Testo integrale con note e bibliografia
Queste mie riflessioni sullo Statuto dei Lavoratori si concentrano sul tema della rappresentanza sindacale aziendale, tema su cui molto si è esercitata la dottrina e la giurisprudenza del lavoro, ma anche tema di notevole interesse per gli studiosi di sociologia del lavoro e di relazioni industriali.
Al tal fine desidero sottolineare come lo Statuto dei Lavoratori rappresenti la conclusione della lunga marcia di acquisizione della cittadinanza del lavoro nell’economia e nella società italiana sulla scia di un percorso che accomuna le società occidentali nel XX secolo. In questo secolo mutano, su spinta dei lavoratori organizzati nei sindacati, gli equilibri economici, politici e sociali dei paesi industrializzati. Questi ultimi rappresentano nell’analisi di T.H. Marshall (1949) relativa alla Gran Bretagna il punto di arrivo di un percorso lungo tre secoli in cui si definiscono dapprima i diritti civili (XVIII secolo), poi i diritti politici (XIX secolo) e da ultimo (XX secolo) i diritti sociali.
La lunga marcia del lavoro nel XX secolo
Non si comprende il significato di questa legge se non la si colloca all’interno dello sviluppo delle economie e delle società nell’arco del novecento. Sviluppo che poggia sia negli Stati Uniti che in Europa sull’industrializzazione e sull’occupazione di massa alla quale si affianca la lunga marcia per la rappresentanza del lavoro compiuta parallelamente, ma con modalità diverse, in tutti i paesi industrializzati. Lungi dall’essere processi di transizione indolore questi sviluppi sono stati accompagnati da aspri conflitti di potere che hanno a loro volta causato trasformazioni degli equilibri preesistenti passando attraverso la legittimazione dei diritti dei lavoratori.
Le trasformazioni avvenute nel corso del ventesimo secolo sono debitrici all’organizzazione dei lavoratori, segnatamente alle organizzazioni sindacali che hanno organizzato il conflitto, incanalato le domande dei lavoratori attraverso la contrattazione collettiva determinando un lento ma inesorabile cambiamento degli assetti politici delle società europee: allargamento del voto (cittadinanza politica), definizione dei diritti sociali collegati alla partecipazione al lavoro.
Questi passaggi avvengono con modalità e tempi diversi nelle società industriali, sono variamente interpretati da sistemi politici differenti (per esempio le socialdemocrazie nei paesi scandinavi e gli stati corporativi in Italia) ma testimoniano, pur nella diversità, la centralità del lavoro e della sua organizzazione
per lo sviluppo delle economie. Regimi politici differenti sortiscono effetti differenti: il modello della socialdemocrazia eleva il lavoro organizzato dai sindacati a interlocutore dell’attore politico mentre il
modello corporativo fascista attraverso la legislazione, lo incardina all’interno delle compatibilità pubbliche mutilando così la libertà di associazione e l’autonomia dei sindacati medesimi.
L’allargamento dei diritti nel novecento inizia dalle organizzazioni dei lavoratori ma procede per strade differenti che in Europa si incrociano solo dopo la traumatica esperienza della seconda guerra mondiale quando sulle macerie del conflitto si ridisegnano i profili dello sviluppo delle economie occidentali.
Emergono alcuni punti comuni nel disegno della ripresa europea: tutela del lavoro, organizzazione dei lavoratori, legittimità del conflitto industriale e limitazione delle prerogative manageriali e quindi
dell’asimmetria di potere all’interno delle imprese attraverso forme di rappresentanza aziendale dei lavoratori. Che questa rappresentanza si dovesse o meno esercitare su una base associativa (riservata agli iscritti alle associazioni sindacali o su tutti lavoratori senza vincoli sindacali) dipendeva dagli assetti giuridici e socio politici dei vari paesi e cioè dal ruolo svolto dai sindacati, dal grado di riconoscimento degli stessi, dal quadro di vincoli all’azione collettiva e dai benefici percepiti da imprenditori e dall’intera comunità rispetto alla partecipazione dei lavoratori. Gli strumenti utilizzati per dare soluzione a tale percorso ancora una volta dipendono dal background culturale dei sistemi socio economici nazionali che può indurre a preferire soluzioni legislative o associative.
Nel caso italiano la fonte principale - la Costituzione – ribadisce con forza la tutela del lavoro e della sua rappresentanza sindacale attraverso l’art.39 e l’articolo 40, ma l’opzione del legislatore non trova poi traduzione nei successivi passaggi (registrazione dei sindacati e conseguente validità dei Contratti Collettivi). Le cause delle incertezze in cui si muove l’azione sindacale sono molteplici: timore di ricadere attraverso la registrazione dei sindacati in un regime di restrizione della libertà associativa e timore di sottoporre a verifica il peso di ciascuna confederazione dopo la rottura dell’unità sindacale il tutto inserito in un dibattito sulla necessità di rafforzare il pluralismo per consolidare la democrazia nel paese.
In questo contesto la rappresentanza sindacale aziendale viene regolata attraverso accordi interconfederali che, a partire dal 1943, conferiscono tale funzione a un organo - la commissione interna – regolandone la composizione e i compiti. Composizione e compiti soggetti a successive modifiche sempre per via di accordi interconfederali che ne modificano la caratterizzazione nel corso del tempo.
Mentre nel 1943 i firmatari dell’accordo (Mazzini e Buozzi) identificano nella rappresentanza sindacale aziendale – eletta da tutti lavoratori - un organo di controllo (dell’applicazione dei CCNL e dei regolamenti aziendali), di conciliazione nelle controversie di lavoro, di consultazione e proposta sull’organizzazione del lavoro e di partecipazione al funzionamento degli istituti di assicurazione e previdenza aziendale, negli accordi successivi (1947, 1953, 1966) l’ambito di influenza della Commissione Interna viene via via ridotto per effetto di una pluralità di concause:
- il dualismo tra unità produttiva e sindacato esterno (Confederazioni) che priva i membri delle Commissioni interne di qualsiasi coinvolgimento nella formulazione della politica contrattuale, allora di tipo centralistico;
- la negazione del carattere sindacale degli organismi di rappresentanza aziendale che rifletteva in parte la gelosa custodia della politica contrattuale;
- l’offensiva antisindacale messa in atto dal padronato italiano negli anni della ripresa postbellica per godere di mano libera nell’elaborazione degli obiettivi produttivi e nella massimizzazione dei profitti.
In termini più generali possiamo dire che la gelosa custodia dell’attività contrattuale nelle mani delle confederazioni centrali e l’offensiva del padronato nei confronti della rappresentanza dei lavoratori in
azienda sono facce della stessa medaglia: l’arretratezza della classe dirigente italiana (per il padronato) e un forte imprinting ideologico risalente alle esperienze sindacali che avevano preceduto il fascismo. Dal lato padronale un capitalismo familistico che vedeva molto male qualsiasi legittimazione degli interessi dei lavoratori percependola come una potenziale limitazione alle prerogative imprenditoriali e cercava di condizionare le liste elettorali per esercitare il controllo sugli organismi di rappresentanza quando non intimidiva e discriminava i lavoratori sindacalizzati. Le pagine di Accornero (1973), le testimonianze dei lavoratori riportate da Revelli (1989) e numerosi altri studi documentano le ritorsioni sui membri delle Commissioni interne, i licenziamenti dei sindacalisti e le schedature di tutti i lavoratori in un’atmosfera di crescente intimidazione che nelle elezioni del 1957alla FIAT sortisce l’effetto di emarginare definitivamente la FIOM e di indebolire al contempo anche il peso della FIM e della UILM. Al comportamento del padronato non riusciva a contrapporsi efficacemente la politica sindacale che, preoccupata dalla disoccupazione e dai bassi salari, si concentrava su strategie generali volte a innalzare il livello di vita di tutti lavoratori trascurando di focalizzare la propria attenzione e la propria strategia di rappresentanza sulle unità produttive e sulla organizzazione del lavoro. Condizioni queste non favorevoli alla elaborazione e sviluppo di un modello di relazioni aziendali in cui la consultazione, la composizione delle divergenze e la negoziazione si sviluppano sulla base del mutuo riconoscimento come invece avviene in altri contesti nazionali.
In concreto la Commissione interna disegnata dagli accordi del dopoguerra (principalmente dall’accordo interconfederale del 1953 e del 1966) viene eletta da tutti i lavoratori, cui spetta l’iniziativa, su base proporzionale (operai e impiegati), è costituita da un numero di componenti in proporzione agli occupati e svolge le seguenti funzioni: vigilanza sull’applicazione degli accordi sindacali e contratti di lavoro, vigilanza sul rispetto salute e sicurezza del lavoro, composizione in prima istanza delle controversie di lavoro, elaborazione dei regolamenti di fabbrica, distribuzione orario e turni. Nonostante i compiti previsti, seppur progressivamente ridotti rispetto a quanto prefigurato negli anni cinquanta, le Commissioni interne hanno una funzione di portavoce dei diritti dei lavoratori ma sono impossibilitate a raggiungere un miglioramento delle condizioni di lavoro poiché deprivata di qualsiasi funzione negoziale che rimane saldamente nelle mani delle Confederazioni centrali depositarie dei tesseramenti, organizzatrici di scioperi e
attori negoziali nella contrattazione collettiva nazionale. I sindacati confederali utilizzano le risorse organizzative per stipulare contratti collettivi validi per grandi numeri (l’industria, i settori industriali) in una strategia di tutela universalistica delle condizioni di lavoro. A questa impostazione si contrappone, senza riuscire a prevalere, un diverso orientamento da parte della componente cislina portatrice di un’impostazione aziendalistica e per questo iniziatrice di un tentativo (rimasto tale) di radicamento all’interno delle unità produttive attraverso le sezioni sindacali aziendali.
Universalismo da un lato e resistenza padronale dall’altro erodono progressivamente le funzioni delle Commissioni Interne e con esse il disegno di una rappresentanza dei lavoratori in azienda.
Sono poi le lotte operaie non organizzate ma spontanee che si susseguono negli anni Sessanta a marginalizzare ulteriormente le commissioni interne che, nonostante il nuovo accordo interconfederale (1966), esauriranno la loro esistenza lasciando il posto alle nuove figure dei delegati di reparto e del consiglio di fabbrica.
La rappresentanza aziendale secondo lo Statuto dei lavoratori
La mobilitazione operaia avviene in forme totalmente inedite al di fuori di qualsiasi intermediazione lasciando spiazzati sia gli attori interni alle aziende (i membri delle Commissioni Interne) che le organizzazioni sindacali nazionali. La diffusione a macchia d’olio di tale mobilitazione mette in chiara evidenza la lontananza dei rappresentanti del lavoro dal mondo della produzione.
E in questo contesto di esplosione del conflitto operaio e di contestazione dell’organizzazione del lavoro che matura il progetto di uno Statuto dei diritti dei lavoratori nei luoghi di lavoro, un intervento di tutela dei diritti individuali e di sostegno alla rappresentanza collettiva. Il rafforzamento della presenza sindacale
all’interno delle unità produttive oggetto del Titolo III della legge attribuisce ai sindacati più rappresentativi diritti di rappresentanza e tutele specifiche contro le limitazioni da parte imprenditoriale. La rappresentatività è definita attraverso l’indicazione ‘nell’ambito delle associazioni aderenti alle Confederazioni maggiormente rappresentative’ e sulla base di una comprovata capacità negoziale ‘associazioni sindacali non affiliate alle predette Confederazioni che siano firmatarie di contratti nazionali o provinciali applicati nell’unità produttiva’.
L’esegesi di questa norma ha portato a sottolinearne il fatto che il legislatore, coerentemente alla tradizione pluralista che si era consolidata negli anni cinquanta e sessanta, rifugge dall’identificazione specifica degli ambiti della rappresentanza lasciando spazio a una legittimazione fondata sui fatti (firmatarie di) e che, senza intervenire nel merito dell’attività sindacale d’azienda, provvede agli strumenti necessari perché essa si possa esercitare. Nei fatti le rappresentanze sindacali aziendali sono costituite per tutti gli anni Settanta dai delegati di reparto che confluiscono nei consigli di fabbrica che vengono riconosciuti dai sindacati firmatari dei contratti come dirigenti sindacali e in quanto tali protetti dalle tutele previste dallo statuto dei lavoratori per la rappresentanza e l’attività sindacale.
L’elezione su liste aperte e il riconoscimento degli eletti da parte delle organizzazioni sindacali contribuiscono ad allargare il contenuto della rappresentanza sindacale d’azienda, ora portatrice delle rivendicazioni maturate nelle frequenti assemblee di fabbrica con la conseguenza di rinnovare i contenuti della negoziazione aziendale. Gli eletti nei consigli di fabbrica vengono riconosciuti ex post dalle organizzazioni sindacali come dirigenti sindacali e in quanto tali godono delle tutele previste dallo statuto contro il licenziamento e contro le discriminazioni antisindacali di cui all’articolo 28 al quale i nuovi organismi ricorrono con crescente frequenza. In tal modo l’attività della giurisprudenza concorre alla definizione delle regole del mutato gioco negoziale mentre si susseguono le dimissioni e le rinunce dei componenti delle vecchie C.I. ancora formalmente in esercizio.
Dopo lo tsunami degli anni Settanta le relazioni industriali sono alla ricerca di nuovi equilibri che passano anche attraverso la definizione nei CCNL delle modalità di esercizio della rappresentanza sindacale aziendale. Sarà solo con la firma dei Protocolli all’inizio degli anni Novanta che le confederazioni sindacali si coinvolgeranno in un impegno di concertazione con la politica economica che richiederà anche una nuova composizione degli organismi di rappresentanza aziendale, le RSU composte per un terzo da eletti nelle liste sindacali (firmatarie del Protocollo) e per 2/3 sulla base di liste libere.
Lo Statuto e i cambiamenti socio economici
In quanto strumento di tutela dei diritti individuali e di consolidamento dei diritti economici e sociali dei lavoratori lo Statuto ha rappresentato una tappa di civiltà nella nostra società. Grazie alle opzioni effettuate dal legislatore - che si è uniformato alle posizioni prevalenti nella dottrina pluralistica - la rappresentanza dei lavoratori si è arricchita di nuovi soggetti attraverso i quali sono stati raggiunte fasce sempre più ampie di
lavoratori e di conseguenza si è allargato il contenuto dell’attività sindacale nel suo complesso. Ciò è avvenuto per tutti gli anni settanta e il percorso non è stato né semplice né indolore come testimonia la corposa vertenzialità di questo decennio. Vertenze che riportavano alla magistratura svariate richieste circa l’estensione delle tutele a favore dei nuovi rappresentanti in termini di monte ore permessi, tutela dai licenziamenti e dai trasferimenti, e relative all’esercizio dell’attività di rappresentanza dei lavoratori.
Da un lato la magistratura, dall’altro la contrattazione collettiva – attraverso i CCNL - hanno via via definito meglio il campo dell’attività di rappresentanza aziendale senza tuttavia entrare nel campo minato di una regolazione puntuale che avrebbe interferito con l’autonomia collettiva. A proposito della contrattazione collettiva come fonte di riferimento della rappresentanza sindacale si è delineata sin dai primi anni settanta una differenziazione abbastanza netta tra le categorie dell’industria, una differenziazione che potremmo definire strutturale in quanto riferibile alle caratteristiche allora ancora nettissime tra il processo produttivo e l’organizzazione del lavoro dei settori in questione, il chimico/farmaceutico e il metalmeccanico. Mentre il CCNL dei meccanici si limita a menzionare la rsa, il contratto dei chimici riconosce esplicitamente il Consiglio di Fabbrica. Dietro queste differenze si celano le numerose problematiche connesse alla
costruzione di un quadro di riferimento per l’attività negoziale in azienda e più in generale per la definizione di un sistema di relazioni industriali con diversi livelli di contrattazione e pertanto sottoposto a continue ridefinizioni dei contenuti e dei livelli del confronto. Dal lato imprenditoriale la richiesta di certezza del diritto, dal lato della rappresentanza dei lavoratori la richiesta di maggiori e più puntuali tutele che determinano uno spostamento in avanti dei confini della contrattazione aziendale replicando il terreno del confronto e della negoziazione dal CCNL alle aziende, alle unità produttive e ai reparti.
La spinta impressa dallo Statuto dei lavoratori determina per tutti gli anni Settanta e per parte degli anni Ottanta, insieme con il cambiamento nelle relazioni di lavoro nelle unità produttive, anche un importante rinnovamento dei quadri dirigenti del sindacato. Ciò contribuisce all’allargamento della rappresentanza, alla creazione di una società più inclusiva e al miglioramento delle posizioni del lavoro nell’economia e nella politica nazionale. In contemporanea si verifica la crisi petrolifera (metà anni Settanta) con i suoi risvolti sugli assetti produttivi ed occupazionali e inizia il processo della globalizzazione economica (anni Ottanta) fenomeni che erodono via via gli spazi di autonomia dei soggetti economici (lavoratori e imprenditori), ma il capitale di rappresentanza, esperienza, legittimità delle organizzazioni sindacali rimane una risorsa per affrontare tali cambiamenti. Infatti in tale contesto maturano i coinvolgimenti sindacali nelle politiche economiche e, insieme con questi, gli aggiustamenti delle rappresentanze sindacali aziendali realizzati
all’interno dei Protocolli degli inizi anni novanta. Essi ratificano il cambiamento delle modalità di espressione della rappresentanza sindacale aziendale attraverso le RSU elette sulla base di una formula (2/3 liste libere e 1/3 liste sindacali) che intende rafforzare i legami tra le compatibilità macro economiche e
l’esercizio della contrattazione collettiva a tutti i livelli.
I lavori e la tutela dei lavoratori nel XXI secolo
In un mutato contesto economico – globalizzazione delle merci e del lavoro - le strategie di difesa e potenziamento dei diritti dei lavoratori non possono rimanere le stesse per un insieme di motivi su cui riflettono già a partire dalla metà degli anni ottanta gli studiosi di varie discipline. Infatti:
a) sono cambiate le modalità dello sviluppo economico determinando cambiamenti epocali nel lavoro, nella sua esecuzione e nei contenuti sociali dello stesso;
b) la produzione di massa ha lasciato il posto alla produzione just in time, l’organizzazione del lavoro si è ridisegnata diventando da verticale a orizzontale attraverso l’esternalizzazione della produzione. Di più la globalizzazione ha spostato la produzione e il consumo di beni fuori dai confini territoriali (nazionali e locali).
c) La divisione del lavoro che ne è risultata ha cambiato il mix dello sviluppo economico e della produzione nei paesi occidentali con conseguente cambiamento delle unità produttive e dei profili e delle competenze dei lavoratori.
Nel diritto del lavoro si fa strada nel corso del decennio novanta una crescente riflessione sui cambiamenti del mondo produttivo e sulle sue implicazioni circa l’identità del lavoro poiché i cambiamenti dell’economia e della produzione hanno profondamente differenziato il lavoro sotto numerosi aspetti che appaiono vieppiù rilevanti sul piano individuale e collettivo. Le leggi di riforma del mercato del lavoro, lo Statuto dei Lavori, la Carta dei diritti universali del lavoro della CGIL sono solo alcuni esempi dei tentativi di definire e normare il lavoro nella globalizzazione superando la concezione che aveva ispirato il legislatore dello Statuto come ben spiega Sacconi nel rievocare il lavoro di Biagi (in questa rivista 2020/1).
Soggettivamente possiamo richiamare la qualità del lavoro che spazia tra il livello di competenza elevato che include capacità cognitive e cooperative per lavoratori e aziende perennemente ‘sfidate’ dal mercato globale e la bassissima competenza necessaria per compiere una pletora di lavori nel settore dei servizi per i quali ogni lavoratore risulta perfettamente sostituibile e quindi si riscontra una notevole mobilità.
Oggettivamente lo spazio della produzione è stato frantumato a partire dalla crisi petrolifera degli anni settanta che – come rileva Accornero (2009) - non ha annullato il lavoro di produzione ma lo ha diversamente allocato tra imprese di piccola dimensione ove si sviluppano rapporti personali e relazioni sociali ben diverse da quelle sperimentate nella grande impresa (lavoro diffuso) che ha contribuito ad aumentare la mobilità del lavoro. Parallelamente aumenta l’occupazione e la complessità di una società di servizi spesso organizzati in forme falsamente autonome.
Diventa quindi fondamentale rispondere alle seguenti domande: in cosa consiste oggi il lavoro? Quali sono gli interessi condivisi in un mondo della produzione e dei servizi ampiamente frammentato? Quale rappresentanza è in grado di tutelare i lavoratori? E conseguentemente domandarsi quale azione organizzata possa considerarsi meritevole di sostegno da parte del legislatore in presenza del declino sindacale.
Schematicamente le risposte dovranno prendere in considerazione le seguenti problematiche:
Interessi individuali e intermediazione: rispetto agli anni in cui fu concepito lo Statuto dei Lavoratori la frammentazione produttiva ha determinato un ambiente sfavorevole al radicamento aziendale della rappresentanza nello stesso tempo in cui il lavoro doveva piegarsi alle numerose pressioni degli imprenditori e del mercato. Si è teorizzata la disintermediazione degli interessi, ma nella più consolidate attività di produzione e servizi il lavoro persiste l’interesse dell’imprenditore a gestire il personale della propria impresa con regole uniformi e quindi con la sua necessità di concordare tali regole con un interlocutore.
Sfruttamento del lavoro e tutela dei lavoratori: crescenti e drammatiche vicende di cronaca hanno confermato l’urgenza di una rappresentanza dei diritti dei lavoratori e segnatamente del diritto alla conservazione del posto di lavoro (nel caso di chiusure aziendali senza preavviso) alla salute e sicurezza del
lavoro (nei sempre più numerosi casi di incidenti mortali sul luogo di lavoro) a non subire discriminazioni su varie basi (genere, tempo di lavoro e tipologia di contratto individuale) senza tuttavia consolidare il ruolo del sindacato che di queste esigenze si era fatto portatore, ma ciò non è servito a radicare il sindacato poiché cessata l’emergenza derivata dal fatto specifico la logica della produzione di questi servizi di trasporti ha nuovamente marginalizzato le organizzazioni sindacali.
Diritti sociali e rappresentanza: In un contesto di capitalismo senza regole, il ruolo del sindacato sembra
legittimarsi proprio a vantaggio degli esclusi e quindi all’esterno delle unità produttive. I servizi forniti dai patronati, i servizi agli immigrati, l’intermediazione tra singoli e servizi sociali sono in crescita, rappresentano un bene collettivo di natura pubblica ma nulla hanno a che fare con la realtà presa in considerazione dal legislatore nel 1970.
Le considerazioni sopra esposte ci portano a concludere che il lavoro dopo la classe (Accornero, 2009) necessita di un quadro di riferimento costruito su regole valide per tutti e tra queste ci sono quelle costruite dallo Statuto dei lavoratori nel titolo I, poi di una protezione economica (salario minimo) e di un sistema di rappresentanza sindacale aziendale più flessibile (plurale, non di liste) di quello uscito dal protocollo onde poter dare voce e partecipazione a interessi di scala più ridotta rispetto a quelli intravisti dal legislatore dello Statuto dei Lavoratori.
Tale quadro di tutela deve comunque ispirarsi a una riflessione sistemica che valorizzi la conoscenza degli attuali scenari tecnologici e cognitivi per impostare una politica pubblica di beni e servizi capace, attraverso la riscoperta della solidarietà, di reintegrare il ruolo del lavoro negli obiettivi socialmente condivisi (Stiglitz, 2013).