> Testo integrale con note e bibliografia
1. Questo anno 2020, non dissimilmente da altri, ci ha portato davvero tante novità. Alcune purtroppo però bruttissime (in primis la pandemia da Covid-19, in fase di recrudescenza), altre belle (non saprei esemplificare in modo così condiviso sul piano collettivo: forse un nuovo senso di comunità o di patriottismo non sovranista), altre ancora perturbanti. Queste ultime non sono né belle né brutte, ma provocano un qualche turbamento relativo ad elementi profondi della propria identità. Il turbamento può essere negativo (specie per chi ama il tran tran quotidiano) oppure positivo (per chi è sempre incuriosito dal cambiamento, quasi “a prescindere). Il “Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile” firmato da Bruno Caruso, Riccardo Del Punta e Tiziano Treu – piombato sui nostri tavoli di studio in piena pandemia (maggio 2020) – è stato per me fonte di turbamento almeno per un paio di ragioni. Stavo appena metabolizzando gli effetti del diritto del lavoro pandemico, cercando di non subirli passivamente, ma convinto che ci aspettasse una lunga guerra di logoramento, in cui impegnarci essenzialmente a tirar fuori, un pezzo alla volta, quanto del nostro armamentario di giuslavoristi fosse riuscito a sopravvivere al nuovo, inatteso e sgradevole, tsunami regolativo . Insomma ero immerso in una logica di difficile conservazione del “buono” rinvenibile nella pur faticosa edificazione di un diritto del lavoro moderno, ma incentrato su principi e valori pensati per comunità attive, dinamiche, persino troppo accelerate nel loro dinamismo, costrette all’improvviso ad arrestarsi dinanzi ad un nemico sconosciuto. Il “Manifesto” è venuto a rompere questo clima di “emergenza”, risvegliandomi bruscamente dalla logica del “primum vivere”. E ricordandomi che il diritto del lavoro, per quanto più volte modernizzato, è ormai proprio come una vecchia bicicletta senza nemmeno il cavalletto: non sta in piedi se non si pedala continuamente per andare avanti. Nel “Manifesto” c’è una mappa completa per riprendere a pedalare, anche velocemente, imboccando la prima strada che sembra portare fuori dalla stagnazione emergenziale, dall’ombra lunga di un asfissiante lockdown, per tornare a fare riforme di lungo respiro, sistematiche, basate su un equilibrato dosaggio di valori, principi, fonti e risorse.
Dopo una prima ricognizione ho perciò apprezzato molto il coraggio e la lungimiranza dei tre autori, tutti amici cari e di lunga data, oltre che affermati Maestri e artefici, ciascuno a modo suo, proprio di quel diritto del lavoro che rischiava di impaludarsi nelle spire del diritto pandemico. Ho superato così il primo senso di turbamento che mi aveva preso inizialmente. Persino la dichiarazione iniziale, dai toni un po’ provocatori, con cui gli autori affermano di non credere affatto che “dopo il Covid nulla sarà come prima”, mi è parsa una campana che suoni a festa: come se finalmente, dopo una settimana di duro lavoro, fosse ormai domenica. Seppure una domenica “normale”: ma era proprio di un normale senso di realtà che sentivo il bisogno, accompagnato da un qualche rassicurante refrain. E gli autori scrivono abbastanza presto (p. 13) “la nostra opinione è che i valori tradizionali del diritto del lavoro non necessit(a)no di uno stravolgimento, bensì di un adattamento e di una modernizzazione che li rendano più adeguati alle condizioni e ai bisogni del tempo che stiamo attraversando. Preservare cambiando: era questo, del resto, l’approccio culturale, oltre che metodologico, di padri fondatori del diritto del lavoro moderno, nonché riformisti di razza, quali Gino Giugni e Otto Kahn-Freund”.
Ad un secondo approfondimento però la mappa delle riforme necessarie – considerate persino urgenti – mi è parsa tutt’altro che rassicurante per vari motivi. I principali sono due. Il primo è quantitativo: nel Manifesto si tracciano i connotati del nuovo diritto del lavoro rivisitandone tutti gli aspetti (mercato del lavoro e contratto di lavoro; tipologie contrattuali ed estensione delle tutele alla luce della digitalizzazione; tempi e luoghi delle prestazioni di lavoro; rapporti con la tutela dell’ambiente; sistema di relazioni industriali; welfare di vecchia e di nuova generazione; sintonia con i nuovi trend demografici; ruolo dello Stato e delle pubbliche amministrazioni; equilibri multiordinamentali con riguardo a Europa e processi di globalizzazione economico-giuridici) e mettendo a dura prova il dominio sulla materia da parte del singolo studioso. Il secondo motivo di inquietudine è qualitativo: così com’è sviluppato, il Manifesto configura un ambizioso programma di politica del diritto, molto utile per qualsiasi confronto sulle linee di trasformazione della materia, ma talmente ampio da trascendere una discussione tra studiosi, pur sempre specialisti di teorie e tecniche giuridiche, e diventare un “Manifesto” essenzialmente di indirizzo politico.
Queste due caratteristiche mi hanno di nuovo sospinto verso il perturbante: infatti mi ha preso un forte senso di “estraneità”, non sentendomi l’interlocutore ideale per la discussione del “Manifesto”. In fondo gli autori aprono un confronto soprattutto con quei soggetti che possono influenzare politiche del diritto dal carattere così ampio e globale, nella prospettiva di elaborare un programma politico che potrebbe interessare un’intera “legislatura” (e oltre), vissuta in sintonia con la maggioranza di governo oppure all’opposizione, poco importa. Insomma un Manifesto politico che non coinvolge direttamente né il giurista studioso né il giurista consigliere del Principe. Piuttosto interessa il giurista che indossi direttamente e, più o meno integralmente, gli abiti del Principe, che non sono certo i miei.
Però poi al Manifesto ho pensato spesso. E quando uno degli autori mi ha invitato ad esprimere un’opinione su una rivista specializzata, non mi sono tirato indietro. Ben sapendo del resto che avrei potuto dire la mia solo da studioso non certo da politico, come tenterò di fare di qui a breve.
MI sembra ora comunque necessario concludere questa premessa, esprimendo il mio parere anche sull’approccio di politica del diritto. Non penso infatti che i giuristi debbano occuparsi solo del diritto che è, o è stato, in vigore, mai frequentando il futuro; né del resto lo hanno mai fatto i giuslavoristi – quelli più capaci e autorevoli, naturalmente – né l’ho mai fatto io, nel mio piccolo, cimentandomi talvolta, insieme ad altri colleghi, persino in proposte di riforme formulate come veri e propri articolati. Penso però che, come per tutte le scienze, i giuristi sono degli specialisti, custodi di un sapere tecnico, che, sebbene non possa essere né autoreferenziale né “isolazionista” (come si dice, condivisibilmente, anche nel Manifesto), esprimono un punto di vista qualificato e autorevole finché si muovono sul terreno delle loro specifiche competenze. Ovviamente nessuno vieta ai giuristi di andare oltre i confini della propria scienza. Però in quell’oltre il loro discorso è come “nudo”, si avvia in mare aperto senza alcuna protezione che non sia il volto, la voce, il carisma, il patrimonio relazionale della persona che in quel determinato momento pronuncia il discorso. Non è facile individuare il confine oltre il quale un giurista diventa un politico (o “un professore prestato alla politica”, come Umberto Romagnoli dice di Giugni). Però non è nemmeno difficile rendersi conto di qual è il perimetro entro cui il ruolo di specialista consente di affacciarsi sullo scenario delle politiche del diritto senza cambiare pelle.
Rispetto al Manifesto ho l’impressione che quel perimetro sia stato se non valicato certo esteso oltre ogni limite. Pur avendo ormai nella mia esperienza letto, elaborato, firmato tanti manifesti di giuristi contenenti anche posizionamenti politici (talora di appoggio, talaltra di contrasto a iniziative politiche), non ricordo infatti, almeno negli ultimi vent’anni, un documento simile, con un tale carattere propositivo, così ampio e articolato, proveniente da uno o più studiosi. In passato qualcuno ha collaborato alla stesura di libri bianchi di notevole ampiezza, ma di matrice governativa (tutti ricordiamo quello di Marco Biagi); oppure abbiamo avuto veri e propri codici del lavoro proposti da studiosi-opinion leader (il codice del lavoro semplificato di Ichino-Tiraboschi del 2014, cui si può contrapporre la Carta dei diritti proposta dalla Cgil l’anno dopo ; il codice dei lavori di Pedrazzoli circa quindici anni prima), con profili però marcatamente tecnici. Non ricordo però un Manifesto che contenesse un indirizzo di programma delle riforme da realizzare, quasi tutte largamente da completare sotto il profilo tecnico-giuridico. Ovviamente questo può essere un pregio del documento. Però può anche far pensare ad un esercizio intellettuale puramente velleitario. Infatti se si sconfina nel programma politico non ci si può non porre il problema del soggetto politico che può far proprio quel programma. E qui si ferma qualunque potenza di discorso tecnico. E si apre un discorso che è squisitamente ed esclusivamente politico. Un discorso di cui il Manifesto è – ovviamente – monco, presentando, almeno nella discussione “pubblica”, una lacuna che i giuslavoristi non potranno mai colmare, se non dando vita ad un proprio partito. Purtroppo impensabile persino nel nome, visto che la politica ci ha preceduto da vari secoli, etichettando come laburista un partito che non si identifica affatto con il giuslavorismo, pur avendo partorito nella sua terra d’origine quella “terza via” alla quale, qua e là, si richiama il Manifesto per il diritto del lavoro sostenibile.
2. Inforcando le lenti del giurista, quel che mi ha colpito di più è, ovviamente, la nuova aggettivazione della nostra materia. “Sostenibile” vuole racchiudere tutta la carica di novità – ovvero riformatrice – delle proposte dei tre autori (già alla seconda pagina si parla del “verbo della sostenibilità”) . Di conseguenza le prime venti pagine illustrano i significati di questa nuova aggettivazione, che - aggiungendosi o sostituendosi a una lunga filiera di parole-chiave che hanno segnato svolte, più o meno memorabili, della nostra materia (questione sociale, corporativismo, persona, costituzionalizzazione, egualitarismo, emergenza, concertazione, flessibilità, flessicurezza, modernizzazione, dignità, produttività) – dovrebbe caratterizzare il diritto del lavoro del prossimo futuro.
In linea generale la politica della “sostenibilità” non nasce oggi e può vantare già qualche anno di incubazione, nonché crescenti successi – almeno di pubblico - nell’ultimo quinquennio. Di primo acchito viene di collegarla, più specificamente, alla “sostenibilità ambientale” (v. anche p. 15 del Manifesto), cioè alla questione delle trasformazioni climatiche e della saturazione delle fonti naturali che quasi tutti i paesi del mondo stentano ad affrontare con la necessaria rapidità. In questa prospettiva l’appello dei tre autori alla consapevolezza dello “scienziato sociale e anche del giurista”, affinché si diffonda l’idea che la sostenibilità ambientale accentua la responsabilità collettiva di ogni specifica scelta di sviluppo socio-economico e rende “il momento del consumo…un fattore-chiave” (p. 16), è pienamente condivisibile. Forse è anche troppo facilmente condivisibile nel “fuoco” della crisi pandemica del 2020 che ha indotto tutti a rimeditare sugli squilibri a base dello sviluppo mondiale.
Però non mi pare che “responsabilità collettiva” e ruolo del “consumatore” siano elementi che compaiono per la prima volta nelle riflessioni e nelle riforme promosse dai giuslavoristi. Né, a dire il vero, mi pare che il Manifesto ne faccia il perno del nuovo diritto del lavoro. Anzi a dirla tutta non è il termine “ambientale” che connota la “sostenibilità” cui si intitola la proposta complessiva. Piuttosto c’è un invito a ragionare anche di sostenibilità ambientale in una doppia chiave: di “etica della sostenibilità” e di “convenienze della sostenibilità”, dove l’approccio “etico” deve combinarsi con l’approccio “realista” (sempre p. 16).
Ma non è neanche questo che caratterizza complessivamente la sostenibilità del diritto del lavoro del futuro. Nel Manifesto la sostenibilità si triplica e richiede “un approccio integrato”: essa ha tre “dimensioni”, economica, sociale e ambientale (spec. p. 6 e p. 15). E il diritto del lavoro “per essere efficace e credibile anche nei confronti dei lavoratori, …deve condividere anche con le altre discipline e policy la preoccupazione di promuovere uno sviluppo sostenibile” (p. 6) dal suddetto triplice punto di vista.
Si potrebbe discutere della appropriatezza del termine così ampiamente dilatato nonché della sua valenza realmente innovativa, ma, prendendo invece acriticamente atto di questa dilatazione, da cittadino di un’Europa in endemica crisi è impossibile non essere d’accordo con gli autori del Manifesto sul piano culturale e valoriale. Però il giurista – anche e soprattutto europeo - resta perplesso e si chiede: oltre a segnalare la complessità crescente di qualsiasi regolazione delle nostre società - che arrancano ormai dinanzi a tutto salvo forse alla vitalità del “buyer (shopper, consumer, customer) man “, che sguazza anche nello shopping digitale – una sostenibilità trinitaria fornisce davvero una “pista” per meglio mettere a fuoco e graduare i valori, gli interessi, i principi, i diritti di sempre? Non si rischia così solo di aggiungere alle ben note tensioni che attraversano e non possono non attraversare la nostra materia solo una gustosa glassa “green&digital” sotto la quale si agitano le solite annose questioni?.
Il manifesto qualche sospetto lo alimenta anche – o soprattutto – nelle prime venti pagine. Ad esempio là dove contrappone l’homo oeconomicus – che dovrebbe virare più verso il consumatore che l’imprenditore – all’homo juridicus, paventando che il secondo venga “costruito a prescindere dalle realtà vitali, inclusa quella del consumo in specie se sostenibile nel senso appena illustrato” (p. 16). Semplificando molto, sembra una vecchia partita “economia versus diritto”: e l’economia, “dimensione ontologica dell’esistenza umana” (p. 16), se sponsorizza la causa ambientale, acquista una carta vincente.
Così non mi trovo d’accordo: in questo scenario l’homo juridicus – figura retorica rilanciata nella cultura giuslavoristica da un bel libro di Alain Supiot, ormai non più recentissimo - sembra l’unica astrazione, l’unico attore creato da teorici in polemica con la realtà. In questo modo economia e ambiente, alleati, prevalgono sul sociale e la regolazione giuridica appare, secondo le preferenze, un lusso o un’ancella. Il mio punto di vista è un altro. Il termine homo juridicus allude alla soggettività giuridica su cui può far leva la politica che intenda regolare conciliando le diverse dimensioni del reale: e quella soggettività può funzionare meglio o peggio a seconda di come la politica utilizza l’esperienza, le categorie, le tecniche, i sistemi della regolazione giuridica. Qui c’è ampio spazio per un pensiero specificamente giuridico, di scenario e di dettaglio, interdisciplinare e pluralista, quanto meno ideologico possibile (sul punto concordo con il Manifesto). Sarei più d’accordo però nel dire che oggi l’homo juridicus deve essere dotato anche di un patrimonio di diritti e di doveri specificamente riguardanti l’ambiente, da bilanciare, ovviamente, con i diritti sociali ed economici. Così i compiti della politica e del diritto (cioè dell’homo juridicus) si ampliano, altro che ridursi (p. 16): in coerenza del resto con le finalità perseguite dagli stessi autori del Manifesto, i cui propositi, come si diceva inizialmente, non possono certo realizzarsi senza riaffermare una priorità della politica – quella alta, quella capace di superare provincialismi e sovranismi – su tutto il resto.
Tornando al nostro diritto del lavoro, studi recenti e approfonditi segnalano ad esempio che, intesa con più aderenza alle questioni ambientali, “la sostenibilità viene a identificare quell’area di collegamento (un tempo mancante) tra l’organizzazione interindividuale, che costituisce l’effetto diretto del contratto di lavoro, e l’organizzazione aziendale nel suo complesso, dentro la quale può trovare giustificazione…anche una dilatazione della posizione debitoria del prestatore, sul quale graverebbe, in forma solidale, il peso di un obiettivo (la sostenibilità) che…non riposa più integralmente nelle mani dell’imprenditore” . E’ questa un’interessante prospettiva di ricerca, ma, come tale, tutta da verificare e discutere, specie se si passa dal diritto ottativo a quello vigente. In qualche passaggio mi pare in verità che il Manifesto assuma questa prospettiva come un’opzione di politica del diritto ineluttabile, come se fosse un’inevitabile presa d’atto di una realtà già esistente. Su questo mi sembra necessaria una discussione preliminare alla formulazione di un ambizioso programma di politica del diritto, il più possibile lunga e approfondita.
3. Naturalmente il punto di partenza di questa discussione non può che essere la realtà, indagata e riletta con tutti gli strumenti possibili e immaginabili. Al riguardo l’opzione di metodo dei tre autori del Manifesto è largamente condivisibile e, a mio parere, anche condivisa (p. 17 ss.): a patto che interdisciplinarità e intrecci tra diverse branche del diritto non significhino dare necessariamente la prevalenza all’una o all’altra teoria sociologica o economica, oppure scegliere tra le tante branche del diritto quale debba tirare la volata alle altre (il diritto commerciale piuttosto che il diritto costituzionale o il diritto amministrativo?) . In effetti quando si tratta di conoscere e indagare i fenomeni reali, così come le tecniche e le categorie per regolarli, non si possono stilare gerarchie dei saperi né rivendicare l’autoreferenzialità o l’esclusività dell’approccio giuslavorista. C’è solo da essere consapevoli dei propri limiti, come individui, intellettuali e specialisti; e fornire con umiltà il proprio contributo accodandosi a quegli studiosi (o meglio a quegli studi) che, più di altri, sanno dar voce a intelligenze e saperi in grado di spaziare “senza limiti e confini” (mi torna in mente una bella canzone di Lucio Battisti, suggestivamente intitolata “la collina dei ciliegi”).
Però sul rapporto tra interpretazioni/visioni/ricostruzioni della realtà e sua regolazione (diritto, se vogliamo) c’è ancora una volta da rilevare che non esiste alcuna relazione meccanica. Non mi pare che si possa sostenere: la realtà è tale per cui il mondo affoga nel suo pessimo rapporto con l’ambiente deinde l’unico diritto (regolazione) possibile è quello che metta al primo posto la tutela dell’ambiente. Qui il richiamo al diritto non è all’interno di un sapere tecnico, ma ad uno strumento della politica o, se vogliamo, alla cultura politica dei cittadini. E, prima di arrivare alle tecniche attraverso cui realizzare il diritto ideale per tutelare anzitutto l’ambiente, ci sono tutti i passaggi del consenso, del potere e, soprattutto, degli interessi, che si aggregano, si confrontano e, partendo da visioni del reale anche molto diverse tra loro, convergono intorno a possibili letture comuni dei fenomeni. Dopodiché convergenze euristiche e convergenze politiche possono dar luogo a nuove regole, da proporre ed elaborare con estrema attenzione alla dimensione giuridica vera e propria, cioè alla tecnica della regolazione di cui i giuristi sono i massimi esperti sia per la formalizzazione di visioni convergenti della realtà, sia per il giusto bilanciamento tra i valori espressi dai diversi attori sociali, economici e politici, sia per la formulazione di precetti che non tradiscano le intenzioni, sia per una qualche genesi del diritto scritto con garanzie di effettività nella successiva applicazione gestionale, amministrativa, sindacale, giudiziaria.
Forse la sto facendo troppo lunga. In fondo voglio solo dire che non esiste “una” realtà dalla quale scaturisce “un” diritto necessario. Perciò pur concordando con gli autori del Manifesto là dove ci invitano a dare tutto il peso possibile all’analisi della complessità del reale, non ne condivido quella specie di fideistico affidamento nell’autonomo potenziale regolativo derivante dal “realismo”. Mi pare che nel richiamo al realismo che detta gli equilibri della regolazione (del diritto) ci sia sempre lo stesso humus culturale: è il mercato che detta le regole, sperando che si tratti di un mercato intelligente che sposi le ragioni dell’ambiente. Così tutto, prima ancora di essere vero o falso, è troppo semplice e persino un po’ ingenuo. E non tiene conto anche di un altro avvertimento ben presente in parti del Manifesto: la realtà è frutto di conoscenze attrezzate e ben meditate, ma anche oggetto di “tendenze…frutto di dinamiche sistemiche che hanno come principale vettore le reti di comunicazione globale” (p. 16). In questo avvertimento, non di immediata evidenza, io ci leggo una condivisibile preoccupazione: che certe letture della realtà non siano necessariamente “verità assolute”, ma, al più, “verità soggettive” e magari “maggioritarie” al punto da apparire assolute. Torna così il problema, tutto politico, di come più realtà/verità soggettive vengano contemperate in una regolazione che non voglia sacrificarne alcuna o privilegiarne una. E siamo di nuovo sul terreno - sdrucciolevole e disperante quanto volete, ma inevitabile - della politica e della democrazia. Faccio questa affermazione nonostante mi senta così pericolosamente vicino a un personaggio dei film di Nanni Moretti sull’iperpoliticismo dell’Italia di fine Novecento. Purtroppo gli anni successivi ci hanno mostrato che se l’iperpoliticismo diventava un vezzo per non risolvere nulla, l’antidoto non è neanche l’ipertecnicismo, soprattutto se incentrato sul ruolo di attori che stentano a manifestarsi nella realtà (quella che si trova fuori dei manifesti e dei circoli elitari che firmano solenni impegni su scala mondiale), come le grandi imprese multinazionali fornite di spiccata coscienza ambientalista
4. Mi rendo conto a questo punto di aver toccato soprattutto i massimi sistemi senza mai entrare nel merito delle molte idee contenute nel Manifesto. Il mio intento non era però di discutere solo i presupposti politico-culturali delle tante interessanti riforme proposte, che si possono condividere o no anche a prescindere dalla cornice generale in cui sono inserite. Non potendo ora abusare di spazio e attenzione del lettore (non si esprime un parere su un manifesto di 90 pagine scrivendone altrettante), provo a fare un elenco – sintetico e giocoforza poco argomentato (per ovviare in parte abuserò di rinvii a mie riflessioni in altre sedi) – di quanto in concreto mi pare condivisibile oppure no, fermo restando la necessità di approfondire i dettagli tecnici. Oltre alle mie personali convinzioni, privilegerò un criterio di giudizio che combini coerenza sistematica e funzionalità regolativa.
Il disaccordo prevale sui seguenti punti:
a) non credo si possa profilare una nuova causa del contratto di lavoro “collaborativa e partecipativa” come “condensazione concettuale di precise realizzazioni normative” (p. 25). Così procedendo si formula un’opzione ideale (o ideologica) che in parte contraddice il contesto socio-economico in cui le riforme proposte si muovono (il sistema capitalistico) – in cui mi pare più che sufficiente rinvenire nello schema causale del contratto una “funzione organizzativa” - e in massima parte porta lo “sguardo” dogmatico troppo avanti nella sistematizzazione di modifiche normative compatte e univoche di cui, a valle di tutto, va saggiato il potenziale di impatto reale, considerandone l’intera articolazione ;
b) il riferimento alla flexicurity in versione “buona” (p. 44) si presenta purtroppo in Italia poco credibile. Anche la conversione “centralistica” (p. 47) degli assetti istituzionali per rilanciare l’intervento pubblico sul mercato del lavoro convince poco, vista l’esperienza dell’Anpal, non valutabile in positivo. In questa materia occorre a mio parere maggior impegno propositivo in una dimensione concreta, sia istituzionale sia funzionale. Non è a mio parere tema per proposte di provenienza marcatamente “dottrinale”. Quanto poi alla regolazione della flessibilità in entrata si può andare anche oltre l’alternativa “causale sì/causale no” , riproposta anche dal diritto pandemico;
c) pur condividendo in pieno la necessità di una razionalizzazione della disciplina dei licenziamenti, mi pare necessario andare oltre un mero maquillage di quanto è venuto fuori negli ultimi 5/6 anni. Sono possibili equilibri più avanzati, pur senza clamorose retromarce verso tutele reintegratorie sistematicamente coerenti, ma politicamente, almeno oggi, non facilmente “sostenibili” ;
d) mi pare sminuita e poco approfondita la questione di un reddito minimo universale (p. 64), che potrebbe forse costituire anche una bussola per razionalizzare i sistemi di sostegno al reddito nelle situazioni di crisi o di emergenza, tanto nel settore privato quanto in quello pubblico. Anche la rivisitazione del reddito di cittadinanza vigente – per molti versi insoddisfacente nell’attuale versione - potrebbe essere una preziosa occasione per ripensare in chiave meno schematica e tradizionale i rapporti tra lavoro, cittadinanza, fasce di precarietà endemica, diversità culturali e potenziale di inclusione sociale tramite il lavoro retribuito nel terzo settore ;
e) Il welfare aziendale/territoriale mi pare un’esperienza importante pur con significative ambiguità; soprattutto però ha dei confini insuperabili per il pericolo che presenta in termini di diseguaglianze . Inoltre, specie quando fa leva su detassazioni e decontribuzioni del salario variabile, tradisce principi costituzionali importanti come la progressività delle imposte (art. 53 Cost.).
Sono invece prevalentemente d’accordo sui seguenti punti:
a) superare la summa divisio tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, articolando le tutele del lavoro eterorganizzato e ampliando, razionalizzandole, tutele di base a favore di tutti i lavoratori autonomi (p. 22-23) ;
b) valorizzare i nessi tra politiche attive, politiche passive, istituti di welfare pubblico e regolazione dei rapporti di lavoro anche nella prospettiva di riconoscere maggiore rilevanza alle “carriere laterali” (p. 26-27);
c) valorizzare la formazione configurandola come un “diritto del lavoratore” e curvando la intricata regolazione dei relativi istituti verso il diritto premiale per le imprese virtuose (p. 33);
d) Incentrare sempre più le tutele della sicurezza negli ambienti di lavoro sull’adozione dei modelli organizzativi previsti dall’art. 30 del d.lgs. 81/08, chiarendone in modo più penetrante la componente partecipativa da mettere al centro anche di norme più attente all’ambiente in senso lato (p. 36 ss.). Mi pare però sottovalutata l’azione repressiva degli organi ispettivi nonché la necessità di aprire i meccanismi della rappresentanza degli interessi anche a soggetti esterni all’azienda in grado di rendere concreti e tempestivi i contemperamenti richiesti dalla sempre maggiore interrelazione tra ambiente esterno/interno ai luoghi di lavoro;
e) rafforzare la tutela della dignità – anche per quanto riguarda la libera espressione delle opinioni dei lavoratori – e affinare il diritto antidiscriminatorio (p. 40 ss.);
f) mettere al centro del discorso pubblico il c.d. “gender gap”. Però, andando un po’ più nel concreto, occorrerebbe ispirarsi anche alle migliori pratiche europee; ad esempio è interessante lo sviluppo legislativo francese degli ultimi anni ;
g) approvare una legge sulla contrattazione collettiva e sulla misurazione della rappresentatività degli agenti contrattuali, che serva anche ad imprimere alle relazioni sindacali italiane una spinta partecipativa all’altezza dei tempi (p. 51-59). I dettagli tecnici sono naturalmente il vero ostacolo da superare . Concordo pure sulla possibilità di conciliare una legge sul salario minimo con il ruolo della contrattazione collettiva, anche se richiederebbe molto coraggio ; infatti mi convinco sempre di più che sia da privilegiare il rilancio di un efficiente sistema di contrattazione governato dal livello nazionale, con le opportune articolazioni a livello territoriale e aziendale;
h) adeguare appropriatamente il diritto del lavoro e della sicurezza sociale alle nuove sfide demografiche (cap. X);
i) migliorare la qualità dell’azione amministrativa (cap. XI);
j) favorire un’Europa sociale con più utilizzo di hard law per garantire tutele minime e ridurre le diseguaglianze (p. 82 ss.) e promuovere un’Europa della salute e della partecipazione (p. 83). Oltre alla (e forse prima della) contrattazione transnazionale (p. 82), occorrerebbe intervenire sulle difficoltà che incontrano già ora il dialogo sociale e la contrattazione a livello europeo ;
k) favorire lo sviluppo di un diritto internazionale del lavoro più presente per arginare i danni della slowbalisation dopo aver subito quelli della globalisation. In questa prospettiva occorrerebbe potenziare l’azione di sindacati liberi e genuini a livello mondiale .
l) promuovere significative innovazioni in merito alle politiche dell’immigrazione (p. 91-92).
Concordo sull’analisi, ma nutro serie perplessità sulle migliori piste regolative in ordine ai seguenti due punti:
a) nuova rilevanza del tempo e delle tecnologie digitali (p. 27 ss.). Si tratta di una tematica dall’enorme impatto, che richiede però approcci regolativi molto articolati. Particolarmente problematico mi pare il mix ottimale tra contrattazione collettiva e contrattazione individuale;
b) rivisitazione dei sistemi d’ inquadramento con relativi riflessi retributivi (p. 31-33).
Infine mi pare sottovalutata la questione, molto importante, del lavoro sommerso in tutte le sue sfumature. Una questione che incrocia molte delle altre affrontate, ma che nondimeno meriterebbe una messa a punto che riguarda la combinazione di repressione e premialità e una particolare attenzione a tutto quanto confina con l’espansione della criminalità organizzata nell’intero sistema economico.
Come si vede agevolmente dall’ultima pur schematica sintesi di accordi/disaccordi, nonostante il dissenso su alcune prospettazioni generali, il Manifesto indica percorsi e prime linee di intervento ampiamente condivisibili. Come sempre il diavolo si nasconde nei dettagli. Ma l’augurio è che a cimentarsi nell’attuazione del Manifesto sia un compatto esercito di angeli.