Testo integrale con note e bibliografia
Il cambiamento già in atto
Per motivi che non richiedono molte spiegazioni, pur con mille accezioni e sfumature, la grande domanda che riecheggia ovunque in questi giorni è: “quali cambiamenti porterà la pandemia affrontata, nel nostro modo di lavorare, nella nostra organizzazione del lavoro, nella nostra relazione con il lavoro?”
L’impatto della pandemia provocata dal virus Covid-19 sull’economia globale, ma direi su ogni aspetto della nostra vita, è stato ed è ancora talmente forte da focalizzare ogni nostra attenzione, come se non ci fossero altri motivi per cui, come sentiamo dire spesso, “il mondo non sarà più lo stesso”.
In effetti non è proprio così. La scoperta che, da moltissimi punti di vista, il mondo non era più lo stesso risale ai decenni immediatamente precedenti alla fine del ventesimo secolo. Con il crollo del muro di Berlino (1989), la fine del blocco orientale, fino alla dissoluzione dell’Unione Sovietica avevamo già scoperto, alla fine del secolo scorso, che il mondo non era più lo stesso. Il nostro mondo era divenuto un luogo volatile, incerto, complesso e ambiguo, in cui i tradizionali modelli della modernità, fondati su due grandi colonne portanti: la causalità lineare e la fiducia nel progresso, non reggevano più all’urto dei cambiamenti disruptive che avanzavano vorticosamente.
A dir la verità, che ci fossero potenti forze di cambiamento in atto e che queste avrebbero portato ad una grande e radicale trasformazione dell’economia e del lavoro, era già stato intuito negli anni ’40 del secolo scorso da un interessante antropologo ed economista di origini ungheresi, Robert Polany, che parlò, appunto di “grande trasformazione” (1944). L’intuizione di Polany, non molto praticata allora, trovò nuova attenzione a cavallo del XX e XXI secolo (l’edizione italiana del suo libro è del 2000). Ci viene riproposta ancora più recentemente applicata al contesto del lavoro (Seghezzi, 2017) ed anche la lettura del cosiddetto mondo VUCA , da geopolitica diviene più recentemente lavoristica e organizzativa, portando alcuni autori a domandarsi cosa significhi realmente nel mondo del lavoro e delle organizzazioni parlare di volatilità, incertezza, complessità e ambiguità (Bennett, Lemoine, 2014).
Tutto questo prima dello scoppiare dell’emergenza pandemica. La grande trasformazione del lavoro, in quanto tale e nella vita dell’uomo, era già in atto e ben riconoscibili erano alcune linee di sviluppo di tale trasformazione. Citiamo, ad esempio, la cosiddetta quarta rivoluzione industriale, con le sue conseguenze in termini di rilevanza e pervasività della tecnologia digitale e dell’intelligenza artificiale nell’ambito del lavoro; l’affermarsi della sharing e della GIG economy, con la conseguente trasformazione delle relazioni industriali e del ritmo e tempo di lavoro (Manyika, et al., 2016); l’incremento del cosiddetto lavoro indipendente (Harris, Krueger, 2015) e, al suo interno, il più recente affermarsi dei cosiddetti slash workers, quei freelance che fanno più lavori diversi.
Sono tutti fenomeni in atto ben prima dell’esplodere del contagio, ciascuno dei quali portatore di ricadute importanti in ambito sociale, politico e, ovviamente, giuridico, ma anche personale.
Relativamente quest’ultimo aspetto, come avevamo avuto occasione di segnalare già in questa sede (Gheno, 2020), si sta assistendo ad un progressivo spostamento della centralità del lavoro nella vita delle persone adulte. Per cui questo rischia di non essere più percepito come un elemento determinante dell’identità, ma piuttosto come una contingenza legata a necessità di sopravvivenza, che peraltro potrebbero essere soddisfatte in altro modo.
In questo contesto già estremamente dinamico e, almeno potenzialmente, foriero di rischi non banali circa l’assetto del mercato del lavoro si è venuto a verificare l’evento imprevisto (anche se – come sappiamo – non così imprevedibile) della pandemia da Covid-19. È innegabile che, al di là dei diversi tempi di emersione dell’emergenza e, almeno inizialmente, delle differenti strategie che i diversi paesi hanno messo in atto per affrontarla, l’epidemia abbia prodotto una sorta di “congelamento” nel contesto lavorativo. In non pochi casi caratterizzato da un lockdown totale, in altri solo parziale, ma in generale è come se la normalità della vita lavorativa fosse sospesa, in bilico tra uno scenario da “fine del lavoro” ed uno di lavoro reso “agile” dalla necessità.
Proprio quest’ultimo, il lavoro cosiddetto “agile”, ha rappresentato la svolta più consistente rispetto alla normalità del lavoro prodotta dalla pandemia. Pressoché da un giorno all’altro, un numero decisamente elevato di lavoratori (prevalentemente white collar) hanno visto chiudere le loro normali sedi di lavoro e trasferire le proprie attività a casa. In alcuni casi supportati dalle proprie aziende, che li hanno dotati di tecnologie adeguate e – talvolta – di sostegno organizzativo e formativo. In molti altri casi, sostenuti fondamentalmente dalle proprie risorse personali e professionali e dalla propria motivazione intrinseca.
Era da anni che anche nel nostro paese si parlava di smart working (tradotto appunto in italiano con il termine “lavoro agile”). Questo, ritenuto dai più uno strumento facilitante la conciliazione famiglia-lavoro piuttosto che un effettivo strumento di sviluppo organizzativo, nonostante le innovazioni introdotte dalla L. 81/2017, coinvolgeva in effetti una platea assai limitata di imprese e di lavoratori. Poi il lockdown ha cambiato tutto: una delle principali risposte emergenziali nell’ambito del lavoro è stata appunto quella di mandare a casa i propri dipendenti, cercando di metterli nella condizione di fare presso il proprio domicilio, più o meno ciò che in precedenza facevano in ufficio.
In effetti il sistema, tutto sommato, ha retto e hanno retto anche le persone, in molti casi in condizioni veramente difficili, dimostrando una grande resilienza.
Resta ora da vedere, nella ripartenza, se la resilienza evidenziata sarà intesa un po’ alla stregua del moto perpetuo: un processo che una volta attivato si alimenta da solo, consentendo al soggetto di continuare a fronteggiare positivamente gli eventi sfavorevoli per sempre, senza richiedere di fornire nuove “energie”.
Purtroppo non crediamo sia così. La resilienza, pur facilitata da alcune caratteristiche stabili della personalità, non è un superpotere di cui si è dotati, ma, da un lato una capacità normale delle persone di fronteggiare eventi sfavorevoli, dall’altro qualcosa che poggia su una molteplicità di fattori (dall’ottimismo all’autostima, dalle emozioni positive al supporto sociale), suscettibili di essere sviluppati e che devono essere “manutenuti” nell’arco della vita (Magrin, Scrignaro, Viganò, 2006). Del resto anche la corda più forte ed elastica ha un suo punto di rottura ed è buona norma, come ben sanno gli alpinisti, dopo un forte stress controllarne lo stato.
Proviamo ad applicare quanto detto all’attuale apparente turning point dello smartworking. Il fatto che abbiamo imparato a lavorare a casa, non vuol dire necessariamente che farlo sia una buona cosa in termini di efficacia, ma anche di benessere personale e organizzativo. Sarebbe importante valutarne i costi e i benefici, non solo in termini economici e di sistema, ma anche psicosociali e dovremo fornire alle persone un programma di accompagnamento che consenta loro di affrontare tali “costi” in modo virtuoso, promuovendo resilienza e sviluppo e depotenziando gli inevitabili stressor di natura relazionale che il lavoro in remoto comporta.
Si tratterà dunque di accompagnare le persone a forme smart di lavoro. Per questo occorreranno nuove norme che vadano a definire in modo sempre più realista quest’idea di lavoro smart. Tra di esse molto spazio di discussione trova il cosiddetto “diritto alla disconnessione”, che normato dapprima nel 2016 in Francia (L. 2016/1088, Art. 55) è approdato più recentemente anche nel nostro paese nel contesto della Legge sul “lavoro agile” (L. 81/2017, Art. 19, comma 1).
Va osservato a riguardo che, da un punto di vista psicologico, certamente lo sviluppo impetuoso di modalità di lavorare che prevedono da un lato una “smaterializzazione” dei luoghi di lavoro, dall’altro una semplicità di connessione basata su tecnologie digitali sempre più diffuse ed user friendly porta con sé il rischio di un lavoro senza limiti temporali, fondato su un modello implicito di domanda-risposta in tempo reale. È quindi necessario recuperare una certa dimensione di limite nel lavoro che la sua virtualizzazione tende a sopprimere.
In questo non va però trascurato il fatto che una regola formale funziona anche nella misura in cui la persona si sente “autorizzata” ad applicarla. Se il contesto in cui lavoro risulta totalizzante, vuoi per dinamiche ambientali e culturali, vuoi per spinte personali interne, è molto probabile che tenderà a assorbire tutto il mio tempo (e le mie risorse), a prescindere dai “diritti” pur garantiti (Schaufeli, 2016). Si tratta per certi versi di un fenomeno che, almeno da un punto di vista psicologico e certamente con dimensioni meno drammatiche, ricorda la dinamica del caporalato: a quanto raccontano i testimoni sono gli stessi lavoratori sfruttati i primi sostenitori di questo sistema perverso, perché lo considerano del tutto normale.
È necessario quindi che il diritto sancito dalla legge, diventi cultura, cioè una dinamica che influenzi non solo le condotte, ma ancor prima i valori organizzativi di riferimento. Non dimentichiamo poi che, oltre al diritto alla disconnessione, gli esseri umani hanno anche una sorta di diritto alla connessione. Non ci riferiamo qui tanto alla possibilità di avere accesso alla “banda larga”, quanto alla utilità per un positivo sviluppo umano di rimanere in relazione con altre persone (Leicht-Deobald, et al., 2020).
Riguardo questo punto vorrei proporre due considerazioni. La prima è che la digitalizzazione spinta di questa nostra epoca porta facilmente a trascurare l’interità della persona, che – assumendo il paradigma bio-psico-sociale (Engel, 1977; Fava, Sonino, 2007) – è tale integrando la dimensione materiale (biologica e ambientale, sia in senso fisico sia sociale) e quella immateriale (psicologica e relazionale).
L’essere umano è fatto, anche di materia, e questa non può essere trascurata volendo promuoverne il benessere, ciò concretamente significa che le relazioni hanno necessità anche di una certa “fisicità”: non basta sapere che l’altro c’è, per poterlo riconoscere davvero è necessario che sia una presenza almeno potenzialmente tangibile.
Questo è vero, ed è la seconda considerazione, anche nel lavoro. Le relazioni lavorative non sono solo funzionali a trasferire cognitivamente informazioni, ma servono anche a costruire reciproca identificazione e appartenenza. Tutte cose rese molto più semplici da una presenza fisica. Anche per questo motivo la narrazione dello smartworking come un isolamento ideale e perfetto dalle distrazioni presenti nei luoghi di socialità, possibilmente in ambienti soggettivamente soddisfacenti (la spiaggia caraibica o il rifugio in alta quota, per citarne due) è forse efficace per “vendere” il concetto, ma non corrisponde alla reale struttura antropologica, che è fatta anche di quelle “distrazioni sociali” che hanno la forma delle chiacchiere in mensa o alla macchinetta del caffe.
In altri termini se da un lato è probabile e, per molti versi, auspicabile in un contesto specifico di ripresa post Covid-19 e, più in generale, di trasformazione del lavoro uno sviluppo del lavoro agile, si dovrà evitare che questo vada a coincidere con la pura e semplice “delocalizzazione” dei lavoratori. Va in qualche modo presidiata la possibilità, da un lato, che possano integrarsi momenti di lavoro in remoto (e in autonomia) con momenti di lavoro in presenza (e in dinamiche collaborative), dall’altro, che i momenti in remoto siano effettivamente compatibili con le esigenze di conciliazione work-life, in modo che non succeda che il lavoratore agile ideale sia un single, senza legami ne responsabilità sociale e familiari, cosa che evidentemente sarebbe di fatto discriminatoria.
Seguendo una logica di semplificazione (il mondo è un luogo estremamente complesso, per cui risulta decisamente importante evitare di complicarlo), è facile ritenere che occorreranno nuovi contratti, probabilmente meno legati a categorie o comparti che rischiano di essere sempre di più un esercizio di competenza tassonomica, piuttosto che un effettivo (ed efficace) strumento di buone relazioni industriali.
Dobbiamo accettare il fatto che il lavoro cambia con una velocità molto maggiore alla nostra capacità di descriverlo in modo condiviso. Forse l’attenzione dovrebbe quindi spostarsi su alcuni criteri di fondo che consentano di valutarne con sufficiente approssimazione la positività o meno, solo per citarne alcuni: la possibilità di garantire un tenore di vita dignitoso, la possibilità di sviluppare le proprie competenze (necessaria per mantenere l’employability), la possibilità di alimentare il proprio benessere psicofisico, la possibilità di soddisfare le proprie esigenze relazionali, la possibilità di contribuire al bene comune.
In ogni caso sarà necessario sviluppare una nuova mentalità nei confronti del lavoro, dei suoi vincoli e delle sue utilità. Come dicevamo il lavoro è agile, se sono agili i lavoratori e le organizzazioni. Dal punto di vista di queste ultime dovrà essere certamente sviluppata una leadership meno basata sul controllo e più sulla responsabilizzazione. Per quanto riguarda i lavoratori, oltre a sviluppare maggiori competenze digitali (cosa su cui tutti concordano), dovranno crescere alcune non-cognitive skills, in particolare relative all’auto organizzazione, all’orientamento al risultato, al problem-solving creativo e alla collaborazione non solo in presenza.
Avanza anche la necessità di lavorare sulla flessibilità funzionale dei lavoratori, intesa come efficacia percepita nell’adattamento alle diverse situazioni. Si tratta infatti di un fattore decisivo nella promozione di resilienza occupazionale (Magrin, et al., 2017). È noto il rapporto tra la percezione di autoefficacia e la prestazione: quanto più il soggetto si sente dotato di capacità specifiche che lo mettono in grado di raggiungere l’obiettivo, tanto più si impegnerà nell’impresa, aumentando così le probabilità di successo. La confidenza nelle proprie possibilità di adattarsi ai cambiamenti occorsi rappresenta quindi un valido strumento “autorizzativo” nei confronti dell’assunzione di responsabilità e, in questo modo, permetterà di aumentare il proprio sentimento di potere psicologico (Gheno, 2005), che è almeno altrettanto importante del potere dato dal diritto: “I may…” (“ho il permesso…”) e “I can…” (“sono in grado…”) si alimentano infatti vicendevolmente.
Ciò di cui c’è bisogno nel post Covid-19
La grande trasformazione in atto chiede quanto fin qui descritto. In questo pregresso contesto di cambiamento la domanda è resa però decisamente più intensa dalla cogenza imposta dalla pandemia.
Fenomeni come lo smartworking erano con ogni probabilità prossime, possibili e anche probabili innovazioni dei modelli organizzativi, ma il virus le ha trasformate da potenziali ad attuali. Ha dato loro corpo, dimostrandone l’efficacia, ma anche come abbiamo detto, evidenziandone le criticità. Quindi, al di là dei tools tecnici, su cosa ci impone di riflettere la ripresa che attendiamo? Provo a evidenziare tre questioni che mi paiono centrali.
1. Una “nuova” idea di lavoro. Non possiamo più dare per scontato un comune consenso circa la necessità di lavorare, almeno nella sua forma tradizionale fatta di luoghi, compiti, tempi. Anche il ricorso massiccio a varie tipologie di ammortizzatori sociali durante il lockdown non di rado ha indotto a ritenere che, in fondo, la relazione “normale” tra reddito e lavoro potesse interrompersi.
Salvo improvvisi e forse tragici bagni di realtà, non è quindi più così scontato che si debba lavorare e se non si deve, perché dovremmo? La risposta abituale, “perché non possiamo farne a meno”, risulta sempre meno efficace. Dovremo forse recuperare un senso e un significato del lavoro che superi la pura necessità materiale, per affrontare invece in modo sostanziale l’utilità del lavoro per sé e per la comunità. Magari arrivando a sganciare il lavoro da un’organizzazione fatta di tempi e metodi, per sviluppare piuttosto un’idea di lavoro basata sul portare un contributo al bene comune.
2. Una “nuova” idea di tutela e di promozione. L’evoluzione del mercato del lavoro rende necessario uno sviluppo deciso delle politiche attive del lavoro ed anche una migliore integrazione con quelle passive. Se davvero si andrà nella direzione di un lavoro umano sempre più in grado di portare un valore aggiunto alla tecnologia, dovremo innanzitutto chiederci come tutelare le categorie più fragili e, per questo, meno in grado di portare un simile valore aggiunto.
E anche per quanti, almeno potenzialmente, saranno in grado di fornirlo sarà necessario un lavoro sistematico di manutenzione delle competenze, che parta da una conoscenza condivisibile circa le competenze reali e potenziali e che accompagni la carriera lavorativa fatta sempre meno di “posti di lavoro” e sempre più di “percorsi” (Mezzanzanica, et al., 2010). Per questo occorreranno sicuramente risorse, ma anche una svolta culturale, che renda vera anche nel nostro paese la rilevanza del life-long learning.
Per procedere davvero ad investire nello sviluppo e nella manutenzione delle competenze dovremo anche chiarire quali competenze servano davvero. Tutti concordano che il “nuovo” mondo del lavoro sarà dominato dalla digitalizzazione, ma se vogliamo che questa non renda ancora più profondo il solco tra nativi digitali e “resto del mondo” dovremo riflettere se oltre sull’ampliamento del knowhow tecnologico non sia il caso di investire anche su altre risorse di occupabilità, tra di esse in primis quelle relative al capitale psicologico e sociale.
Questa attenzione verso lo psycap (Manuti, 2014), ci fa inoltre ritenere che la ripresa, data la concomitanza dei fattori di stress legati ai cambiamenti globali e di quelli che ci derivano dall’esperienza della pandemia, vada accompagnata da una “cura” della salute organizzativa che esca dai binari un po’ meccanicisti della medicina del lavoro tradizionale, per allargarsi al benessere psicosociale. Certamente il rischio legato al possibile contagio da Covid-19 tende ad assorbire ogni attenzione di chi si occupa di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, ma questo non deve far trascurare la dimensione della salute psichica, che già oggi vede un incremento nelle sintomatologie legate all’ansia ed all’angoscia.
La necessità di rivedere l’approccio attuale alla tutela dei lavoratori e alla promozione del lavoro ci porta a rivedere anche gli attuali player del sistema, cioè lo stato, le aziende e alcuni corpi sociali intermedi, per interrogarci circa l’efficacia potenziale e reale della loro azione a riguardo. In particolare mi interessa soffermarmi brevemente sul ruolo che dovranno assumere questi ultimi e, tra essi in particolare, i sindacati.
3. Un “nuovo” sindacato. Nel nostro paese indubbiamente il sindacato ha giocato per molto tempo un ruolo decisivo, che forse oggi, per molti motivi, risulta un po’ appannato: il sindacato perde iscritti e, tra di loro, spazio sempre maggiore assumono i pensionati. Non è questa la sede per affrontare in modo adeguato la crisi e l’evoluzione del sindacato, vorrei però proporre due riflessioni legate al momento attuale.
Da un lato, la trasformazione del lavoro prima e l’emergenza dopo, hanno stressato ulteriormente un’idea di rappresentanza del lavoro ancora molto ancorata a modelli industriali novecenteschi. Si tratta quindi di interrogarsi su dove possa risiedere oggi l’attrattività di un sindacato che, comunque, ritengo continui a svolgere un ruolo imprescindibile nella regolazione del mercato del lavoro. La risposta va certamente nella direzione di un cambiamento nelle forme e nelle modalità della contrattazione e in una rinnovata capacità di offrire servizi ai propri associati, magari sfruttando ancora meglio l’istituto della bilateralità.
Credo però sia importante anche la possibilità di portare un contributo a una rinnovata cultura del lavoro, che lo rimetta al centro non solo come un mezzo di sostentamento, ma di cittadinanza (contributo al bene comune, alla res publica) e di eudaimonia (contributo alla felicità della persona e della comunità). Si tratta di una sfida antropologica e sociale, prima ancora che economica, che potrebbe integrarsi anche con lo sviluppo di aziende più attente alla sostenibilità, sia per missione, sia per organizzazione.
E il desiderio?
Il Covid-19 ha prodotto nella nostra società, così implicitamente certa della propria autodeterminazione, una sorta di congelamento. In un attimo ci siamo trovati a soccombere di fronte all’invisibile, in una ridda di opinioni, valutazioni, ipotesi decisamente ansiogene nella loro sistematica contraddittorietà.
Tra le imprese e i lavoratori serpeggia la paura: di non farcela, di soccombere di fronte alla crisi, ma anche di non farcela a riprendere una dinamica fatta di normale relazionalità, che prima della pandemia davamo per scontata e che comprendiamo solo ora quanto ci fosse necessaria.
Siamo di fronte a una sfida, che durante il lockdown risuonava un po’ generica e sentimentale: da “andrà tutto bene” a “nulla sarà come prima”. Certamente nessuno può sapere esattamente come sarà, però se vogliamo almeno provare a governare il cambiamento dobbiamo modificare la nostra prospettiva. La sfida sopra annunciata ci impone uno spostamento: da una focalizzazione sul bisogno, ad una sul desiderio.
Viene quindi da interrogarsi se ci sia ancora spazio per il desiderio nel nostro tempo. Spesso la nostra epoca viene descritta come dominata dal primato del desiderio sul bisogno, in realtà a mio avviso del desiderio si vedono soprattutto alcune perversioni (intese non in senso morale, ma etimologico, come “azione di rovesciare” una cosa evidente), interpretando di volta in volta il desiderio come un sogno (irrealistico), oppure una mancanza (di cui lamentarsi) o un diritto (da rivendicare). Ma il desiderio non è nessuna di queste tre cose.
Il desiderio di cui parliamo qui si innesta nella tradizione aristotelica e tomista che lega la felicità dell’uomo, almeno quella terrena, alla realizzazione della propria natura generativa.
Rispetto al lavoro umano, per descrivere questa generatività, la Arendt ricorreva al termine “opera”, diversa dal lavoro dei corpi, il lavoro dell’animal laborans. L’opera è la costruzione umana che supera il puro consumo dei frutti del lavoro, per garantire un certo benessere nel tempo.
Potremmo in conclusione azzardare il ricorso al termine felicità, già usato prima trattando dell’eudaimonia, potremmo così pensare alla ripartenza come un’occasione in cui ricostruire questa relazione positiva tra l’uomo e il suo lavoro anche perché, per dirla con Primo Levi, “Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono.” (Levi, 1978).