TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
Sommario:
1. A chi è rivolto il manifesto. - 2. Un’agenda per il futuro. - 3. Riforme strutturali e crisi pandemica.
1. L’invito a partecipare al dibattito sul Manifesto “Per un diritto del lavoro sostenibile”, redatto da Bruno Caruso, Riccardo Del Punta e Tiziano Treu, sollecita innanzitutto l’interrogativo sugli interlocutori di questo documento. Non si tratta, infatti, della partecipazione ad una discussione pubblica sollecitata in sede istituzionale, ma della summa del pensiero degli autori circa lo stato attuale del diritto del lavoro inteso sia come disciplina giuridica sia come assetto regolativo del mercato.
La presentazione del Manifesto esplicita che in larga misura destinataria di esso è la dottrina giuslavoristica – assai meno la giurisprudenza – e in particolare quella parte, che a me pare oggi minoritaria, che ancora non è consapevole che “occorre ed è possibile conciliare le ragioni del lavoro con quelle dell’economia” (p. 5), che i valori sottostanti al diritto del lavoro non hanno perso la loro attualità ma necessitano di diverse tecniche per la loro attuazione, che, in quest’ambito, la norma inderogabile deve essere accompagnata dall’autonomia collettiva, e anche da quella individuale, in funzione non più solo protettiva ma anche capacitante della persona del lavoratore.
È questa una postura culturale oggi propria, sia pure con diverse sfumature e diversi esiti, di gran parte della dottrina giuslavoristica. Ma va a merito degli autori di avercelo ricordato e così pure di averci ricordato la funzione capacitante del diritto del lavoro, per cui a misure di prescrizione e di divieto devono accompagnarsi misure promozionali che arricchiscano le risorse personali e permettano a tutti di sviluppare appieno la propria personalità (p. 5). Anzi, l’ottica capacitante è proprio quella qualificante e che connota gran parte delle proposte avanzate.
Se ciò è vero, sembra difficile negare che questa ottica sia sconosciuta alla gran parte del giuslavorismo italiano e che i conflitti o le contrapposizioni si producano più sul piano delle tecniche che non su quello delle linee direttive. Che poi questi conflitti o contrapposizioni siano causati da ideologismi o da conservatorismo giuridico è difficile dire e probabilmente non importante.
Il discorso, rivolto ai giuslavoristi, non si arresta al piano dei valori e delle tecniche ma si sposta anche al piano dogmatico, prospettando l’interrogativo se il nuovo che avanza ed è penetrato nella normativa lavoristica non consenta di prefigurare una lettura aggiornata, se non innovativa, della causa del contratto di lavoro subordinato (p. 20). Si tratta di un passaggio poco chiaro: lo scambio lavoro-retribuzione come elemento essenziale della causa del contratto ben può essere arricchito da connotati collaborativi e partecipativi senza essere snaturato.
Quanto ai profili metodologici, il “sincretismo metodologico” , da intendersi come il portato dell’apertura interdisciplinare, è considerato la cifra più aggiornata della metodologia delle scienze sociali, inclusa quella giuridica. La constatazione o l’indicazione nulla però dice ai giovani studiosi, la dottrina di domani, divisa tra i “nuovisti”, che rincorrono l’apertura interdisciplinare, senza riuscire peraltro a calarla nel sistema, connettendosi con gli snodi concettuali ineludibili della nostra materia, e i “tradizionalisti”, il cui più sicuro argomentare sul piano giuridico non sempre dimostra consapevolezza dei mutamenti in corso.
In questo, ovviamente, vi è una grande responsabilità della dottrina maggiore che dovrebbe, costruendo un ponte tra passato, presente e futuro, trasmettere almeno il messaggio che il diritto è oggi policentrico e che buona regola è interessarsi di quel che avviene nella riflessione giuridica in generale ed in particolare in quella giusprivatistica, che ha certamente, come si legge nel Manifesto, “cambiato pelle” (p. 18).
2. Nel merito, le analisi e le proposte di politica del diritto avanzate riprendono, aggiornandolo - si pensi all’enfasi posta su due vere e proprie idee aggreganti: sostenibilità ambientale e formazione -, un dibattito che dura da almeno vent’anni, come è testimoniato dal libro di uno degli autori, risalente a due decenni fa . Si tratta di un dibattito che vede ancora al centro flexicurity, statuto dei lavori, regolazione della rappresentanza e della contrattazione collettiva.
Tra le numerose proposte avanzate, quelle che mi sembra più urgente riprendere, in vista di attrezzarci per la “nuova normalità” che ci attende, sono le ultime due, a dispetto del minore appeal attualmente incontrato tra i giuristi.
Le generose (e in taluni casi tormentate ) riforme degli anni ‘10 del nuovo millennio hanno lasciato completamente fuori la materia dei rapporti collettivi, vale a dire della rappresentanza sindacale e della contrattazione collettiva.
Ci siamo fin qui cullati nel modello statutario alternativo a, sebbene non incompatibile con, quello prefigurato dall’art. 39 Cost.: vale a dire quello del sostegno e della promozione dell’attività sindacale in azienda, senza regolazione. Ora, a parte il fatto che la norma cardine di questo modello – l’art. 19 dello Statuto dei lavoratori – ha perso, dopo l’amputazione da parte del referendum del 1995, il nucleo più significativo della sua anima promozionale e che i problemi posti dalla attuale regolazione legislativa delle RSA sono solo occultati dalla tenuta della disciplina interconfederale delle RSU; a parte ciò, è ormai riconosciuto dai più che il modello del sostegno senza regolazione non è più sufficiente.
La frammentazione sindacale, anche datoriale, con la realizzazione di diversi ordini contrattuali, mette in crisi il sistema di relazioni industriali e, dunque, anche il virtuoso sistema dei rinvii della legge ai contratti collettivi. Il compito co-regolativo è, come noto, assegnato solo a sindacati qualificati, prima ai sindacati maggiormente rappresentativi, oggi ai sindacati comparativamente più rappresentativi. Una nozione che proprio l’accentuata frammentazione della contrattazione collettiva nazionale ha reso in molti casi controversa, se non addirittura inapplicabile. Ebbene ritengo, senza avere qui il tempo per argomentare , che la legge possa e debba intervenire a stabilire le regole fondamentali sulla rappresentatività sindacale, compresa quella dei datori di lavoro, attribuendo ad una autorità amministrativa, naturalmente dopo averne fissato i criteri, il compito di certificare i dati sulla effettiva rappresentatività. E ciò è possibile perfino a prescindere dalla disciplina della contrattazione collettiva e dalla sempiterna questione della legge sindacale.
Il tema si salda con quello del salario minimo. Bisogna prendere atto che l’interruzione dell’integrazione sistemica dell’ordinamento statuale e di quello intersindacale ha reso problematica la determinazione dell’equa retribuzione ex art. 36 Cost. Sul tema ho scritto ampiamente e più volte per manifestare il mio favore per l’introduzione di un salario minimo fissato per legge, rispetto alla quale ipotesi si possono comprendere assai più le cautele delle associazioni datoriali, che non quelle manifestate dalle associazioni sindacali dei lavoratori. Vorrà pure dire qualcosa se, nella quasi totalità dei paesi europei, vi sono meccanismi di determinazione legale dei salari, oggi incoraggiati anche dalle istituzioni europee.
La questione del rapporto tra determinazione legale del salario e contrattazione collettiva è vecchia quanto il diritto sindacale. Anche gli Webb l’hanno affrontata nel loro Industrial Democracy, giungendo alla conclusione che, lungi dall’ostacolare la contrattazione collettiva, il salario minimo risponde alle esigenze sia di garantire una tutela minimale a settori che il sindacato non è in grado di raggiungere, sia di fornire un sostegno generalizzato di base all’azione sindacale, sempre suscettibile di miglioramento.
Vi sono disegni di legge presentati in Parlamento che realizzano una integrazione interessante tra fissazione legale del salario minimo, demandata in prima battuta ai contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, e, appunto, misurazione e certificazione della rappresentatività sindacale; con la previsione, comunque, di un limite quantitativo – che, non lo nascondo, non è facile fissare – operante come pavimento per la contrattazione collettiva e come parametro applicabile per i settori non coperti dalla stessa.
Tutto ciò darebbe una risposta, perfino tardiva, ai possibili inceppamenti del sistema di contrattazione collettiva, alle cui risorse attinge largamente l’ordinamento statuale.
Le regolazioni di cui sopra sono necessarie al fine delle articolazioni delle tutele dispensate dal diritto del lavoro, soprattutto se si ritiene, come ritengono giustamente anche gli autori del Manifesto (p. 23), che essa possa essere compiuta proprio dalla contrattazione collettiva cui, con intuizione felice, l’art. 2, 2° co., del d. lgvo 81 del 2015 demanda di articolare fattispecie e tutele.
3. Una domanda interessante, circolante nel dibattito – e che non riguarda solo il diritto del lavoro – è se dalle misure emergenziali adottate per far fronte alla crisi pandemica possano scaturire riforme strutturali magari perché con l’emergenza sono venuti al pettine nodi già esistenti .
Per quanto riguarda il diritto del lavoro e del welfare in particolare, potrebbe consolidarsi (condizioni di finanza pubblica permettendo) la tendenza all’universalizzazione delle tutele e alla previsione di misure di sostegno per chi si trovi in stato di povertà.
La crisi economica e sociale innescata dal covid-19 ha posto sotto una pressione mai sperimentata prima il sistema di welfare italiano.
Esso ha rivelato evidenti elementi di criticità, che paradossalmente le stesse misure straordinarie adottate per garantire la continuità reddituale dei lavoratori dipendenti e, in parte, autonomi, nonché un sostegno economico alle imprese, hanno contribuito a disvelare; criticità che ora si tratta di correggere.
Purtroppo, siamo nel mondo dell'incertezza che concerne le istituzioni, l'economia, il lavoro e l'impresa. Assistiamo ad uno scontro, titanico e non ancora oggi composto, tra i valori dell'occupazione e dell'impresa, che la rende possibile, e quello della salute.
Ma, a governare l'incertezza e per il bilanciamento dei valori, abbiamo a disposizione – diversamente da altri sistemi – una risorsa, forse insostituibile, rappresentata dalla concertazione sociale : si pensi al ruolo che ha avuto il Protocollo condiviso da governo e parti sociali sulle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro, ai fini della ripresa delle attività produttive. Politiche collaborative e concertative sono in effetti necessarie per governare la fase di transizione, di incerta durata, verso la “nuova” normalità.