nobili si chiama ricostruzione storica. Io appartengo ad una generazione che è nata con lo Statuto,sono uno di quelli che probabilmente senza lo Statuto avrebbe fatto un altro mestiere. A questo proposito ricordo che a Federico Mancini avevo chiesto prima una tesi su mansioni e qualifica perché mi aveva interessato la nota monografia di Giugni, poi venne fuori lo Statuto e c’era una norma fresca fresca, l’articolo 28, su cui nessuno aveva ancora scritto. Così feci una tesi sull’articolo 28, a cui venne assegnato il primo premio Brodolini, grazie al quale sono poi entrato nell’università. E quindi l’amarcord per me è molto robusto. Tuttavia è più utile l’altro punto di osservazione, quello relativo al tema di una possibile ri-attualizzazione dello Statuto.
Infatti ad ogni decennio ci chiediamo che cosa è vivo e cosa non lo è più, che cosa è attuale e che cosa è superato, e cosa invece andrebbe modificato. In certi decennali si recitavano dei veri e propri de profundis. Ricordo che dieci anni fa prevaleva una narrazione secondo cui in fondo lo Statuto è un oggetto di archeologia giuridica, è la legge di un Novecento che non c’è più, di una fabbrica che non c’è più, di un fordismo che è stato completamente superato. Proprio per questo la rivista “Lavoro e diritto” decise di dedicare un fascicolo al tema, intitolandolo “Buongiorno Statuto”. In questo fascicolo c’è un’ampia e pluralistica rilettura delle cose che ancora funzionano e di quelle che non funzionano più.
Ora in questo breve intervento metterei a fuoco un quesito. Non nella legge n.300 del 1970, che è stata largamente modificata, in alcuni casi massacrata dalla legislazione successiva e che è persino irriconoscibile nel suo tenore letterale, ma nell”idea” dello Statuto siamo in grado di distinguere ciò che effettivamente è figlio di una congiuntura politica e sociale irripetibile (l’autunno caldo, le lotte degli studenti e degli operai ecc.), da quello che invece non è che sia imperituro, perché nella vicenda umana non c’è nulla di imperituro, ma che ha una stabilità, una sua forza, anche guardando alla prospettiva del presente-futuro?
Penso siano vere entrambe queste cose. Lo stesso modo in cui si è formato lo Statuto, che Giugni definiva con la formula “lo Statuto si bagna nella contrattazione collettiva”, significa che a quei tempi si è svolto un percorso di formazione della legge fortemente intrecciato con il processo sociale, oggi irripetibile. La “fine di una lunga pazienza” si disse, perché nel cosiddetto miracolo economico tutto era cresciuto tranne la condizione operaia. Ogni volta che sento parlare dei “trenta gloriosi” dico che non c’è molto fondamento per un’operazione nostalgia, perché i famosi trenta gloriosi italiani, il cosiddetto miracolo economico, fu un meccanismo di sviluppo che non aveva nulla da invidiare alla sperimentazione avviata da Deng Tsiao Ping nelle cosiddette zone franche. Non esisteva alcun vincolo ecologico. Si sono costruiti raffinerie, petrolchimici, acciaierie nei golfi più belli d’Italia e ancora oggi abbiamo davanti il gigantesco problema di come risanare l’Ilva di Taranto. Si sversavano sostanze inquinanti nei fiumi, nei mari e nella terra. C’è stato uno sfruttamento dell’immigrazione, dei nostri meridionali di allora, che non ha molto da invidiare a quello che succede oggi con i lavoratori extracomunitari. Le fabbriche erano delle caserme.
In questo lo Statuto segnò una grande svolta di civiltà.
Inoltre erano anni corruschi. A me hanno raccontato che in occasione della famosa mediazione di Donat-Cattin sul rinnovo del contratto dei metalmeccanici del 1969 -70, Donat Cattin, che è stato davvero un grande ministro, come del resto Brodolini, ad un certo punto disse: “qui o firmiamo il contratto o arrivano i colonnelli..”.
Erano tempi duri quindi, di cui non c’è nulla da rimpiangere. Si parla di un mondo che, per fortuna, non c’è più.
Però in quel modello-Statuto c’è anche un’altra cosa che ci porta al cuore degli stessi problemi che il lavoro e il suo mondo hanno ancora oggi. Ed è una cosa che nello Statuto è riuscita quasi fortuitamente, in una sorta di eterogenesi dei fini, perché per qualche decennio nel diritto del lavoro italiano, sul versante progressista, ci sono state due scuole di pensiero che si sono combattute con un certo accanimento.
C’era la scuola costituzionalista, raccolta attorno alla rivista giuridica del lavoro, legata alla formulazione originaria dello Statuto, quella di Di Vittorio, inteso come statuto dei diritti dei lavoratori.
L’altra scuola invece metteva l’accento sulla necessità di un intervento di promozione e sostegno del potere collettivo, dei diritti sindacali: questa impostazione era ispirata da quanto Giugni e Mancini avevano appreso della esperienza nordamericana, dopo il mitico viaggio del Vulcania, anche se bisogna avere ben presente la radicale differenza tra il modello della legislazione pro-labour promossa dal new deal rooseveltiano e la legislazione promozionale disposta dallo Statuto: nel sistema nordamericano non c’è alcuna tutela dei diritti sindacali in quanto tali ma solo la previsione di un meccanismo maggioritario per il quale se il sindacato vince un referendum ottiene la rappresentanza esclusiva, ma se lo perde o non riesce neppure a promuovere le procedure del ballot non ha nulla. Questo meccanismo, che non prevede alcuna tutela dei diritti sindacali dove l’organizzazione sindacale è debole e non riesce a promuovere un referendum vincente, è all’origine del radicale indebolimento dei sindacati americani. Il modello statutario è del tutto diverso: esso prevede infatti una promozione dei diritti sindacali in azienda a prescindere da ogni precedente verifica della loro effettiva rappresentatività nei luoghi di lavoro. Al dunque le due scuole di pensiero italiane dopo essersi lungamente scontrate alla fine, senza volerlo, quasi per una sorta di eterogenesi dei fini si sono interscambiate. Così alla fine lo Statuto è stato una legge sia di garanzia dei diritti individuali di lavoro sia di promozione dei diritti sindacali, garantiti dalla norma di chiusura dell’art. 28 sulla repressione del comportamento antisindacale.
Alla fine è emersa non semplicemente una sintesi dialettica ma un vero e proprio intreccio fra le due dimensioni.
Da qui la forza dell’impianto del modello Statuto. I diritti individuali, di libertà, di dignità: sembrano cose banali: “…il lavoratore ha diritto di esprimere la sua opinione”: vallo a dire agli imprenditori di allora, della Fiat di allora e vallo a dire oggi per esempio ad Amazon, dove risulta che siano assunti come controllori persone che hanno fatto i militari di professione.
I diritti individuali quindi, ma al tempo stesso la dimensione collettiva.
Questa è la forza dell’impianto che ai miei studenti spesso descrivevo in questi termini: “immaginate che fra qualche secolo, dopo la grande catastrofe, la Terra non ci sia più, arriva un extraterrestre e scopre il codice del lavoro brasiliano, lo legge e dice: ma era un mondo meraviglioso dove tutti i diritti erano garantiti !”. Sarebbe stata evidentemente una falsa impressione. Perché i diritti del lavoro, come gli stessi diritti fondamentali dell’uomo, non crescono sull’albero del bengodi, ma sono sempre il risultato di una relazione di potere, al dunque di un fronte di lotta. Questa è stata, ed in parte è ancora, la forza del particolare intreccio tra dimensione individuale e collettiva dei diritti sancita dallo Statuto. Questa è la cosa che ha fatto dello Statuto dei lavoratori la legge in assoluto con il più alto tasso di effettività, perché noi siamo pieni di bellissime leggi che non sono applicate.
Penso che in questo ci sia la sostanza della modernità dello Statuto.
Non a caso lo sceneggiatore del film “Sorry we missed you” di Ken Loach, che racconta le vicende di un autotrasportatore, apparentemente lavoratore autonomo, il quale ha lavorato molto sul piano dell’inchiesta sociale prima di scrivere il testo di quel film, in una recente intervista alla domanda “Ma cosa devono fare questi lavoratori per difendersi?” ha risposto “Si devono organizzare, altrimenti sono fottuti”.
Più chiaramente di così è difficile dirlo.

 

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