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“Il Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile”, a firma di Bruno Caruso, Riccardo Del Punta e Tiziano Treu, è un contributo fondamentale al dibattito sulla repentina evoluzione che sta vivendo il mondo del lavoro. Molteplici sono i temi affrontati e tanti gli spunti di riflessione. Il tono “assertivo”, come lo definiscono gli stessi autori, di questo scritto lo rende efficace e concreto e, tuttavia, non è tale da restringere gli spazi di discussione, nella consapevolezza del contributo arricchente del confronto.
Il tentativo di riconciliare “la regolazione del rapporto di lavoro” con il “governo del mercato del lavoro”, di cui si parla nella premessa, in fondo, è l’espressione di una problematica più ampia: quella relativa alla difficoltà di portare a sintesi, nelle dinamiche e nelle scelte relative al mondo del lavoro, le ragioni del diritto, dell’economia e della politica.
Il lavoro è una funzione diretta delle politiche economiche di un Paese o di una realtà sovranazionale. Più precisamente, il lavoro non si crea per decreto, ma è la conseguenza di investimenti pubblici e privati, la cui carenza genera l’ormai cronica crisi occupazionale e, per certi aspetti, anche il livellamento verso il basso delle tutele. Questo è il problema da risolvere in origine.
La pandemia non ha fatto altro che accentuare drammaticamente le criticità già esistenti, ma la “ricostruzione” che ci accingiamo ad avviare può offrire opportunità importanti che vanno gestite con intelligenza. Ecco perché occorre partire dall’individuazione di asset strategici per lo sviluppo del Paese: è lì che vanno allocate le risorse del Recovery Fund. Questo percorso potrà generare buona occupazione, puntando anche - siamo d’accordo con le linee guida del “Manifesto” - sulle tecnologie digitali e sulla sostenibilità, perché ricerca e innovazione, insieme, saranno il volano per una crescita equilibrata. La stessa produttività, peraltro, potrà aumentare a queste condizioni. Le aziende, infatti, hanno l’onere di innovare i processi produttivi e i prodotti mentre il sistema territoriale e dei servizi deve garantire una produttività di contesto. Così si gettano le basi per dare forza al lavoro.
C’è, però, anche un’altra strada da seguire. L’occupazione aumenta se si produce di più e, quindi, se si consuma di più. Ma la domanda interna cresce se crescono le risorse a disposizione di coloro che acquistano i beni e i servizi prodotti dalle nostre aziende e che hanno una propensione marginale al consumo più alta: i lavoratori dipendenti e i pensionati. Questo si ottiene riducendo le tasse e rinnovando i contratti, il che innescherebbe una sorta di solidarietà sociale circolare che può determinare benefici non solo per coloro che un reddito già ce l’hanno, ma anche per i giovani in cerca di buona occupazione.
L’evoluzione del mercato del lavoro e le trasformazioni che connotano le tipologie contrattuali richiedono l’assunzione di scelte coraggiose, ma non destrutturanti. Il principio è semplice: non si possono accettare impostazioni che determinino un’accentuazione della precarietà o un ridimensionamento delle tutele. Non è un problema di forme contrattuali, che possono anche essere diversificate, ma di rispetto dei diritti, da un lato, e di contrasto a forme surrettizie di lavoro autonomo o flessibile, dall’altro.
In questo quadro, poi, si innesta anche un ragionamento più specifico sulla controversa questione della contrattazione e della rappresentanza, a cui il testo in questione dedica un capitolo molto interessante. Nulla impedisce, oggi, la misurazione della rappresentatività. Quanto “pesino” le varie Organizzazioni sindacali è “empiricamente” verificabile, manca solo la strutturalità di un sistema che ratifichi scelte già compiute. Non è di certo il Sindacato a porre un freno a questo percorso in cui, peraltro, il Cnel può avere un suo particolare ruolo. Nel pubblico impiego, poi, si vota ogni tre anni, in alcuni giorni individuati, e l’Aran certifica i risultati delle consultazioni elettorali.
La regolamentazione della contrattazione e della rappresentatività spetta alle parti sociali: il legislatore, eventualmente, si deve limitare solo a recepire quanto stabilito. Si pone, semmai, la necessità di definire al più presto la rappresentatività delle associazioni datoriali, anche per ridurre il fenomeno della firma dei contratti cosiddetti pirata. Così come è il sistema delle imprese che deve risolversi ad accettare relazioni sindacali partecipative per una gestione la più condivisa possibile dell’organizzazione del lavoro e degli obiettivi produttivi. Non solo, ma devono essere ancora una volta gli imprenditori a convincersi della convenienza a puntare sul benessere lavorativo dei propri dipendenti per accrescere la produttività del lavoro. In un sistema siffatto, il Sindacato può svolgere, appieno e più efficacemente, quel ruolo di autorità salariale che, nella sostanza, gli viene riconosciuto dalla stessa Costituzione.
Il Sindacato confederale deve aprirsi al nuovo che avanza, avere la capacità di governare i cambiamenti e ragionare su una prospettiva unitaria che può dare forza alle proprie ragioni e rivendicazioni. Non può, però, smarrirsi il senso profondo dell’associazionismo sindacale che, sino a quando esisteranno un datore di lavoro e un lavoratore, dovrà adempiere un compito di tutela ineliminabile e funzionale alla giustizia sociale e allo sviluppo.

 

 

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