Testo integrale connote e bibliografia

1. Premessa: sindacato e processo costituzionale

I cinquant’anni dello Statuto dei lavoratori sono un’occasione per riflettere sui rapporti tra il sindacato e il processo e, in questa sede, sulla partecipazione del sindacato al processo costituzionale: un tema tornato alla ribalta in seguito alla Delibera 8 gennaio 2020 della Corte costituzionale «Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale».
Il ricorso alla tutela giurisdizionale (in luogo di quella extra-giurisdizionale tipica dell’ordinamento intersindacale) quale «strumento di lotta sindacale»  appartiene alla cultura del maggiore sindacato italiano, la CGIL.
Proprio l’art. 28 Stat. Lav. ha rappresentato per tale sindacato (ma non solo) una formidabile forma di autotutela collettiva attraverso la quale reagire alla crisi del sistema sindacale di fatto, a cui si è assistito negli ultimi anni, risolvendo il conflitto collettivo nelle aule di tribunale anziché nell’ambito dell’ordinamento intersindacale . Del pari, tale disposizione normativa ha costituito anche una delle principali porte di accesso del sindacato al processo costituzionale. È emblematica la vicenda Fiom c. Fiat che, a partire da un ricorso per condotta antisindacale promosso dalla Fiom per tutelare la propria libertà di svolgere attività sindacale nei luoghi di lavoro, è culminata nella sentenza della Corte costitu-zionale n. 231 del 2013 che ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 19 Stat. Lav.  
Oltre alla sent. 231/2013, si sono innestati sull’art. 28 Stat. Lav. diversi giudizi di legittimità costituzionale incidentale che hanno condotto a decisioni celebri, quali la sent. n. 1 del 1974, dove per la prima volta lo sciopero viene visto in una dimensione esclusivamente privatistica, disancorato dal riferimento a norme penalistiche; la sent. n. 54 del 1975 sulla legittimità costituzionale dello stesso art. 28; le sent. n. 244 e 345 del 1996, a firma di Luigi Mengoni, sulla legittimità costituzionale dell’art. 19 Stat. Lav. (nel testo modificato dal Referendum del 1995).
Più di recente, si evidenzia un utilizzo del processo da parte del sindacato rivolto non più solo all’autotutela, in sede giudiziaria, delle proprie prerogative, bensì alla tutela dei diritti e degli interessi riferibili ad un gruppo di lavoratori. Questo grazie al progressivo affermarsi di strumenti giudiziari in-novativi quali la «discriminazione collettiva», invocata dalla CGIL nei noti casi Fiat e Ryan-Air , e, in prospettiva, l’«azione di classe» . Si tratta di forme di tutela giurisdizionale collettiva che ben potrebbero essere impiegate dal sindacato, da un lato, per contrastare almeno parzialmente il declino del con-tenzioso individuale e, dall’altro lato, per rivitalizzare un’azione sindacale che attraversa forti difficoltà.
In una terza possibile visuale, il sindacato ricerca l’accesso al processo costituzionale in chiave stra-tegica , al fine di ottenere un mutamento politico-sociale che non è riuscito a produrre attraverso i tradizionali strumenti di pressione sociale, in primis lo sciopero.
Così, ad esempio, la strategia della CGIL per combattere la riforma dell’art. 18 Stat. Lav. attuata dal c.d. Jobs Act (d.lgs. n. 23 del 2015) si è basata sull’assistenza e il sostegno della ricorrente – una lavoratrice licenziata a pochi mesi dall’assunzione in applicazione della nuova disciplina – che ha impugnato il licenziamento dinanzi al Tribunale di Roma; ricorso da cui è poi scaturito il rinvio alla Corte costituzionale che ha condotto alla celebre sentenza n. 194 del 2018, che ha dichiarato il Jobs Act illegittimo limitatamente all’automatismo risarcitorio . Si tratta di vere e proprie «strategie legali di cambiamento sociale» che si collegano più direttamente al tema della partecipazione del sindacato al processo costituzionale e che, rispetto al normale ricorso alla tutela giurisdizionale civile, sollevano alcuni delica-ti interrogativi.
Emblematico è il passaggio in cui, nel chiedere di poter intervenire nel giudizio di legittimità costi-tuzionale sull’art. 18 Stat. Lav., modificato dal d.lgs. n. 23 del 2015 (intervento che verrà dichiarato inammissibile da Corte cost. n. 194/2018), la CGIL richiama il proprio «diritto alla autotutela come il potere di agire non solo per la promozione degli interessi del gruppo (collettivi) ma, attraverso la con-trapposizione e la composizione degli interessi delle collettività professionali, anche per la modificazione dei rapporti di organizzazione economica e sociale interne allo stato-comunità [corsivo di chi scrive]» .
Di recente, il sindacato ha allargato alle corti sovranazionali il terreno delle proprie strategie giudiziarie. Sempre la CGIL ha promosso indirettamente, attraverso l’intervento ad adiuvandum in un ricorso individuale (intervento ammesso dal Tribunale di Milano nonostante l’approccio tradizionalmente mol-to restrittivo esistente in materia), il rinvio alla Corte di giustizia della questione di compatibilità della disciplina in materia di licenziamenti collettivi, modificata dal Jobs Act, con la Direttiva europea. Da ricordare, infine, il reclamo collettivo 158 del 16 ottobre 2017 con cui la CGIL ha direttamente in-vocato l’intervento del Comitato europeo dei diritti sociali sulla delicatissima questione della compati-bilità con l’art. 24 CSE del regime indennitario in caso di licenziamento illegittimo introdotto con il “Jobs Act” .
Ma quali sono i vantaggi e i rischi a cui ci espone un uso politico-strategico del processo, in generale, e del processo costituzionale, in particolare, da parte del sindacato? Un quesito di enorme portata a cui è difficile dare una risposta.
Come anticipato, l’attualità della riflessione risulta anche dalla recente Delibera dell’8 gennaio 2020 con cui la Corte costituzionale ha affrontato il tema della partecipazione delle formazioni sociali e dei soggetti istituzionali al processo costituzionale incidentale, apportando alcune rilevanti modifiche alle «Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale».
In estrema sintesi, in base al nuovo art. 4, co. 7 l’intervento in via incidentale nel processo costitu-zionale viene esteso a soggetti terzi «titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e im-mediato al rapporto dedotto in giudizio». In base al successivo art. 4-ter, rubricato «Amici curiae», viene inoltre consentito per la prima volta a «le formazioni sociali senza scopo di lucro e i soggetti istituzio-nali, portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità» – categoria alla quale sono senz’altro riconducibili le organizzazioni sindacali (oltre che, ad esempio, i partiti politici) – di «presentare alla Corte costituzionale un’opinione scritta». Tali soggetti non assumono la qualità di «parte» nel processo costituzionale né dispongono dei relativi poteri; le opinioni scritte (per un massi-mo di 25.000 caratteri, spazi inclusi) sono inoltre ammesse nei limiti in cui offrano «elementi utili alla conoscenza e alla valutazione del caso, anche in ragione della sua complessità».

2. L’intervento del terzo nella giurisprudenza della Corte costituzionale: un approccio restrittivo.

Per comprendere il significato delle modifiche introdotte nella Delibera, sembra utile ripercorrere, pur brevemente, l’evoluzione dell’istituto dell’intervento del terzo nel giudizio costituzionale incidentale.
Inizialmente, la Corte costituzionale aveva dato di tale istituto un’interpretazione molto restrittiva. Requisito fondamentale per la partecipazione al giudizio costituzionale incidentale era la previa costi-tuzione nel giudizio a quo con la conseguenza di ammettere l’intervento soltanto delle parti in causa .
Con specifico riferimento al sindacato, resta significativa in questo senso l’ordinanza 31 ottobre 1962  nella quale si esclude l’ammissibilità dell’intervento nel giudizio di costituzionalità della Legge Vigorelli (l. n. 741 del 1959) proposto da Cisl e Fillza in quanto non parti del giudizio a quo. A nulla rileva, secondo la Consulta, il fatto che la legge in discussione avesse « “a suo presupposto e a matrice necessaria” un contratto collettivo, cioè uno strumento “posto in essere dai sindacati per la realizzazio-ne dell'interesse collettivo professionale”», come viceversa sostenuto dalla difesa di questi ultimi. La tutela dell’interesse collettivo professionale «non conferisce [alle associazioni sindacali] figura di soggetto processuale riconducibile a quella del Presidente del Consiglio dei Ministri, il solo al quale la legge consente di intervenire nel giudizio di legittimità costituzionale delle leggi in via incidentale».
Alcuni primi segnali di apertura si registrano negli anni Ottanta e Novanta quando la Corte incomincia ad ammettere, seppure sporadicamente, l’intervento di soggetti estranei al giudizio a quo. Attraverso tre successive sentenze, la Consulta elabora tre criteri in presenza dei quali il processo costituzio-nale si può “aprire” a soggetti diversi dalle parti in causa . Tali criteri sono in particolare: a) nel giudizio viene sollevata una questione dalla cui risoluzione dipende l’intervento in giudizio del soggetto che ha chiesto di costituirsi; b) l’interesse a stare nel giudizio di costituzionalità sorge direttamente dall’ordinanza di rimessione; c) l’interesse di cui è titolare il soggetto, pur se formalmente esterno, ine-risce immediatamente al rapporto sostanziale rispetto al quale un’eventuale pronuncia di accoglimento della questione di costituzionalità eserciterebbe un’influenza diretta, tale da produrre un pregiudizio ir-rimediabile della posizione soggettiva fatta valere.
La ratio sottostante è, evidentemente, il diritto di difesa . Secondo la Corte, infatti, «se, in tali ca-si, non si ammettesse la costituzione, si darebbe luogo ad un giudizio direttamente incidente su situa-zioni soggettive, senza la possibilità per i titolari di “difenderle” come parti del processo stesso» . Si realizza qui il passaggio del processo costituzionale da «processo senza parti» a processo che deve svol-gersi alla presenza di tutti i soggetti titolari o rappresentativi di quegli interessi che possono essere ir-rimediabilmente pregiudicati dall’eventuale pronuncia di accoglimento della questione di costituziona-lità.
Alcuni Autori scorgono in tale mutato approccio un’iniziale “apertura” del processo costituzionale alla società civile nel segno di una maggiore «democratizzazione» del contraddittorio . Tuttavia, il processo costituzionale incidentale continua a costituire una sorta di prosecuzione del giudizio a quo, mantenendo rispetto a quest’ultimo un rapporto di strumentalità, non di autonomia, e un approccio coerente con la concezione di «giurisdizione». L’accesso riservato alle «parti» e a coloro che risultino titolari di posizioni soggettive alle prime strettamente collegate esprime una concezione del processo costituzionale, al pari di quello civile, funzionale al diritto di difesa, non alla partecipazione dei cittadini o dei gruppi organizzati, e strutturato sul principio classico della coincidenza tra titolarità del diritto e titolarità dell’azione.
In quest’ottica, la Corte ha quasi sempre negato l’ammissibilità dell’intervento proposto da soggetti collettivi e, in particolare, dal sindacato in quanto «non titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio» e cioè non titolari di una posizione sogget-tiva sulla quale l’eventuale pronuncia di accoglimento è destinata ad incidere .
Questa prospettiva si ritrova, di recente, nella celebre sent. n. 194 del 2018, sulla parziale illegittimità costituzionale del d.lgs. n. 23 del 2015 (il Jobs Act). L’intervento proposto dalla CGIL è stato dichiarato inammissibile sul presupposto della mancata titolarità «di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, che ne legittimi l’intervento, atteso che essa non vanta una posizione giuridica suscettibile di essere pregiudicata immediatamente e irrimediabilmente dall'esito del giudizio incidentale bensì un mero indiretto, e più generale, interesse connesso agli scopi statutari di tutela degli interessi economici e professionali dei propri iscritti». Ancora, nella sent. 231 del 2013, al processo costituzionale incidentale viene naturalmente ammessa a partecipare la Fiom, parte del giudizio a quo (un ricorso ai sensi dell’art. 28 Stat. Lav.), ma non la CGIL in quanto mancante «di qualsiasi collegamento con il rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo». In entrambi i casi, è tut-tavia evidente come la CGIL fosse portatrice di interessi collettivi attinenti alla «questione di costitu-zionalità».
In un’ottica particolare si colloca, infine, la sentenza della Corte costituzionale n. 178 del 2015  sull’incostituzionalità sopravvenuta del reiterato protrarsi del regime di sospensione della contrattazione collettiva nel settore del lavoro pubblico per il bilanciamento irragionevole che realizza tra la libertà sindacale (tutelata dall’art. 39 Cost.) e le esigenze di razionale distribuzione delle risorse e controllo della spesa. In questo caso è ammesso l’intervento delle organizzazioni sindacali FLP e FIALP che erano però già parti del giudizio a quo e soggetti firmatari del contratto collettivo nazionale applicato ai lavo-ratori alle dipendenze della Presidenza del Consiglio il cui trattamento economico risulta bloccato dal 2010 . Nell’ordinanza del 23.6.2015, allegata alla sentenza, la Corte costituzionale nega, invece, l’ammissibilità dell’intervento promosso da Gilda-Unanms e dalla Confederazione autonoma dei diri-genti, ma riconosce il diritto ad intervenire della Confederazione indipendente dei sindacati europei (CSE) sulla base di due principali argomenti. In primo luogo, l’aver sottoscritto, unitamente a FLP, sindacato ricorrente nel giudizio principale, il contratto nazionale di lavoro
oggetto del giudizio a quo consente di ritenere CSE titolare di un interesse qualificato connesso alla po-sizione soggettiva dedotta da FLP. In secondo luogo – ed è questa la parte forse più innovativa della decisione – la Corte attribuisce rilievo al fatto che CSE sia una associazione rappresentativa: rappresen-tatività che, nel pubblico impiego, può essere agevolmente misurata e trova un riferimento normativo nell’art. 43, d.lgs. n. 165 del 2001.
Un approccio diverso al tema era emerso in un orientamento della Consulta, rimasto però minori-tario, sviluppato con riferimento agli ordini professionali, non alle associazioni sindacali. In un’importante decisione del 1993, con un’ordinanza estremamente sintetica, la Corte ritenne ammissibile l’intervento della Federazione nazionale dei medici chirurghi in virtù della sua «competenza istitu-zionale» e della possibilità di intervenire per tutelare la sfera di interessi istituzionalmente rappresentata in quanto le questioni sottoposte alla Corte toccano le sfere di competenza degli ordini . Si tratta di un indubbio ampliamento del contraddittorio agli interessi organizzati che sottende un mutamento di prospettiva di non poco conto: non rileva tanto l’esistenza di un collegamento qualificato con le posizioni soggettive dedotte nel giudizio a quo, bensì la capacità “istituzionale” del soggetto collettivo di rappresentare inte-ressi attinenti alla questione di costituzionalità.
Anche nella celebre sentenza n. 171 del 1996, sull’astensione collettiva degli avvocati, la Corte, richiamando il precedente del 1993, ritiene ammissibile l’intervento del Consiglio nazionale forense che «tutela un interesse pubblicistico, ragion per cui non si può non riconoscergli un ruolo di rappresentanza sia delle diverse articolazioni associative, altrimenti prive d'un canale di comunicazione istituzionale, sia dei singoli che non aderiscano ad alcuna associazione» . Ancora una volta è la funzione di rappresentanza istituzionale svolta dal Consiglio nazionale forense a spingere la Corte a ritenere l’intervento ammissibile. La Corte aggiunge tuttavia che, oltre al criterio della rappresentanza istituzio-nale, rileva nel caso di specie il fatto che si tratti di questioni inerenti allo statuto degli avvocati e pro-curatori «il cui esito non è indifferente all’esercizio delle attribuzioni dello stesso Consiglio». Questa precisazione appare orientata a restringere l’approccio assai più elastico adottato dalla Corte nella deci-sione precedente: oltre al criterio della rappresentanza istituzionale rileva il fatto che l’eventuale sentenza di accoglimento abbia una incidenza diretta sulle attribuzioni proprie del Consiglio.
Del pari, nella recente ordinanza 4 dicembre 2018, allegata alla sentenza n. 13 del 2019 – che ha ad oggetto la legittimità costituzionale delle norme che sottraggono all’applicazione della legge antitrust gli atti funzionali al promovimento del procedimento disciplinare posti in essere dai Consigli notarli –, la Consulta ritiene ammissibile l’intervento del Consiglio nazionale del notariato sul duplice presuppo-sto della sua funzione di rappresentanza istituzionale e della titolarità per legge «del compito, di rilievo pubblicistico, di elaborazione dei princìpi e delle norme deontologiche applicate in sede disciplinare dai consigli medesimi» .

3. Dall’intervento del terzo all’amicus curiae: un passo avanti o un passo indietro per il sindacato?

L’idea che la posizione di «rappresentanza professionale o istituzionale» di un soggetto colletti-vo sia sufficiente a legittimarne l’intervento nel giudizio di costituzionalità incidentale, se portata ad ulteriori sviluppi – e pur con tutte le ambiguità e difficoltà interpretative che tale concetto sottende  –, avrebbe senz’altro consentito al sindacato di partecipare più facilmente al processo costituzionale.
Tale prospettiva interpretativa è, tuttavia, definitivamente tramontata in seguito alla Delibera 8 gennaio 2020 «Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale». In base al nuovo art. 4, co. 7, l’intervento nel giudizio incidentale è possibile solo per i «titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio». La formula ricalca l’orientamento restrittivo sopra richiamato in base al quale, al fine di ritenere ammissibile l’intervento, non è sufficiente che il soggetto collettivo rivesta una posizione di rappresentanza professionale o isti-tuzionale occorrendo, viceversa, un collegamento qualificato tra la situazione sostanziale dedotta nel giudizio a quo e la posizione soggettiva dello stesso.
Questa opzione interpretativa emerge chiaramente nella recente ordinanza n. 37 del 27 feb-braio 2020, sulla richiesta di intervento nel processo da parte del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti che si proponeva quale organismo rappresentativo dei giornalisti, preposto alla tutela di «tutti gli interessi pubblici, oggettivamente immanenti, della categoria professionale» e, dunque, portatore di «un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio». La Corte costituzionale dichiara ammissibile la richiesta di intervento poiché il giudizio principale ha ad oggetto un procedimento penale a carico di due giornalisti la cui successiva eventuale condanna pe-nale determinerebbe «specifiche conseguenze in ordine all’avvio dell’azione disciplinare» che spetta, per competenza, al CNOG.
Il passaggio più interessante dell’ordinanza è tuttavia quello in cui la Consulta ribadisce l’orientamento restrittivo in base al quale, per ritenere ammissibile l’intervento del terzo, non basta una generale «posizione di rappresentanza professionale o istituzionale» occorrendo viceversa verificare la sussistenza di un nesso qualificato tra lo specifico rapporto sostanziale dedotto nel giudizio a quo e la posizione dell’interveniente. Questa soluzione, prosegue le Corte, deve essere oggi ribadita, nonostante alcune passate aperture, a fronte del nuovo art. 4-ter «che consente alle formazioni sociali senza scopo di lucro e ai soggetti istituzionali “portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costi-tuzionalità” di presentare alla Corte un’opinione scritta in qualità di amici curiae».
Intervento del terzo e amicus curiae si pongono dunque tra loro in una sorta di continuum: la fun-zione di rappresentanza collettiva svolta da una formazione sociale non costituisce un «interesse quali-ficato» sufficiente a legittimarne l’intervento nel processo in qualità di parte ma, tutt’al più, la parteci-pazione allo stesso in qualità di amicus, rendendo un’opinione scritta.
Ecco, dunque, tracciata la via per la partecipazione al processo costituzionale dei sindacati che difficilmente potranno soddisfare i rigorosi requisiti richiesti per l’intervento del terzo, ma potranno invece integrare quelli previsti dall’art. 4-ter. Mentre, infatti, per l’intervento del terzo occorre la sussi-stenza di un collegamento qualificato tra la posizione soggettiva dell’interveniente e quella dedotta nel giudizio a quo, all’amicus (privo dei poteri che spettano alla «parte») è sufficiente dimostrarsi portatore di interessi collettivi o diffusi attinenti alla «questione di costituzionalità».
Una prospettiva che si distacca da quella processuale civilistica e richiama, in parte, quella che si è progressivamente affermata nel processo amministrativo dove è unanimemente riconosciuto che associazioni private senza personalità giuridica (ivi compresi i sindacati) possano agire a tutela di «interessi di categoria» o «interessi collettivi» sulla base di una verifica della loro rappresentatività rispetto all’interesse azionato: interesse di cui l’associazione – ente esponenziale – assume la titolarità proces-suale .
La scelta compiuta dalla Consulta, almeno dal punto di vista del sindacato, costituisce un passo indietro, ma anche un piccolo passo avanti. Al sindacato, che non sia parte nel processo a quo, sarà d’ora innanzi sostanzialmente precluso l’intervento nel giudizio incidentale di costituzionalità; intervento d’altro canto ammesso sino ad oggi in rarissime ipotesi. È però altrettanto vero che diventerà d’ora in avanti possibile una sua partecipazione almeno nelle vesti di amicus .
Ma qual è il ruolo e la funzione dell’amicus? Si tratta di un «amico» della Corte da quest’ultima «scelto» per la sua particolare competenza e conoscenza rispetto alla questione trattata o di uno stru-mento di rappresentanza di interessi che sarebbero altrimenti esclusi dal processo?
Nella prima visuale, vigente ad esempio nel processo civile e amministrativo francese, l’amicus interviene su iniziativa del Giudice civile o amministrativo al fine di offrire un contributo tecnico utile al chiarimento di una questione di diritto in genere astratta dal caso concreto . L’amicus è scelto dal Giudice non per la sua idoneità a rappresentare un interesse terzo ma per la sua particolare competenza e conoscenza. Di qui l’irrilevanza della questione della rappresentatività e del suo accertamento. Il fondamento giuridico si rinviene nel potere del Giudice di vérification personnelle  e nelle regole che pre-siedono alla formazione della prova nel processo .
La prospettiva descritta sottende una visione pluralistica del diritto e delle sue fonti e la crescente consapevolezza della necessità di consentire l’ingresso nel giudizio di competenze e conoscenze esterne al fine di comprendere sino in fondo gli obiettivi politici e sociali alla base della norma di legge della cui legittimità si discute e le ricadute pratiche della decisione da adottare

Nella seconda visuale, sviluppatasi in particolare negli Stati Uniti, l’amicus non è un «amico della Corte», ma uno strumento di rappresentanza di interessi terzi che sarebbero altrimenti esclusi dal processo. Torna qui ad assumere rilievo la questione dell’accertamento della rappresentatività del soggetto collettivo che si assume il ruolo di interprete e portatore di interessi collettivi.
Nell’esperienza americana, tale strumento ha consentito ad organizzazioni rappresentative di interessi, che non avevano requisiti sufficienti ad acquisire la qualità di intervenienti (intervention of rights), di partecipare al processo in qualità di amici, svolgendo un ruolo sempre più attivo e rilevante, capace di compensare ampiamente il mancato acquisto della qualità di parte . In particolare, attraverso l’amicus curiae, numerose ONG hanno potute svolgere attività di lobbying nelle Corti e vere e proprie battaglie politiche a tutela, ad esempio, dei diritti umani così sancendo il definitivo passaggio da «un’amicizia neutra ad un’amicizia interessata» .

4. Il ruolo del sindacato-amicus e la natura del processo costituzionale: un dilemma di difficile soluzione

Entrambe le prospettive sembrano presenti nella Delibera. La Corte non prende una posizione chiara a favore dell’una o dell’altra. Se, infatti, avesse optato per la prima – l’amicus come esclusivo strumento di acquisizione di elementi utili «alla conoscenza e valutazione del caso» –, forse sarebbe stato sufficiente allo scopo intervenire attraverso la norma sugli «esperti» (art. 14-bis). D’altro canto, se avesse inteso privilegiare la seconda – l’amicus come strumento di rappresentanza di interessi altrimenti esclusi dal processo «attinenti alla questione di costituzionalità» –, la soluzione più logica sarebbe stata quella di allargare le maglie dell’intervento del terzo rendendone possibile l’utilizzo da parte soggetti collettivi rappresentativi, come auspicato da una parte della dottrina .
Ben si comprende il perché la Corte costituzionale non abbia voluto assumere una posizione netta. Dietro il problema della partecipazione delle formazioni sociali al processo costituzionale si cela la questione dirimente della natura e del fondamento teorico della giustizia costituzionale come meramente tecnica e giurisdizionale o politica . La scelta tra una o l’altra delle prospettive conduce inevitabilmente il processo costituzionale ad avvicinarsi maggiormente ad uno o all’altro dei due poli del binomio politico/giurisdizionale .
Che questo sia il dilemma di fondo alla base della scelta a favore dell’amicus si ricava anche dai cri-teri ambivalenti che saranno utilizzati nel decidere l’ammissibilità o meno dell’opinione scritta di 25.000 caratteri dallo stesso presentata. Da un lato, l’amicus dovrà dimostrare di essere portatore di «interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità»: un criterio che richiama quello della rappresentatività, già ampiamente impiegato nel processo amministrativo, ma che, forse, dovrà venire qui utilizzato con minore rigore poiché l’amicus non assume la qualità di parte, né dispone dei re-lativi poteri, ottiene copia degli atti o partecipa alle udienze (art. 4-ter, co. 5). Dall’altro lato, la Corte gode di ampia discrezionalità laddove è detto che «Con decreto del Presidente, sentito il giudice relatore, sono ammesse le opinioni che offrono elementi utili alla conoscenza e alla valutazione del caso, anche in ragione della sua complessità» (art. 4-ter, co. 3). Una discrezionalità che potrebbe venire circoscritta individuando un sorta di binomio rappresentatività/conoscenze utili. In altri termini, si potrebbe ritenere che offra per definizione elementi utili alla conoscenza e valutazione del caso quel soggetto collettivo che risulti effettivamente rappresentativo di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità (fermo restando il potere di escludere opinioni palesemente pretestuose e fuori luogo).
La rappresentatività deve peraltro essere misurata rispetto «alla questione di costituzionalità». Difficile, dunque, stabilire dei criteri selettivi ex ante, dovendosi piuttosto procedere ad un accertamento caso per caso, questione per questione, sulla base di criteri quantitativi (quali la consistenza associativa) ma anche qualitativi (quali, ad esempio, l’aver concluso accordi collettivi in ambiti o materie collegati alla questione, l’aver partecipato al dibattito parlamentare o alla concertazione sociale con il Governo, l’aver adottato altre iniziative collettive quali scioperi, referendum e via dicendo).
Così, ad esempio, nella materia dei trasporti, il sindacato Or.s.a., attivissimo nel settore, potrebbe essere ritenuto senz’altro rappresentativo pur non appartenendo alla Triplice (CGIL, CISL, UIL).
Si torna, infine, al quesito di partenza. È utile consentire al sindacato di rappresentare e difendere interessi politico-sociali nel giudizio dinanzi alla Corte costituzionale? La risposta è negativa se rite-niamo necessario correggere quell’inevitabile «eccedenza politica»  del processo costituzionale, evi-tando che diventi un «canale alternativo al procedimento decisionale politico parlamentare» e ripiegandolo, nei limiti del possibile, ad una funzione «neutra», di tipo tecnico e giurisdizionale. La risposta è invece positiva se riteniamo che il perimetro del processo costituzionale non sia più circoscritto alle posizioni soggettive dedotte nel giudizio a quo , ma proiettato ad interessi generali e alla società civi-le e che la funzione della Corte non sia solo tecnica, ma politica nel senso di mediazione tra interessi in conflitto che esorbitano dai confini del giudizio principale. Così che risulta giustificata la ricerca della Corte di punti di vista e interessi più ampi di quelli dedotti nel processo a quo, cercando di stabilire un rapporto diretto con la società civile al fine di fornire prodotti dotati di «credibilità tecnica e culturale» capaci di legittimarne la funzione .
Un’operazione che presenta vantaggi ma anche alcuni rischi, il più evidente dei quali è conferire ad interessi particolari organizzati, rappresentati dalle associazioni sindacali, un ruolo dominante in un giudizio in cui si discute della legittimità di una legge approvata da una maggioranza parlamentare.
Non si deve, infatti, dimenticare che l’interesse collettivo, smitizzato da quella spinta ideologica di cui è stato talvolta caricato dalla cultura giuslavoristica , non è altro se non un interesse particolare riferibile ad un gruppo organizzato di lavoratori o ad una parte di essi: un interesse che viene autono-mamente selezionato e scelto dal sindacato, che ne è l’interprete e il portatore costituzionalmente qualificato (art. 39 Cost.), e posto al centro dell’azione sindacale e dell’autotutela collettiva. Ben si comprende, dunque, la prudenza della Corte.

 

 

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