Testo integrale con note e bibliografia
E' sempre più complicato pensare il perseguimento dell'obiettivo dell'autorealizzazione del soggetto in tempi di reificazione “piena” della forza lavoro umana: questo è il presupposto che muove la ricerca di André Gorz, di uno studioso che ha avuto il merito di analizzare con grande acume critico le trasformazioni della cosiddetta società “industriale” (e della sua cultura) a partire dagli anni '70 del secolo scorso. Vorrei appunto iniziare questo mio contributo ricordando una sua intervista alla rivista tedesca “Blätter für deutsche und internationale Politik”, del 2001, recentemente tradotta in italiano con il titolo Addio al lavoro: in effetti il titolo originale dell'intervista, pubblicata sul n.11 del 2007 della rivista in questione, è particolarmente incisivo nel momento in cui si presenta come una sorta di invito a pensare una “civilizzazione del mondo” in termini completamente diversi da quelli abituali (Eine ganz andere Weltzivilisation denken) .
Che cosa colpisce immediatamente del contenuto di queste pagine? Gorz sottolinea alcune caratteristiche del lavoro salariato che appare sempre più discontinuo (oggi si direbbe “precario”) rispetto alla stabilità relativa propria del modello/quadro del fordismo. Avverte che ciò può portare ad un venir meno di regole contrattuali e all'indebolirsi di quei progetti di esistenza che contavano appunto sulla continuità di espressione delle capacità lavorative per conferire senso, identità certa, appartenenze solide all'esistere individuale. Nei limiti di una intervista, che richiede un linguaggio “secco”, il più possibile tagliente e al limite dell'aforistico, per così dire, Gorz mette in evidenza quelle crepe della costruzione sociale complessiva, quanto mai evidenti nella congiuntura odierna, che la restituiscono non più nel suo essere fondata sul lavoro salariato. L'apertura della sua riflessione di carattere diagnostico è anzi ancor più netta e la descrizione presenta colori forti, particolarmente adatti a rappresentare delle disomogeneità che non possono che colpire l'interlocutore (e noi lettori): “A cadere a pezzi è la società basata sul lavoro salariato; a estinguersi è il contratto sociale di tipo socialdemocratico o cristiano-sociale, che credeva di addomesticare il capitalismo e di poter conciliare lavoro e capitale. Dappertutto assistiamo allo smantellamento dello stato sociale, dei contratti di lavoro, del diritto di lavoro, alla scomparsa di condizioni lavorative regolamentate e di posti di lavoro garantiti. Ovunque dilagano a vista d'occhio rapporti di lavoro precari, flessibilità, mobilità, individualismo. Tutto si sviluppa in direzione di una 'società di mercato', come la chiamava Polanyi, che vi scorgeva una non-società. Il lavoro, che oggi viene ancora concepito come lavoro retribuito – a cui già Marx contrapponeva l''attività individuale' o l''attività autonoma' – , cessa di essere il terreno su cui è possibile costruire la propria vita e i propri progetti futuri” .
La fenomenologia è dunque esplicita e rivolta a segnalare una perdita sempre più marcata di centralità del lavoro salariato, con il conseguente effetto di una impossibilità di fatto ad assegnare ad esso il compito di formare “identità, senso della vita, appartenenza”, tutto quello che qualificherebbe socialmente l'esistenza e che va riformulato allora in altri ambiti di attività, contraddistinti da un maggiore controllo sui tempi a disposizione, propri cioè di situazioni e di pratiche non riferibili dunque direttamente al lavoro salariato. Di questa diagnosi, mi pare opportuno segnalare alcuni elementi, anche d'indubbia problematicità, particolarmente critici. Alla centralità del lavoro salariato si sostituisce progressivamente una discontinuità dello stesso, con le negatività allora emergenti e segnalate, ma questa stessa discontinuità può porsi come la condizione per articolare diversamente la propria vita (il proprio “quotidiano”, mi verrebbe da dire, ricordando l'influenza delle tradizioni di ricerca “e”, insieme, di critica della/sulla vita quotidiana, così rilevanti soprattutto in Francia attorno alla metà del secolo scorso), per arricchirla di piani, relazioni, cambiamenti. Ma per realizzare tutto questo è per Gorz indispensabile garantire un reddito di base calibrato sugli spazi intermedi tra le attività di lavoro discontinuo: è il “frattempo” a balzare qui in primo piano, ad avanzare delle pretese di primazia nel complesso delle vicende umane, a spingere per una riformulazione di spazi politici più avanzati, per lo sviluppo di politiche maggiormente favorevoli.
Molti sono i punti di riferimento di un tale approccio e ancora fondamentale appare il Marx dei Grundrisse, soprattutto di quelle pagine nelle quali la legge del valore non viene ritenuta più valida, il che implica riconoscere, per Gorz, il fatto che sarà sempre più complicato, “praticamente impossibile”, individuare quando inizia e finisce il lavoro e cosa propriamente gli appartiene. Già si delinea su tale base l'immagine del “fisso” vivente, di una forza-lavoro caratterizzata dall'acquisizione continua di saperi, conoscenze, capacità comunicative/conversazionali e altro ancora, di tutto quello che in definitiva contribuisce ad aumentare la produttività del lavoro “diretto” e che dà modo a molti di impiegare la formula del “capitale umano”. E' in questo senso che si sviluppa una riflessione, che a me appare particolarmente fertile, sulla differenza tra la formazione (strettamente “professionale” e appunto uni-forme) e l'istruzione, laddove quest'ultima viene indicata in ciò che supporta/sostiene la capacità umana di dispiegare talenti, sensibilità, fantasie, creatività, e che entra, in tali modalità e prendendo sempre più tempo, nel movimento complessivo della produzione “diretta”: da qui la rilevazione pure del carattere “grottesco”, per non dire altro, della riproposizione della retribuzione riferita soltanto al lavoro “diretto” impiegato nella produzione determinata invece di allargarla alla totalità dell'agire umano (comprendendo anche la stessa istruzione propriamente “scolastica”). “Diritto all'istruzione illimitata”, come rivendicavano gli studenti negli anni '90, che implica per Gorz la possibilità concreta di pensare la società non più con la qualifica del “lavoro”, bensì sotto veste di insieme di “attività molteplici”, le quali presuppongono l'erogazione di un reddito senza condizioni, al di là della presenza o meno di prestazioni di quantità date di lavoro “diretto”. E' quindi il reddito di base senza condizioni che si presenta, in tale ottica, andando al di là dell'idea, sostenuta in precedenza dallo stesso Gorz e da molti altri studiosi, di legare il diritto al reddito al diritto al lavoro e di conseguenza, come sottolinea l'intervistatore tedesco, anche al dovere di accettarlo. In breve: i motivi che spingono a proporre un reddito di base soddisfacente e non dipendente da una certa – quantitativamente – prestazione di lavoro sono quelli della impossibilità di misurare il lavoro “in unità temporali” o di distribuirlo in modo rigidamente “schematico”, a cui si affianca la rilevazione dell'importanza crescente di un tempo, all'interno della nostra società, non qualificabile come immediatamente produttivo, in senso tradizionale. A ciò va aggiunta anche la presa in considerazione, da parte politica, di stabilire infine un reddito di base “condizionato”, già di fatto presente in alcune nazioni, a partire dalla constatazione del carattere sempre più discontinuo dei rapporti occupazionali e della diminuzione dei posti di lavoro retribuito, collegando il tutto a servizi di volontariato, di cura, di assistenza sociale ecc. da assumere come condizione essenziale per l'erogazione del reddito di base. Su quest'ultimo punto, Gorz è particolarmente critico ed è importante sottolinearlo perché è qui che si può vedere meglio la differenza tra il reddito di base condizionato e quello incondizionato: “Se devono continuare a esserci genuine iniziative civiche di sostegno, di cura, di maternità su base volontaria e di comune utilità, il reddito di base deve valere come condizione per la volontarietà, e non viceversa. Dev'essere quindi incondizionato e legato alla creazione di istituzioni pubbliche sul territorio che garantiscano e incoraggino la collaborazione, la reciprocità e le diverse attività individuali e collettive. Dobbiamo guardare al reddito di base come a un presupposto che permetta uno sviluppo illimitato di attività che sono valide in sé. Da esse dipendono in ultima istanza il senso della vita e il dispiegamento delle relazioni umane. Il reddito di base incondizionato sottrae queste attività sia alla loro riduzione a professione sia alla loro monetizzazione, per non parlare dei controlli normalizzatori delle burocrazie dello stato sociale” .
L'altro motivo essenziale è quello – reso evidente, aggiungo, dalla grande crisi iniziata nel 2007 – della lievitazione speculativa di denaro, del sistema speculativo di moltiplicazione del denaro, che è stata fatta valere come dominante del sistemo economico. Prima della crisi e della presa d'atto delle fragilità inequivocabili di quel sistema, circolava l'idea che si dovesse appunto ritagliare una quota consistente di denaro così “moltiplicato” proprio per finanziare il reddito di base indipendente da attività lavorative determinate. Oggi è più appropriato individuare altre e importanti fonti di possibile finanziamento, anche a partire dallo sviluppo imponente dell'economia dei big data, per fornire un esempio, ma certamente vale ancora per tutto questo l'idea gorziana di prendere di petto quei principi del postfordismo che hanno prodotto, al di là della stessa sfera economica, delle originali condizioni sociali e culturali che non esprimono al momento fattori di miglioramento reale della vita in generale, dell'esistenza individuale e collettiva. Anzi, è vero proprio il contrario ed è da questa constatazione che deriva la domanda, vista la debolezza della politica istituzionale e dei suoi costrutti, su quali possano essere i punti d'avvio di una politica differente, di “riformismo radicale”, per impiegare una formula prossima al senso dell'intero discorso formulato da Gorz. Da dove ripartire con il progetto dell'autonomia e della riflessività, in un periodo storico di cambiamenti profondi? Il tono della domanda è quasi-“kantiano” e non si deve dimenticare la ricerca dello studioso viennese sulla “morale della storia”, sul tema dell'alienazione in una direzione segnata negli anni '50 dal rapporto con Jean-Paul Sartre, e la risposta, ovviamente consapevole della sua parzialità, non può che rimandare a tutte quelle esperienze che possono dare corpo ad una politica effettivamente “creativa”. Si legge allora nelle pagine conclusive di Addio al lavoro un passo di grande respiro critico, che vale pure come testimonianza di un impegno civico mai venuto meno, lucidamente aperto ad una speranza rinnovata di cambiamento reale veicolata dalla richiesta di fissare politicamente alcuni obiettivi intermedi di risposta ai bisogni e ai compiti più urgenti della società presente: “Quel che si sviluppa sono i movimenti sociali, le iniziative civiche, le decine di migliaia di gruppi di mutuo soccorso, migliaia di raggruppamenti che si uniscono a livello sovranazionale, contestano l'autorità, la legittimità, la competenza e la politica degli esperti ufficiali, esercitano una pressione politica che risulta talora impossibile da arginare anche da parte dei trust più grandi e degli Stati più potenti. Tutto questo non basta a impedire il crollo di intere società né la nascita di nuove e vecchie forme di barbarie, di schiavitù, di guerre di religione, di 'pulizia etnica', e via dicendo. Non si arriva a niente se non si riesce a vedere che, dietro alle tendenze contraddittorie degli attuali sviluppi, ci sono delle possibilità latenti di costruire un'altra civiltà a livello mondiale” .
Certamente quello che muove la ricerca di Gorz è una sensibilità teorica e politica che riaffiora anche in posizioni più recenti che ripropongono l'idea del reddito di base incondizionato e universale come misura indispensabile e senz'altro intimamente conflittuale per arrivare a modificare radicalmente le modalità di utilizzo delle risorse generali. In tale ottica si fa urgente una ripresa di iniziativa politica in grado di realizzare, come è stato opportunamente scritto, “alcune condizioni imprescindibili, spesso ignorate nel dibattito, tra le quali: forte capacità redistributiva dello Stato, elevato livello di conflittualità capitale-lavoro, cambiamento dello stile di consumo, regolazione dei movimenti dei capitali, non applicabili al sistema economico attuale. […] la base economico-politica su cui attuare pienamente il reddito è quella che trova la sua ragion d'essere nello sforzo di superare il sistema attuale provando a tracciare una transizione verso un modello in cui la proprietà e il controllo sulla produzione – e quindi la possibilità di intervenire collettivamente sulla sua distribuzione – diventino appannaggio della maggioranza della popolazione” .
Programma radicale, indubbiamente, ma al di là della sua attuabilità, comunque auspicabile e in un certo senso anche improcrastinabile, quello che a me preme, riprendendo una sollecitazione di Giuseppe Allegri , è sottolineare come l'idea del reddito di base incondizionato e universale e quella di un reddito “garantito”, considerata come espressione avanzata di una “società libera” che richiede fattori di riequilibrio, di maggiore giustizia sociale, nel mondo del “libero mercato”, siano da considerarsi in ogni caso come manifestazioni di una esigenza di ritornare a porre la questione decisiva dell'individuazione di misure di giustizia sociale, sia nella prospettiva di una società capitalistica capace di un più di equità, sia nella direzione di un'altra civiltà, come scriveva a suo tempo Gorz, e quindi di un'economia post-capitalistica. A ciò aggiungerei un richiamo al compito di riprendere in mano il filo delle relazioni sociali, sempre nel senso dell'obiettivo del “vivere libero” di Machiavelli, in un momento come quello attuale che vede ancor più nettamente profilarsi la centralità del problema del come vivere: problematica che qui mi interessa evidenziare proprio per la contingenza che pressa in modo particolare i movimenti del quotidiano, il suo manifestarsi anche in ciò che caratterizza il nostro sentire in generale e dunque pure il conoscere e il nostro agire. Si tratta in effetti di ritornare a pensare ancora insieme vita e mondo, anche e soprattutto in quelle trasformazioni radicali del quotidiano che hanno subito negli ultimi tempi una accelerazione notevole, rispetto al venir progressivamente meno della distinzione al suo interno di tempo di lavoro e di non-lavoro: tale accelerazione, che fonde (e confonde in ogni caso) distinzioni considerate di fatto come lineari e consolidate, restituisce un quotidiano, nella sua veste percepita tradizionalmente come “domestica”, sempre più disegnato, per così dire, dalle tecnologie del digitale predisposte a favorire la messa a valore di gran parte dei suoi caratteri, dei suoi contenuti. Un altro aspetto dunque della nuova “grande trasformazione” in atto, dell'affermazione piena del digitale e del processo complessivo dell'automazione, che occorre orientare nel rispetto dei valori della cooperazione, della collaborazione e della condivisione, di ciò può permettere una critica rinnovata e più incisiva delle politiche date e un riformulare diversamente i loro contenuti e in modo particolare la loro trasmissione di bisogni concreti, “veri”.