Testo integrale con note e bibliografia
Introduzione. L’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, recante la disciplina dei controlli mediante “impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo” rappresenta una delle più efficaci dimostrazioni della lungimiranza del legislatore statutario.
Nell’epoca in cui la norma veniva introdotta, invero, l’utilizzo di apparecchiature di controllo da remoto era ancor poco diffuso; parimenti risultavano inimmaginabili le forme di controllo che successivamente la tecnologia avrebbe reso possibili ed il loro grado di pervasività.
In tal contesto erano comunque stati avanzati i primi dubbi sulla legittimità di tale tipo di controllo in ragione del carattere marcatamente invasivo di esso, tale da comprimere in maniera significativa la libertà dei lavoratori, che risultavano essere potenziale oggetto di un controllo costante sulla loro attività lavorativa nonché su ogni attività dagli stessi esercitata in azienda.
Si era sin da subito evidenziato come i tipi di controllo a distanza avessero – anche nei casi in cui il lavoratore fosse portato a conoscenza dell’esercizio del controllo, circostanza all’epoca non scontata – una potenzialità tanto invasiva da risultare lesiva della dignità umana e della riservatezza dei lavoratori. Com’è invero efficacemente sottolineato, “una cosa è il controllo del sorvegliante, che interviene, contesta direttamente un’infrazione, dà modo al lavoratore di difendersi, di prospettare le sue ragioni; altra cosa, e ben diversa, è il controllo anonimo, odioso, scostante, spinto fino all’esasperazione, da parte di un meccanismo controllato soltanto dalla direzione aziendale e dai suoi incaricati” .
Stante la problematica descritta, nonostante all’epoca fossero quasi inimmaginabili le forme di controllo che l’evoluzione tecnologica avrebbe in seguito permesso, il legislatore statutario interveniva, introducendo una regolamentazione del potere di controllo e, in ispecie, assoggettando ad un doppio ordine di limitazioni l’esercizio del controllo da remoto.
L’art. 4 introduceva, infatti, un divieto generale di ricorso a tale tipo di controllo, diretto, oltreché a salvaguardare i diritti della persona già menzionati, ad evitare che l’esercizio troppo accentuato di detto potere datoriale finisse con l’imporre ritmi di lavoro insostenibili ai lavoratori all’interno delle fabbriche .
Nello Statuto, quindi, viene consentito il solo controllo che non ha come oggetto diretto ed esclusivo l’attività lavorativa; il controllo a distanza è consentito, viceversa, solo ove finalizzato a scopi ulteriori: il perseguimento di esigenze organizzative e produttive e la sicurezza del lavoro. La possibilità di controllare l’attività lavorativa, conseguentemente, risulta lecita purché sia preterintenzionale, accidentale, non fosse, cioè, lo scopo diretto dell’installazione dei macchinari di videosorveglianza.
Va detto che questa previsione non è rimasta esente da critiche, in particolare da parte di chi ha ritenuto non sufficientemente salvaguardate le esigenze di tutela della dignità del lavoratore, avendone il legislatore accettata la compromissione in forza non di un vantaggio del lavoratore stesso, qual è quello derivante dal miglioramento della sicurezza del lavoro, ma di esigenze “altre”, proprie dell’azienda: appunto le esigenze organizzative e produttive .
Non può però non rilevarsi che, raffrontando il testo originario della disposizione e quello attuale e considerando anche il contenuto della giurisprudenza in materia di controlli difensivi, le aperture inizialmente concesse dalla norma non possono certo essere considerate eccessive.
In secondo luogo, l’art. 4 introduceva una garanzia procedurale, quella tutt’ora esistente : l’installazione delle apparecchiature viene, infatti, subordinata all’autorizzazione espressa o dalle rappresentanze sindacali aziendali o, in assenza di accordo sindacale, in sede amministrativa. Anche prima dell’emanazione dello Statuto, invero, l’installazione di apparecchi di controllo era giustificata dal datore di lavoro sulla base dell’esistenza di altre ragioni, tipicamente quelle di sicurezza, sulla reale sussistenza delle quali, tuttavia, non veniva esercitato alcun controllo .
Con lo Statuto dei Lavoratori viene demandata a tali organi la verifica della sussistenza delle finalità del controllo in modo tale da assoggettare al controllo di una parte terza la reale presenza delle ragioni indicate, nonché il loro valore. Veniva, così, realizzato, attraverso il coinvolgimento in primo luogo delle rappresentanze sindacali aziendali , il contemperamento tra i contrastanti interessi in gioco: quello al perseguimento delle esigenze di organizzazione, produzione e sicurezza datoriali, e quello del lavoratore a non subire limitazioni della propria libertà che risultassero imporre un sacrificio eccessivo.
2. Evoluzione tecnologica, nuovi interessi e istanze di cambiamento. Se non c’è regno che non sia destinato a cadere o re che non sia destinato ad avere un successore, nessuna meraviglia deve destare che analoga sorte sia toccata anche all’articolo 4, che dopo neanche 20 anni dalla sua emanazione ha visto e vissuto una crisi pari solo alla corrispondente evoluzione mondiale della tecnologica e dell’informatica.
La doppia anima della tradizione statutaria, fondata sulla coabitazione tra principi antitetici (ovvero la tutela della libertà e dignità dei lavoratori oggetto del divieto del primo comma, e le esigenze organizzative, produttive ovvero di sicurezza del lavoro dell’impresa, prese in considerazione dall’apertura contenuta nel secondo), viene presto a trasformarsi in una convivenza forzata, necessariamente destinata ad indirizzare sempre più la magistratura verso un’interpretazione correttiva volta all’applicazione della disposizione statutaria ad ipotesi francamente inimmaginabili per il legislatore del 1970 .
A far saltare l’equilibrio è, innanzitutto, l’introduzione nell’organizzazione del lavoro di dispositivi (software e hardware) capaci di registrare informazioni sul contenuto e le modalità della prestazione svolta, ma nondimeno essenziali per l’espletamento dell’attività lavorativa: internet, posta elettronica, badges, geolocalizzatori, smartphone, tablet e persino applicazioni in grado di monitorare continuamente e in tempo reale l’attività del dipendente nonché l’uso che fa degli strumenti di lavoro . Le apparecchiature di controllo dei lavoratori, immaginate dal legislatore statutario come qualcosa di esterno rispetto all’esecuzione dell’attività lavorativa, iniziano ad inerirvi in misura stringente, producendo il controsenso per cui subordinarne l’impiego alla preventiva autorizzazione sindacale o ministeriale finirebbe per tradursi in un serio ostacolo allo svolgimento dell’attività imprenditoriale e in un’applicazione della disciplina statutaria quantomeno «ipocrita» .
La particolare invasività delle forme datoriali di controllo fa di converso emergere una rinnovata istanza di protezione del diritto alla riservatezza, il quale, dopo esser rimasto per lungo tempo tutelato esclusivamente in via aquiliana attraverso un processo di interpretazione creatrice di fonte giurisprudenziale , viene recepito a tutto campo dall’ordinamento nel 1996 (l. 31 dicembre 1996, n. 675) per assurgere a specifico «diritto alla tutela dei dati personali» nel codice del 2003. La desuetudine dell’art. 4 Stat. lav. si accompagna così al timore che la nuova tecnologia, connessa o meno agli strumenti di lavoro, in assenza di limiti, consenta non solo, attraverso l’elaborazione e l’incrocio di dati, un’analitica ricostruzione delle attività compiute dal dipendente sul posto di lavoro, ma anche un indiscriminato accesso e il trattamento a dati sensibili da queste ricavabili. Il punto diviene dunque non solo ricercare, nel prisma dell’art. 4 Stat. lav., un punto di equilibrio sostenibile del diritto alla privacy alla luce dell’evoluzione tecnologica, ma anche delimitare, pur riconoscendogli spazi, il potere del datore di lavoro di apprendere, consultare e utilizzare i dati e le informazioni necessarie per lo svolgimento dell’attività produttiva derivanti dall’uso dei nuovi sistemi. Ciò che appare importante è, in poche parole, la difesa del lavoratore contro l’abuso di sorveglianza datoriale, che costituisce un rischio sempre più accentuato dall’evoluzione della società informatizzata .
Un siffatto orientamento di pensiero finisce insomma per esaltare l’elemento di saggezza contenuto nella disposizione statutaria laddove per la prima volta poneva in dialogo due sistemi convergenti, ma diversi, innestando sul piano del rapporto di lavoro tralci di tutela dei dati personali del dipendente con oltre 25 anni di anticipo rispetto alla legislazione successiva , proponendone l’esigenza di un aggiornamento alla luce del mutato contesto sociale. Ma d’altra parte coglie come l’imperfetta complementarietà tra l’art. 4 Stat. lav. e il Codice della privacy del 2003, assicurata dal richiamo dell’art. 114, suona quasi come un patto di non belligeranza, più che un’armoniosa alleanza, lasciando in sostanza i due apparati normativi a «gravitare nelle rispettive sfere, senza sviluppare particolari interazioni» . E come appunto, lasciato lo Statuto solo a guardia dei bastioni, l’evoluzione informatica e tecnologica abbia in sostanza alterato l’equilibrio faticosamente cercato al momento della promulgazione della legge tra l’anima garantista fondata sulla supremazia della norma imperativa (con un divieto assoluto del ricorso a impianti audiovisivi e altre apparecchiature direttamente finalizzate a controllare a distanza l’attività dei lavoratori e un’estensione paralizzante di ogni forma di controllo occulto dei dipendenti) e quella liberista, fondata sulla flessibilità del divieto nei confronti dei controlli indiretti, sulla cogestione della materia attraverso un rinvio alla contrattazione e sulla supremazia dell’ispettorato del lavoro, quale organo di ultima istanza volto all’emanazione del provvedimento autorizzativo, da adattare alla peculiare e variabile realtà dei luoghi di lavoro, ogniqualvolta i controlli appaiano sì indispensabili alla tutela del patrimonio aziendale, ma possano anche determinare, in via preterintenzionale, una invasione della sfera privata, individuale e riservata dei dipendenti .
In mezzo a queste due istanze, solo in parte divergenti, si pone la giurisprudenza. Investita della questione a fronte dell’utilizzo dei dati acquisiti dall’impresa ai fini disciplinari, a partire dal 2002 , la magistratura finisce per ampliare lo spettro del potere di controllo, abbandonando gradualmente i rigorosi criteri di cui all’art. 4 Stat. lav. a vantaggio della finalità di autotutela. Si sostiene così l’estraneità alla fattispecie normativa della categoria dei controlli c.d. difensivi, i quali, pur avvenendo attraverso l’uso di strumenti tecnici installati non solo all’insaputa del lavoratore, ma anche senza il previo esperimento delle procedure previste, risultino comunque intenzionalmente funzionali alla conservazione e difesa dell’organizzazione produttiva contro le aggressioni da parte degli stessi dipendenti . E pur tuttavia deve apparire evidente come l’incoerenza insita nel legittimare i controlli occulti scagionando il datore dalla violazione del diritto alla riservatezza ogniqualvolta si manifesti un’esigenza punitiva ha finito per rendere la giustificazione della categoria del tutto farraginosa, alla luce del fondamentale rilievo per cui i controlli, nati illegittimi, verrebbero giustificati soltanto ex post a fronte della scoperta dell’inadempimento del lavoratore, senza peraltro che si possa in alcun modo indagare l’elemento soggettivo del datore, facendo in tal modo compiere al divieto statutario una torsione non dissimile dal mutamento che colpì Tiresia, il quale, nato uomo, fu tramutato in donna per aver fatto adirare gli dei (alias, qui trasposto, il datore di lavoro). Insomma, il fronte che si espone all’indagine riguarda la stessa enucleazione dei tratti identificativi del potere di controllo. Piano rispetto al quale è in discussione qualcosa in più rispetto alla semplice interpretazione della disciplina legislativa, venendo in gioco la stessa coerenza del regime statutario rispetto all’esigenza protettiva enucleata dall’ordinamento.
Da qui l’idea che la giurisprudenza abbia finito per attuare un bricolage interpretativo dogmaticamente piuttosto incoerente , ma del resto funzionale, più che alla fissazione di principi unitari, a pervenire ad una soluzione degli interessi concretamente in conflitto caso per caso (rectius, strumento di controllo per strumento di controllo) , cui è conseguita la rinnovata percezione che l’esigenza di uniformità applicativa e certezza esegetica dovesse trovare risposta attraverso un aggiornamento dell’art. 4 Stat. lav. .
3. La riforma del 2015 e la dimensione negoziale del potere di controllo. L’istanza riformatrice è stata accolta dal legislatore del Jobs Act, che ha ridefinito un nuovo punto di equilibrio tra l’interesse del lavoratore a non essere leso nella dignità a causa dei controlli cui sia sottoposto e quello del datore di lavoro al corretto adempimento della prestazione lavorativa con la riscrittura integrale dell’art. 4 Stat. lav. sin dalla sua rubrica, che, quasi a voler segnare sin dall’inizio l’adeguamento alla nuova realtà, aggiunge accanto all’originario lessema «impianti audiovisivi» l’ulteriore richiamo agli «altri strumenti di controllo».
Si tratta di una novità che si riscontra immediatamente nel corpo della norma, divisa tra due nuclei differenti, poiché destinati a regolare due piani logicamente distinti: il primo attinente agli strumenti di controllo a distanza, di cui si ammette l’installazione a condizione di essere impiegati «esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale» sì da segnare una stretta connessione tra finalità di impiego e condizione di legittimità per l’installazione ; e il secondo agli strumenti di controllo che siano anche strumenti di lavoro necessari per rendere la prestazione lavorativa ovvero servano alla registrazione degli accessi e delle presenze, rispetto ai quali il filtro sindacale e amministrativo è escluso in via generale, poiché volti, evidentemente, a soddisfare un interesse che affonda le proprie radici nel potere direttivo datoriale e nel corrispondente obbligo del lavoratore di obbedirvi in virtù della posizione gerarchica dell’imprenditore (artt. 2086, 2094 e 2104 cod. civ.) e verrebbe leso nella sua libertà (art. 41, comma 1 Cost.) laddove condizionato al previo esperimento di una procedura autorizzativa.
Si coglie qui la profonda differenza con l’impianto statutario, rispetto al quale il salto di qualità è compiuto chiarendo, in prospettiva bipartita, le ipotesi in cui il potere di controllo è direttamente correlato al potere direttivo, sì da necessitare una tutela in chiave meramente individuale in un’ottica di ripristino immediato della parità delle parti sul piano negoziale e quelle in cui, invece, in cui l’incidenza obliqua del controllo pone non marginali difficoltà al fine di rendere compatibili interessi giuridicamente rilevanti profondamente diversi, tanto da render necessaria un previo procedimento di confronto.
Solo che poi la distinzione tra gli stessi campi è tutt’altro che agevole, perché l’assenza di una nozione predeterminata di “strumento di lavoro” rimanda ad un criterio per differenziare la species dal genus consistente nell’attinenza dello strumento alla prestazione lavorativa svolta dal dipendente che richiede un rinvio mobile, caso per caso, in relazione alla specifica organizzazione di impresa, agli strumenti destinati dall’imprenditore al dipendente per l’esecuzione del lavoro in virtù dell’esercizio del proprio potere direttivo . Il che vuol dire, in altre parole, che lo stesso strumento può assumere vesti diverse a seconda di come la prestazione deve essere svolta in base alle esigenze organizzative del datore. Ma anche che, affinché possa essere sottratto alle procedure di cui al comma 1, vi deve essere una «relazione attiva» tra strumento e dipendente, di guida tale che esso sia inerente e direttamente funzionale allo svolgimento del lavoro .
Del doppio meccanismo di tutela previsto nella versione originaria dell’art. 4 si perde peraltro solo apparentemente un pezzo, ovvero il generale divieto di monitoraggio intenzionale dell’attività lavorativa contenuto nell’abrogato comma 1, che si recupera agevolmente in via interpretativa, lasciando la procedura autorizzativa prevista per l’installazione di strumenti dai quali derivi la possibilità di controlli preterintenzionali della prestazione chiaramente intendere l’eccezionalità del potere di controllo diretto sulla prestazione .
Ma la novità della disposizione va ben oltre, poiché investe la stessa distinzione regolativa dei due momenti logici in cui si articola l’esercizio del controllo a distanza, che attengono, da un lato, all’installazione e all’impiego dello strumento di controllo con l’acquisizione e la conservazione dei dati e, dall’altro, l’utilizzo, peraltro eventuale, degli stessi, ora ancorato al rilascio di adeguata informativa ai sensi del comma 3 anche tramite il richiamo alla normativa in materia di privacy. Si segna in tal modo una compenetrazione talmente salda tra i due apparati regolativi da non lasciare spazio alcuno alla possibilità di giustificare l’utilizzazione di dati acquisiti all’insaputa del lavoratore, tanto più considerando il generale divieto di controlli occulti, ricavabile a contrario dall’introduzione della previa informativa .
C’è in tale scelta complessiva un parziale ritorno alla situazione ante-Statuto, nella quale il potere di controllo si riteneva inerire allo stesso potere direttivo, tanto da non meritare alcuna considerazione legislativa , posto che l’art. 23 del d.lgs. n. 151 del 2015 è emanato nell’intenzione di non rendere più il potere unilaterale di controllo del datore di lavoro recessivo rispetto alla tutela della libertà e dignità dei dipendenti, ma di rafforzarne ed ampliarne l’azione, tanto da consentire l’utilizzabilità delle informazioni raccolte «a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro» sì da ricollegarsi più propriamente all’interesse datoriale a gestire i rapporti di lavoro, oltre che esercitare il potere disciplinare. Ma a differenza del passato la tutela della riservatezza viene garantita in una dimensione principalmente individuale, in cui l’adeguatezza dell’informativa funge da protezione alla libertà e dignità della persona all’interno dell’impresa più di quanto possa fare il mero espletamento della procedura (sindacale o amministrativa), che si continua a ritenere a sua volta condizione empirica necessaria per l’installazione e l’impiego di alcuni impianti di controllo, ma insufficiente per l’utilizzo di tali dati a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro (ed in particolare, all’evidenza, ai fini disciplinari) , rispetto al quale, anzi, la violazione dei limiti contenuti nel decreto legislativo del 2003 si considera pari a quella dei limiti statutari .
Ciò che si vuole è, in altre parole, che il controllo sia trasparente, in quanto i dipendenti sappiano, conformemente all’ampio richiamo – arricchito peraltro dall’evoluzione normativa – al Codice della privacy, di poter essere controllati, da chi, come e in quali limiti, onde evitare che l’esercizio del potere di controllo non si traduca nell’adozione di pochi e limitati atti secondo l’obbligo generale imposto al datore di lavoro (c.d. principio di accountability) di conformare la propria azione e la propria organizzazione tecnologica a principi di legittimità, correttezza, trasparenza, limitazione della finalità, anonimizzazione e minimizzazione, ma divenga un processo continuo di osservazione dell’attività dei lavoratori ( ). Il potere di controllo viene cioè trasposto, principalmente, in una dimensione più dissuasiva che punitiva, non già come un alleato del potere disciplinare, ma piuttosto come una caratteristica del potere organizzativo dell’impresa, che richiede una obbedienza diligente e fedele ad opera di coloro che vi sono gerarchicamente sottoposti (artt. 2086, 2094 e 2104 cod. civ.) e giustifica solo consequenzialmente un diritto di intervento, tramite l’utilizzazione dei dati anche ai fini disciplinari, nella fase esecutiva del rapporto.
4. (segue). I controlli difensivi. Per quanto s’è detto ben si comprende come l’art. 4 Stat. lav. arricchisca l’ordinamento lavoristico di un principio di conoscibilità, il quale è declinato in guisa tale da non subire deroga alcuna e pertanto è applicabile alla stregua di un «principio guida» di ogni processo interpretativo . Non è allora un semplice caso che il processo celebrativo dell’entrata in vigore della nuova disciplina abbia comportato un ripensamento della categoria controlli difensivi, funestati da una furia abrogatrice derivante dall’idea per cui la nuova disciplina sarebbe venuta a internalizzare le stesse finalità attraverso cui la giurisprudenza precedente era venuta a giustificare tale istituto. Non è un semplice caso, perché quella categoria, avversata anche quando esigenze di giustizia sostanziale imponevano di giustificarla, risulterebbe oggi in aperto contrasto con la lettera della legge, che riassumerebbe l’esercizio del potere di controllo in una prospettiva meramente procedurale .
Ma il vulnus è evidente, perché giustificando il troppo in troppo poco si offre al lavoratore una protezione irragionevole in quanto tale da giustificare, entro uno schermo procedurale, un comportamento illecito immeritevole di tutela senza lasciare al datore alcun margine di difesa a fronte di condotte antigiuridiche perpetrate in suo danno commesse attraverso gli strumenti aziendali (es. invio di informazioni riservate ad un concorrente tramite la email aziendale) ovvero non connesse con l’esecuzione della prestazione lavorativa . Al riguardo, si deve anzi rilevare come i controlli difensivi, lungi dal potere essere tacciati di obsolescenza, manifestino intatte le potenzialità di offrire uno strumento di garanzia della permanenza dell’equilibrio sinallagmatico del contratto di lavoro, al fine di consentire in ogni momento l’esatto adempimento delle obbligazioni dedotte in contratto, nella prospettiva esclusiva della permanenza del vincolo fiduciario che giustifica la prosecuzione del rapporto, evitando il protrarsi degli effetti del contratto di lavoro a fronte di condotte illecite sanzionabili penalmente o con sanzione espulsiva.
L’iter argomentativo compiuto da alcune pronunce si muove in quest’ottica in linea con i propri più antichi precedenti, ritenendo che il comportamento illecito del dipendente non rientri nel concetto di attività del lavoratore protetto dalla norma e possa dunque ancora formare oggetto di controlli difensivi, allorquando questi vengano limitati a quanto strettamente necessario all’accertamento e dimostrazione dell’illecito.
A riguardo, si deve rilevare come ci si sia accorti dell’impossibilità di ricomprendere nella nozione di «attività» e «prestazione lavorativa», fulcro attorno al quale ruotano le garanzie dell’art. 4 Stat. lav., tutte le condotte poste in essere dal lavoratore sul luogo di lavoro, esecutive o illecite che siano e dell’opportunità di distinguere tra le attività compiute in esecuzione della o in connessione alla prestazione lavorativa principale e i comportamenti lesivi degli obblighi accessori di correttezza e protezione, che pertanto rimarrebbero fuori dall’ambito applicativo dell’art. 4 Stat. lav., non potendosi far rientrare nella ragionevole aspettativa di riservatezza tutelata dalla norma una (irragionevole) aspettativa di sostanziale impunità. Perché la violazione delle garanzie procedurali previste dal comma 1 dell’art. 4 Stat. lav. possa correttamente operare rendendo inutilizzabili le prove raccolte, occorre dunque che, a monte, sia contestata al lavoratore una violazione delle obbligazioni direttamente discendenti dal contratto di lavoro e, segnatamente, l’inesatto diligente adempimento della prestazione lavorativa. Al contrario, sarebbero in ogni caso controllabili, con finalità difensive, illeciti estranei allo svolgimento della prestazione lavorativa ovvero riguardanti la tutela dei beni estranei al rapporto stesso.
L’idea è coerente con la distinzione tra obblighi di prestazione e obblighi di protezione, la quale, declinata nel nostro specifico campo di indagine attraverso il ricorso a costrutti di stampo civilistico , considera i primi in connessione con l’obbligo di diligenza nell’esecuzione delle mansioni ex artt. 1176 e 2104 cod. civ. e quindi con l’interesse specifico del creditore di lavoro al corretto adempimento della prestazione di lavoro ed i secondi direttamente inferibili dagli artt. 1175 e 1375 cod. civ. e volti a tutelare, nell’ambito di una relazione contrattuale complessa, il diverso interesse datoriale alla protezione e conservazione dell’organizzazione di impresa e del suo normale funzionamento.
In questa chiave la riaffermazione della relazione tra datore di lavoro e dipendente in chiave contrattuale, riassegnando al datore la pretesa creditoria a che la relazione contrattuale non sfoci in un nocumento per la propria sfera giuridica (patrimoniale e non), è probabilmente una dei migliori segni di continuità con l’originario impianto statutario, al quale veramente si deve, per la prima volta, un’indicazione in chiave negoziale del rapporto di lavoro, coerentemente all’idea per cui la compressione dei poteri datoriali operata dalla legge avrebbe operato un riequilibro «sostanziale di potere delle parti» coerente con «lo schema elementare del contratto», di cui è anzi esaltata «la funzione tipica di scambio» . Attraverso la distinzione tra le diverse obbligazioni del lavoratore discendenti dal contratto e la conseguente legittimazione del ricorso ai controlli difensivi, il potere di controllo è invero ricondotto al fondo alle ordinarie pretese creditorie, rispetto alle quali le norme statutarie appongono limiti essenziali al riequilibro delle posizioni delle parti nel rispetto di valori di carattere costituzionale (ed essenzialmente della dignità del dipendente ex art. 2, 3, comma 2 e 4 Cost.), ma non ne negano la originaria matrice contrattuale, sì da opporsi agli opposti principi di matrice istituzionale che, già prima dell’entrata in vigore dello Statuto, pur erano propugnati da parte della dottrina sulla base dell’aspirazione, più teoretica che sistematicamente coerente, a ricostruire attorno al prestatore un generale e dinamico principio di favor che pervaderebbe l’intero ordinamento lavoristico giustificando la possibilità di orientare a vantaggio del lavoratore la soluzione in concreto applicabile .
A correggere l’impostazione interpretativa di natura istituzionale è, in questo quadro, la stessa funzione dell’informativa da rendere al dipendente ai sensi del comma 3, la quale, a tacer d’altro e per rimanere al tema dei controlli difensivi, non consentendo comunque quelli del tutto occulti, ovverosia compiuti senza aver messo previamente il dipendente neppure nelle condizioni di poter conoscere l’eventualità di esservi soggetto, riconduce il rapporto ad un piano di parità in misura non diversa da quanto si compie sul piano civilistico attraverso il ricorso alla buona fede in executivis. Non a caso nel definire il criterio di soluzione del conflitto tra l’interesse del lavoratore a non subire intrusioni nella propria sfera privata e l’opposta necessità del datore di lavoro di tutelare l’integrità del proprio patrimonio tanto nella sua dimensione attuale, quanto potenziale, il legislatore ha attribuito rilevanza giuridica alla situazione di inferiorità negoziale del dipendente in fase esecutiva sbilanciando l’assetto contrattuale dei diritti ed obblighi in suo favore ed alterando, in virtù della penetrazione del dipendente nell’organizzazione di impresa, il principio di simmetria tipico del contratto nell’intento di correggere gli squilibri di potere che potrebbero derivare principalmente dalle asimmetrie informative che si perpetuerebbero in assenza del vincolo legale. La tutela che si offre al dipendente è in tal modo quella della correzione della logica tradizionale del contratto, secondo un giudizio di bilanciamento tra le due posizioni in gioco, attraverso la tipizzazione di un obbligo informativo che altro non fa che specificare un comportamento altrimenti inferibile dall’art. 1375 cod. civ. e rispetto al quale l’ordinamento interviene, mediante il ricorso alla sanzione dell’invalidità degli atti compiuti sfruttando il deficit cognitivo del lavoratore, in misura satisfattiva avverso ad un comportamento contrario a buona fede tipizzato dal legislatore.
A quest’ultimo riguardo particolare rilievo assume dunque la specificazione legislativa di un’informativa che, oltre che «adeguata», sia anche «data», richiedendosi la prova della conoscenza diretta del contenuto da parte del destinatario ovvero quella dell’avvenuta ricezione della stessa ex art. 1335 cod. civ. Ed è in questa chiave che può leggersi anche il riferimento al criterio dell’adeguatezza, che non rimanda ad altro che al principio di correttezza, declinato nel principio di trasparenza ed arricchito delle indicazioni provenienti dalla legislazione europea e dalle indicazioni del Garante ( ).
A sua volta l’intreccio esistente tra la normativa sulla privacy richiamata dal comma 3 dell’art. 4 e la stessa disciplina statutaria esaurisce la funzione correttiva dello squilibrio delle parti nella fase esecutiva del rapporto, in guida da rifiutare ogni forma di correzione del rapporto in chiave protezionistica attraverso il ricorso ad «una interpretazione finalistica o comunque estensiva» destinata a realizzare «forme di tutela non previste dal legislatore e, dunque, aggiuntive rispetto all’intento da questi manifestato» riconducendo ad un inadempimento datoriale rispetto agli obblighi di tutela della riservatezza del dipendente direttamente inferibili da siffatta normativa, l’inutilizzabilità dei dati e delle informazioni acquisite tramite controlli effettuati in violazione del Codice della privacy.
5. Conclusione. La strada percorsa dalla norma in commento, e i compagni incontrati, sono stati descritti; resta da considerare quali sono le prospettive della stessa in un momento storico particolare e nel quale le tecnologie digitali sembrano prendere il sopravvento sull’idea di uomo-lavoratore (donna-lavoratrice). Quanto riferito, specie nei due precedenti paragrafi, appare in qualche modo scongiurare tale esito, anche in considerazione di una sorta di neocontrattualismo, collettivo e individuale, che sembra emergere negli sforzi della dottrina, nonostante tutto.