Testo integrale con note e bibliografia
1. Premessa
Permettetemi anzitutto di mettere le mani avanti: non sono in grado di rispondere agli interrogativi sul reale peso esercitato dalla dialettica tra posizioni contrattualistiche e a-contrattualistiche sulla dottrina, sulla giurisprudenza, sul legislatore. Per rispondere sarebbe necessario procedere a serie e dettagliate analisi empiriche, che sono del tutto al di fuori della mia portata.
Piuttosto ho scelto di pormi un’altra semplice domanda: ma quale interesse può avere oggi per i cultori teorici e pratici del diritto del lavoro una riflessione che affonda le sue radici nel passato remoto della nostra disciplina? Le questioni alle quali ci è stato cortesemente chiesto di dare risposta sembrano infatti volerci riportare molto indietro nel tempo, lontano dalla contingenza attuale e lontanissimo dalla temperie che anche il diritto del lavoro sta vivendo nella sconvolgente stagione della pandemia.
La risposta non è semplice: tutto quello che mi è parso di poter fare è prendere in considerazione, fatta qualche necessaria premessa, alcune questioni presenti anche nel contesto attuale del diritto del lavoro, per valutare se, e in che misura, l’approccio dei giudici e dello stesso legislatore rechi traccia di quanto della dialettica tra posizioni contrattualistiche e a-contrattualistiche rimane presente nella dottrina giuslavoristica.
2. Teorie contrattualistiche, anti-contrattualistiche, a-contrattualistiche
Per chiarire quali siano i punti di riferimento del mio discorso, mi pare necessario partire da un sintetico riepilogo delle teorie contrattualistiche, anti-contrattualistiche, a-contrattualistiche.
Nella opinione dominante tra i giuslavoristi il rapporto di lavoro ha origine contrattuale: «il contratto, come fonte del rapporto» – ¬scrive Mazzotta (2019, pp. 317 ss.) – «è il contenitore che meglio si presta a fornire la misura delle reciproche obbligazioni ed a riflettere l’immagine di uomini liberi che trovano, attraverso il reciproco impegno, il punto di equilibrio per il loro conflitto di interessi sostanziali». La frase che ho citato riassume la concezione “contrattualistica”, che vede nel contratto stipulato tra un datore di lavoro e un lavoratore la fonte (momento genetico) del rapporto (fase funzionale o esecutiva) che si svolgerà tra di essi. Concezione largamente diffusa ma non egemone. Ad essa si contrappone la concezione istituzionalistica, la quale invece «tende a staccare il rapporto di lavoro dalla tradizionale fonte contrattuale e a ricostruirlo come rapporto comunitario, collegato all’ingresso del lavoratore in una comunità di lavoro, normalmente costituita per uno scopo di impresa» (Mengoni, 2004, p. 10).
La contrapposizione è innegabile, essendo tali concezioni basate su presupposti incompatibili: il conflitto di interessi nel primo caso, la comunità (interesse oggettivo dell’impresa) nel secondo. Ma di dialettica non è il caso di parlare : la teoria istituzionalistica non ha avuto successo nella nostra cultura giuridica . Accantonati come scorie corporative i riferimenti contenuti negli artt. 2088-2092 e nell’art. 2104 c.c., l’interesse dell’impresa è stato letto dalla stragrande maggioranza degli interpreti come interesse dell’imprenditore . L’oblio ha coperto la teoria istituzionalistica; qualche traccia dell’idea della comunità d’impresa trova tuttavia la strada di rientrare aprendosi un varco nella teoria contrattualistica, peraltro molto articolata al suo interno: ma di questo dirò oltre.
Ancora una contrapposizione, ma non una dialettica, si può registrare tra la teoria contrattualistica e la teoria secondo la quale all’origine del rapporto di lavoro sta il solo fatto dell’inserimento del lavoratore nell’organizzazione dell’impresa, senza che sia necessaria la mediazione del contratto. Questa teoria fa leva soprattutto sull’art. 2126 c.c., ma l’argomento è fortemente (e giustamente) contestato dalla dottrina dominante .
Una ulteriore contrapposizione si profila tra la dominante teoria contrattualistica e la teoria che possiamo denominare a-contrattualistica, dove la svalutazione del contratto si inserisce in un più ampio discorso sull’autonomia e la specialità del diritto del lavoro . Questa teoria non contesta che il contratto possa rilevare come fonte del rapporto di lavoro e che incida altresì sulla regolamentazione del rapporto individuale , ma afferma che la fattispecie fondamentale del diritto del lavoro non è il contratto, ma il rapporto di lavoro subordinato: «una figura nuova e diversa dalle categorie civilistiche dei diritti soggettivi»; «un contesto di diritti e obblighi, intesi a soddisfare, con la preminente tutela della personalità del lavoratore, la funzione della messa a disposizione di altri delle energie lavorative» (Scognamiglio 1999, p. 1173).
La teoria a-contrattualistica ha avuto un seguito limitato, perché l’opinione dominante non ne condivide la premessa concezione della subordinazione (qualificata “paleocapitalistica” da Mengoni 2004) come soggezione economico sociale di una parte (quella che dispone solo delle proprie energie lavorative) rispetto all’altra, dotata dei mezzi di produzione. Concezione lontana da quella nozione di “subordinazione tecnico-funzionale” che, a partire da Barassi attraverso la rilettura fornitane da Mengoni, è condivisa dalla dominante opinione contrattualistica.
Rilevare lo scarso seguito della teoria a-contrattualistica non chiude il discorso, perché se è corretto rilevare il successo della teoria contrattualistica, non si può trascurare che questa teoria, tutt’altro che granitica al proprio interno, coltiva rapporti dialettici con la teoria a-contrattualistica. Infatti, pur escludendo l’opinione maggioritaria che il diritto positivo dia rilevanza qualificatoria allo stato sociale del prestatore di lavoro, e pur assegnando al contratto tipico di lavoro subordinato, e non al rapporto di lavoro, il ruolo di fattispecie fondamentale del diritto del lavoro (intendendo qui per fattispecie il presupposto condizionante delle norme legali e contrattuali che regolano il lavoro subordinato), la dialettica nasce dalla circostanza che, all’interno della teoria contrattualistica, le opinioni su quanto del rapporto di lavoro sia riconducibile al contratto e quanto invece si collochi al di fuori di esso restano tutt’altro che univoche, anche in ragione della difficoltà di spiegare la soggezione di una parte al potere dell’altra parte nel quadro e nella logica di un contratto di scambio.
La sommarietà di questi riferimenti preliminari mi impedisce di entrare nel merito di una discussione tra contrattualisti “puri” e (per usare la terminologia di Marazza 2001) neo-istituzionalisti di prima e seconda generazione che impegna da decenni la dottrina giuslavoristica. Merita tuttavia fare cenno almeno alla prima generazione, alla quale appartiene la costruzione proposta da Federico Mancini in una celebre monografia del 1957 sulla responsabilità contrattuale del lavoratore ; costruzione poi ripresa, con argomentazioni e approdi in parte diversi da altri (ma per brevità dovrò omettere di riferirne qui) . Secondo questa tesi intermedia tra teorie contrattualistica e a-contrattualistica, il rapporto di lavoro, pur mantenendo la propria fonte contrattuale, si arricchisce di contenuti che non si spiegano nella logica dello scambio, ma sono il riflesso dell’organizzazione nella quale, mediante il contratto, il lavoratore è stato inserito, e nell’ambito della quale il datore di lavoro utilizza la prestazione di lavoro facendo uso di poteri propri esterni al contratto. La subordinazione è collocata nel rapporto, quale effetto dell’obbligazione dedotta in contratto.
Si costruisce così, replicano i contrattualisti “puri”, una nozione di subordinazione che va al di là dell’attività lavorativa promessa, e dunque dell’obbligazione di lavoro assunta dal lavoratore mediante il contratto: la subordinazione, invece, è «un modo di essere strumentalmente ordinato all’adempimento» (Mengoni 2004). Ma di nodi da sciogliere ne restano ancora parecchi. Scontato che il risultato finale (pregnante, lo chiama Mancini) organizzativo e produttivo di cui il datore di lavoro si assume il rischio resta fuori dal contratto di scambio, il risultato (o l’utilità) della prestazione lavorativa entra nel debito del lavoratore in misura diversa a seconda che l’organizzazione entri o meno nella causa del contratto .
Le critiche mosse da più parti alle tesi che portano l’organizzazione nella causa del contratto non possono essere riepilogate in questa sede; qui mi limito ad affermare che appare preferibile l’opinione che riporta la causa del contratto allo scambio tra un un’obbligazione di fare e un’obbligazione di dare (Carabelli 2004). Poiché la prestazione di fare è conno¬tata strutturalmente dalla subordinazione (vale a dire dalla soggezione del lavoratore al potere diret¬tivo del datore di lavoro), il potere direttivo (o potere di coordinare la prestazione di lavoro) è inter-no al vincolo contrattuale, essendo riconosciuto dall’ordinamento l’interesse del datore di lavoro di conformare la prestazione lavorativa, finalizzandola al raggiungimento del risultato organizzativo e produttivo atteso (di cui si assume il rischio) .
Partendo da questa premessa, si può dire che l’organizzazione del lavoro è estranea alla causa del contratto di lavoro, ma occorre aggiungere che non è invece estranea al rapporto di lavoro: nel senso che il contratto (che è fonte del rapporto) immette il lavoratore nell’organizzazione del lavoro nella quale avrà svolgimento il rapporto. La considerazione dell’organizzazione del lavoro come “dato” preesistente al contratto non mette in discussione il “fondamento contrattuale” del potere direttivo: se l’etero-direzione della prestazione lavorativa è (stando alla definizione corrente in giurisprudenza) l’essenza stessa della subordinazione che qualifica il contratto, l’assogget¬tamento al potere di direzione entra nello scambio contrattuale, perché il lavoro scambiato contro salario è lavoro “subordinato”, che sarà prestato cioè, durante lo svolgimento del rapporto, in condizioni di “dipendenza” da un contraente dotato di potere di direzione, dove la dipendenza esprime un modo di prestare lavoro (esautorazione e alienità del lavoro) assunto dall’ordinamento come ratio dell’intervento normativo a favore di una categoria di soggetti (i lavoratori subordinati, appunto) (Mazzotta 2019, p. 65).
3. La giurisprudenza e la questione del nomen juris
Pure in presenza di oscillazioni e qualche contraddizione, a me pare indubbio che l’approccio svalutativo del momento genetico (il contratto) e la valorizzazione del rapporto (fase dell’esecuzione del contratto) non comportino l’abbandono, da parte dei giudici, del solido ancoraggio alla dominante teoria contrattualistica (nel suo nucleo essenziale: il fondamento contrattuale del rapporto di lavoro).
Un esempio illuminante mi pare possa essere considerata la giurisprudenza sulla qualificazione del rapporto di lavoro a prescindere dal nomen juris adottato dalle parti : una giurisprudenza tanto nota da esimere chi scrivere dal darne conto. L’iter argomentativo ha, come punto indefettibile di partenza, la regola dell’indisponibilità del tipo contrattuale sancita dalla Corte Costituzionale (n. 121/1993, n. 115/1994) , in base alla quale, allorquando il contenuto concreto del rapporto e le sue effettive modalità di svolgimento – eventualmente anche in contrasto con le pattuizioni stipulate e con il nomen juris enunciato – siano quelli propri del rapporto di lavoro subordinato, il rapporto, agli effetti della disciplina ad esso applicabile, dovrà essere qualificato come di lavoro subordinato. L’accordo resta all’origine del rapporto, ma alle parti non è consentito scegliere il tipo contrattuale nel senso di escludere l’applicazione del diritto del lavoro laddove le modalità di esecuzione presentino i tratti tipici della subordinazione.
La giurisprudenza – si può essere d’accordo con Persiani – è contrattualista: dell’iter logico della qualificazione del rapporto fa parte l’interpretazione del contratto, e di conseguenza la considerazione della volontà manifestata dalle parti nel momento in cui lo hanno stipulato. Ma sulla rilevanza della volontà delle parti gli orientamenti giurisprudenziali divergono. Se da un lato i giudici ritengono che il concreto comportamento delle parti nello svolgimento del rapporto sia da ritenersi indice decisivo della effettiva volontà negoziale circa l’assetto dei reciproci interessi, a prescindere dal nomen juris dato dalle parti al contratto, d’altro lato gli stessi giudici riconoscono che la dichiarazione di volontà delle parti (e l’affidamento reciproco che ne deriva) in ordine alla scelta dello schema maggiormente idoneo a soddisfare i rispettivi interessi debba essere tenuta in conto anche nella qualificazione del rapporto da parte del giudice, almeno nei casi in cui le modalità esecutive non siano incompatibili con l’espletamento in forma autonoma della prestazione di lavoro.
Al di là delle oscillazioni sulla rilevanza della volontà delle parti, si può convenire che, nell’orientamento della giurisprudenza, è l’esecuzione del contratto, piuttosto che la dichiarazione delle parti, ciò che consente al giudice di risalire alla premessa programmatica, chiarendo quale sia la relazione giuridica che ne costituisce il presupposto (Mazzotta 2019) ; insomma, grazie alla regola dell’indisponibilità del tipo contrattuale, la qualificazione in base alla natura obiettiva del rapporto prevale sull’interpretazione (del voluto dalle parti) ogniqualvolta «l’assetto degli interessi che si realizza nell’attuazione del rapporto configura la subordinazione» (D’Antona 1995, p. 204).
Il rapporto tra interpretazione e qualificazione diviene meno chiaro quando si esce al di fuori della classica dicotomia lavoro subordinato/lavoro autonomo e la prestazione di lavoro è ricondotta dalle parti a forme contrattuali non standard, flessibili e precarie, di lavoro subordinato.
Si tratta di casi nei quali il giudice deve fare i conti con le scelte del legislatore che, a partire dal d.lgs. n. 276/2003 e succ. mod., ha messo a disposizione delle parti forme contrattuali differenziate (rispetto al contratto di lavoro subordinato standard) «fondate su ragioni del tutto esterne alla struttura dello scambio tra i contraenti» (Topo 2020), spostando così il focus dal rapporto (che ha le caratteristiche del rapporto di lavoro subordinato) al nomen iuris del contratto, ormai articolato in un ventaglio di ipotesi diverse, disponibili nei limiti e nel rispetto dei requisiti fissati dalla legge. Si prenda, ad esempio, il caso deciso dalla S.C. con sentenza 12 dicembre 2019, n. 32702 : un dipendente assunto con contratto di lavoro accessorio, una volta superato il limite allora previsto per i voucher, aveva continuato a collaborare nella stessa impresa, svolgendo le stesse mansioni, sulla base di un contratto di apprendistato professionalizzante. La S.C., rilevata la sostanziale continuità e uniformità della prestazione lavorativa, ritiene che non vi fossero ragioni effettive per fare ricorso a due diversi tipi contrattuali in relazione ad un rapporto di lavoro solo formalmente (e a tutto vantaggio del datore di lavoro) precario, e conclude per la riconduzione del rapporto, sin dall’inizio, al contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Il giudice, che guarda alla sostanza di un rapporto caratterizzato dalla continuità tipica del contratto a tempo indeterminato, indubbiamente si fa carico della necessità di garantire protezione al lavoratore, ma così facendo va oltre il tradizionale orientamento giurisprudenziale sul nomen juris, pur sempre rispettoso del fondamento contrattuale del rapporto. Ignorando la volontà delle parti di fare ricorso alla successione tra contratti non standard, o presumendone l’intento fraudolento, il giudice compie una qualificazione del rapporto che non ha alla base il principio dell’indisponibilità del tipo contrattuale, perché il legislatore quei tipi contrattuali li ha resi disponibili senza incorrere nella violazione della regola sancita dalla Corte costituzionale. Si avverte, nel fondo, l’eco delle lungimiranti parole di Scognamiglio (riecheggiate da D’Antona 1995). Dalla sostanza del rapporto il giudice fa emergere valori non riconducibili alla dimensione giuridica del contratto: così la protezione del lavoratore derivante dalla sostanziale continuità del rapporto prevale sulla volontà di frammentare il rapporto mediante la successione di contratti precari.
4. Collaborazioni etero-organizzate. Norme di fattispecie o di disciplina?
Non aggiungerò altro inchiostro al fiume che già scorre sulle collaborazioni etero-organizzate (art. 2 d.lgs. n. 81/2015 e succ. mod.). Ne parlerò solo per mettere in evidenza come dottrina e giurisprudenza si siano trovate implicate nella dialettica tra teorie contrattualistiche e a-contrattualistiche quando a sollecitarle è stata la necessità di risolvere un problema concreto. Salto tutte le premesse, dando per nota la disciplina delle collaborazioni etero-organizzate, ed evito altresì di addentrarmi nell’ampio dibattito che si è sviluppato in dottrina intorno all’interpretazione di queste disposizioni, nonché alle sofisticate distinzioni tra etero-direzione e etero-organizzazione. Mi soffermo solo sulla sentenza Cass. 24 gennaio 2020, n. 1663, nei punti che mi pare abbiano rilievo nell’economia di questo intervento (ancora una volta mi esimo dal riassumere il contenuto della sentenza, largamente noto e oggetto di molteplici commenti).
Dice bene la S.C. che l’art. 2 d.lgs. n. 81/2015 (nella versione originaria, ma l’osservazione vale anche, e forse a maggior ragione, per il testo modificato dal d.l. n. 101/2019 conv. in l. n. 128/2019) interviene nell’area delle collaborazioni coordinate e continuative (co.co.co.) e dunque del lavoro autonomo, sostituendo alle strategie antielusive del passato (il riferimento è essenzialmente al regime delle presunzioni e riqualificazioni della abrogata disciplina del lavoro a progetto) una strategia che la Corte chiama “rimediale”. Il rimedio consiste nella imposizione di «una protezione equivalente» e, quindi, nell’applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato» ai rapporti di lavoro di carattere (esclusivamente e ora prevalentemente) personale e continuativo, le cui modalità di esecuzione presentano le caratteristiche della etero-organizzazione della prestazione dedotta in contratto (§26). La Corte vuol dire con ciò che il legislatore non definisce una nuova fattispecie di co.co.co. (negando che l’art. 2 individui un tertium genus intermedio tra subordinazione e autonomia), ma detta una disciplina degli effetti, «esonerando da ogni ulteriore indagine il giudice che ravvisi la concorrenza di tali elementi nella fattispecie concreta e senza che questi possa trarre, nell’apprezzamento di essi, un diverso convincimento nel giudizio qualificatorio di sintesi» (§24).
Come è chiaro (e la Corte sul punto è esplicita) la costruzione ruota intorno alla distinzione tra “norma di fattispecie” e “norma di disciplina”. La distinzione è stata proposta dalla dottrina per evitare che la previsione delle eccezioni all’applicazione della disciplina del lavoro subordinato, di cui al comma 2 dell’art. 2, andasse a scontrarsi con l’ostacolo della indisponibilità del tipo contrattuale; scontro non evitabile ove l’art 2 fosse interpretato come norma che definisce una fattispecie (di lavoro subordinato).
A parte che, come giustamente rilevato da Romei (2020, p. 92), dal punto di vista giuridico l’anzidetta distinzione non regge, perché «ogni disciplina presuppone una fattispecie, dal momento che la fattispecie [...] altro non è se non un insieme di fatti condizionante l’applicazione di una o più norme», scegliendo di interpretare l’art. 2 come norma di disciplina e non di fattispecie, la Corte incorre – a mio avviso – in una incoerenza, nel momento in cui dà per scontata la qualificazione delle collaborazioni di cui all’art. 2 come prestazioni di lavoro autonomo. Tale qualificazione prende corpo: quando la Corte afferma (§32) che la etero-organizzazione è un elemento esterno rispetto alla struttura del contratto di lavoro autonomo (mentre l’etero-direzione è un elemento interno alla struttura del contratto di lavoro subordinato); quando ipotizza la residua possibilità per il giudice di qualificare il rapporto come di lavoro subordinato; quando (ma questa affermazione si tiene insieme alla precedente) afferma che all’applicazione integrale del diritto del lavoro alle collaborazioni etero-organizzate possono sottrarsi le “norme ontologicamente incompatibili” (perché tecnicamente non estensibili al lavoro autonomo, si direbbe) .
Se come pensano molti (cfr., ad es., M.T. Carinci 2020), e come evidentemente pensa la S.C., l’art. 2 detta una disciplina applicabile a prestazioni (preventivamente o pregiudizialmente qualificate come di lavoro autonomo), ha ragione Ichino (2020b): il legislatore ha individuato una nuova fattispecie (ritagliata nel corpo di quella più generale delle co.co.co.), al fine di riservare ad essa una diversa disciplina, senza che ciò comporti né la creazione del tertium genus intermedio, né la manipolazione della fattispecie (contratto di lavoro subordinato) di cui all’art. 2094 c.c.
Di nuova fattispecie non è più il caso di parlare seguendo invece la lettura, di segno diametralmente opposto, proposta da Ferraro (2020): «nel caso di specie» ¬¬– afferma Ferraro ¬– ¬ la fattispecie di riferimento è la stessa che è sottesa alla disciplina di regolazione del rapporto di lavoro subordinato nella sua complessa e travagliata evoluzione. Fattispecie di riferimento, o macro categoria concettuale, che semmai subisce una torsione o una dilatazione, che si desume “all’inverso” dal regime giuridico ad essa applicabile», interpretando il potere direttivo in maniera più elastica, al fine di comprendere situazioni in cui si presenta con tratti meno gerarchici e intrusivi. Le conclusioni dell’A. passano attraverso la critica (di cui apprezzo chiarezza e semplicità) delle distinzioni tra etero-organizzazione ed etero-direzione proposte dalla dottrina; ciò che rileva – afferma – «è l’unilateralità del potere e la sua legittimazione nell’ambito del contratto di lavoro quale movente determinante dello statuto protettivo del lavoro dipendente»; il recupero della possibile sottrazione di alcune norme all’applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato non è in contraddizione con le premesse, e tiene invece conto dello spazio che lo stesso legislatore assegna alla contrattazione collettiva (art. 2, comma 2, lett. a) per adattare la disciplina a rapporti che possono presentare tratti di specialità, pur mantenendo ferma l’equivalenza della protezione.
Che l’art. 2 si presti a letture disparate è indubbio, ma è indubbia anche l’esigenza di uscire dalle strettoie dell’alternativa lavoro subordinato/lavoro autonomo, a fronte di una disposizione il cui intento sembra essere proprio quello di prescindere dal nomen juris del contratto. Meglio allora lasciare da parte la distinzione di dubbia utilità tra norma di fattispecie e norma di disciplina, e dare spazio ad una diversa interpretazione dell’art. 2 (incluso il comma 2, lett. a), che consenta di concentrare il focus sull’approccio a-contrattualistico del legislatore. Premesso che all’origine (momento genetico) di una collaborazione etero-organizzata è ipotizzabile la stipulazione di un contratto di lavoro autonomo, della specie co.co.co, l’art. 2 prende in considerazione non un contratto, ma un rapporto di lavoro, che nei fatti presenti le caratteristiche della etero-organizzazione unilateralmente imposta dal “committente”: una situazione (nel senso della posizione del prestatore di lavoro) che il legislatore giudica nella sostanza tanto equivalente alla dipendenza del lavoratore subordinato, da ritenere estensibile ad essa la disciplina del lavoro subordinato. La fattispecie (antecedente della applicazione delle norme in materia di lavoro subordinato) presa in considerazione dal legislatore è il rapporto (momento effettuale) e non il contratto (momento genetico), che resta irrilevante: cosicché il giudice, una volta accertata nel caso concreto la presenza degli elementi della fattispecie (che non differiscono di molto da quelli tipici del lavoro dipendente) applica la disciplina del lavoro subordinato, senza bisogno di ricondurre il rapporto ad un contratto nominato mediante l’ordinaria operazione di qualificazione e riconduzione al corretto nomen juris. Su quella fattispecie, alla quale la legge riconduce l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato, dovrà misurarsi l’intervento normativo della contrattazione collettiva chiamata in causa dall’art. 2, comma 2, lett. a).
5. In fine
L’evidente intento del legislatore di sgombrare con una misura drastica il campo dalle false collaborazioni autonome si realizza con un approccio a-contrattualista, che mi pare in controtendenza non solo rispetto alla moltiplicazione delle forme contrattuali, alla quale ho fatto cenno sopra, ma anche rispetto alla valorizzazione dell’autonomia individuale (del lavoratore), che rimanda alla logica del contratto: uomini liberi che trovano nell’accordo un punto di composizione del loro conflitto di interessi. Un esempio assai interessante è quello del lavoro agile (nella disciplina pre-covid), ma non ho qui lo spazio per occuparmene. Così come non ho lo spazio per approfondire il tema (appena accennato sopra) della incidenza dell’organizzazione sul rapporto di lavoro, attraverso una riflessione sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento, e sulla rilevanza dell’interesse del datore non più come creditore di lavoro (rilevanza dell’adempimento), ma come titolare del potere di disporre dei mezzi di produzione secondo le proprie insindacabili valutazioni. Gli orientamenti (specie più recenti) della giurisprudenza si spiegano non con la valenza a-contrattuale del rapporto di lavoro, ma con una rilettura degli equilibri (o bilanciamento) degli interessi in conflitto e della loro composizione nel contratto. E, parlando di organizzazione, varrebbe la pena di soffermarsi sulle implicazioni del nuovo testo dell’art. 2086 c.c. (su cui cfr. Tullini 2020): ma questo mi porterebbe davvero fuori dal seminato.