TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
Proposta di Regolamento europeo su AI
1. L’inarrestabile ascesa dell’intelligenza artificiale
Nell’attuale era digitale, l’accademia , il legislatore, l’opinione pubblica si stanno interrogando – chi con ottimismo, chi con diffidenza, chi con catastrofismo – sulle conseguenze del progresso tecnologico sul mondo del lavoro.
È certo che l’innovazione tecnologica sempre distrugge e crea ma ora la rivoluzione digitale innova e trasforma il modo di lavorare – il come, il quando, il quanto, il dove - più profondamente e velocemente rispetto a ciò che era avvenuto in passato.
La Rivoluzione industriale 4.0 , caratterizzata dalla automazione, dalla robotica, dall’intelligenza artificiale e da algoritmi sofisticati ha reso la “macchina” sempre più intelligente, e, dunque, è necessario chiedersi come cambia il contesto aziendale, l’organizzazione del lavoro e, per quanto qui interessa, l’assetto del rapporto tra datore di lavoro e lavoratore.
In una prospettiva generale, di fronte all’inarrestabile ascesa del mondo algoritmico, quello del diritto sembra far fatica ad aggiornare o a rivisitare le proprie consolidate categorie giuridiche; purtuttavia, di fronte a fenomeni nuovi che si diffondono in modo velocissimo e appaiono ingovernabili, è necessario ricondurli nell’alveo giuridico , senza con ciò voler rallentare l’innovazione e frenare lo sviluppo tecnologico .
Anche con particolare riferimento al campo del lavoro, sono stati sollevati i problemi conseguenti e relativi alla dignità umana, all’autonomia e responsabilità, alla giustizia, tutti dipendenti o dalla sostituzione dell’uomo con la macchina o dall’interazione uomo-macchina, problemi che creano nuove vulnerabilità e nuove forme di dipendenza e sollecitano l’elaborazione di una roboetica od algoretica, dati i rischi di perdita di umanità e relazionalità.
Nel più recente periodo l’emergenza sanitaria ha accelerato il processo di automazione, diffondendo la possibilità del ricorso - anzi la necessità per prevenire o limitare la diffusione del contagio da coronavirus – a forme di lavoro a distanza o mediante l’utilizzo di piattaforme digitali, che sono destinate ad imporsi definitivamente nella futura nuova normalità, poiché - quando sarà passata la tempesta - probabilmente indietro non si tornerà.
Per questo, vista la crescente diffusione, nel processo produttivo, dell’automazione e dell’intelligenza artificiale , la dottrina giuslavoristica ne sta approfondendone i diversi campi di applicazione e le implicazioni , gli effetti collaterali, così come le soluzioni, e sono innumerevoli gli studi, le indagini, le previsioni, i dati contenuti in documenti internazionali e comunitari, che confermano la necessità di un approccio interdisciplinare e di una visione d’insieme.
E così alcune previsioni disegnano scenari apocalittici e catastrofisti sui posti di lavoro persi, suscitando la paura di una disoccupazione tecnologica di massa, poiché il timore più forte è quello che, in un futuro prossimo, la persona giusta per un certo lavoro potrebbe essere una macchina.
Non solo operai (e poi impiegati che svolgono compiti meccanici, routinari, prevedibili e ripetitivi) ma lavoratori intellettuali e professionisti rischiano di perdere il posto, secondo una tendenza alla polarizzazione del mercato del lavoro, nel senso che l’offerta di lavoro si concentrerà nelle due fasce estreme (quella a bassi salari e bassa qualificazione e quella alta) con riduzione dei lavori intermedi: si dice che solo un terzo degli attuali lavoratori sono relativamente al sicuro dal rischio di essere sostituiti; per tutti gli altri cresceranno la disoccupazione e le disuguaglianze nel mercato del lavoro , poiché le macchine intelligenti sono una nuova forza lavoro “virtuale” più efficiente, veloce, precisa e (talvolta) più economica.
Oltretutto, l’attuale collasso economico sta avendo, e ancor più avrà domani, drammatici riflessi complessivi sull’occupazione, cui si aggiunge l’irruenza del progresso tecnologico con i suoi effetti sul lavoro. La conseguenza (per alcuni) inevitabile è la distruzione di posti di lavoro dovuta a questa pluralità di fattori .
Invero, il progresso tecnologico, come un fenomeno ciclico, ha sempre sostituito vecchi lavori con nuovi e migliori ma oggi molte profezie tragiche si fondano sulla velocità – molto maggiore rispetto al passato - dei cambiamenti (sia qualitativi, sia quantitativi), che rendono difficile riassorbire in breve tempo l’aumento della disoccupazione tecnologica, con una conseguente maggiore durata della transizione, a fronte di una domanda di lavoro che sarà nuova e molto diversa.
In effetti, ciò che preoccupa chi non sia un preconcetto scettico tecnofobo e non ritenga sicura la “robocalisse” è la non breve temporaneità del disallineamento tra la velocità, l’accelerazione impressionante, delle nuove invenzioni tecnologiche (che sono in grado di integrarsi tra di loro e di autoperfezionarsi) - anche se emergeranno certamente nuovi lavori che le macchine non sono in grado di svolgere - e la metabolizzazione delle innovazioni da parte del mondo produttivo e degli stessi lavoratori, la loro assimilazione individuale e sociale ancora lenta.
Certamente cambieranno sia il volume dell’occupazione sia le condizioni di lavoro, poiché la robotica e l’intelligenza artificiale “porteranno alla delocalizzazione/trasformazione dei posti di lavoro, alla scomparsa di certe professioni/occupazioni e alla nascita di altre” .
Un ulteriore, attualissimo, campo di indagine è quello dei lavoratori “aumentati”: qui diventa “intima” la interazione tra uomo e macchina grazi all’impiego, in ambito lavorativo, di tecnologie ingoiabili o iniettabili nel corpo umano o protesi robotiche oppure apparecchi indossabili (si pensi ad occhiali di precisione, guanti speciali, esoscheletri, bracci meccanici, uniformi sensorizzate, caschi interconnessi).
Tali misure, senza dubbio, sono idonee a migliorare di molto la qualità di persone disabili, garantendo loro un accesso al mercato del lavoro, in precedenza escluso o ad evitarne l’espulsione dal mercato del lavoro, come insegnato dalla recente giurisprudenza sul tema dei c.d. accomodamenti ragionevoli.
In altri casi, tali tecnologie possono evitare al lavoratore di svolgere compiti pericolosi, in condizioni insalubri, o gravosi, riducendone la fatica fisica e mentale e prevenendo, così, infortuni o malattie professionali, tipici dei tradizionali ambienti di lavoro.
Tuttavia, in apparente contraddizione, dalle innovazioni sorgono nuovi possibili rischi – da ignoto tecnologico - per la salute e la sicurezza e molti dubbi suscitano alcune forme di potenziamento tecnologico mediante l’uso di innesti o impianti sul corpo del lavoratore per migliorarne l’efficienza e la produttività (potenziandone, ad esempio, la vista o le capacità cognitive).
Invero, fino ad oggi, l’attenzione della dottrina, delle Istituzioni, dell’opinione pubblica - piuttosto che sul rischio di “perdita” del datore di lavoro, tentato di affidare l’esercizio dei suoi tipici poteri di selezione, organizzazione, vigilanza e controllo del personale ad algoritmi e macchine intelligenti - è stata prevalentemente rivolta all’analisi dell’impatto dell’innovazione tecnologica sulla condizione dei lavoratori,: si pensi alla c.d. Gig economy e alle (forse) nuove esigenze di protezione di coloro che offrono la propria opera a favore di committenti, lavorando mediante piattaforme digitali, con particolare riferimento al food delivery .
In questo ambito, nonostante gli sforzi a livello sovranazionale, gli interventi legislativi interni e le prime decisioni giurisprudenziali sui rider , la strada per giungere ad un assetto chiaro e condiviso è molto in salita, e non pare ancora scorgersi un traguardo definitivo
Peraltro, oltre la questione qualificatoria, l’emergenza sanitaria ha posto in Giurisprudenza, data la diffusione delle labour platforms, i problemi specifici della tutela della salute di questi nuovi lavoratori durante la pandemia , problemi che si aggiungono ai rischi diretti (si pensi all’aumento degli infortuni) e indiretti (ritmi di lavoro intensi sollecitati dalla piattaforma e dal sistema di rating e tali da spingere verso comportamenti di auto-sfruttamento) che corrono i gig workers, rischi a loro volta ulteriori rispetto alla tradizionale insicurezza del lavoro e del guadagno che vive ogni lavoratore precario, subordinato e non.
Il problema principale del lavoro in questa economia delle piattaforme è quello della qualificazione del rapporto , mentre è accesso il dibattito per giungere ad una disciplina collettiva (di cui si darà conto più avanti).
La riflessione attuale si inserisce in una prospettiva più ampia, che riguarda la crisi di identità della stessa nozione di subordinazione e di lavoro industriale nella fabbrica tradizionale, mentre le nuove dinamiche produttive nell’ottica globale finiscono per frammentare e decentrare il lavoro nella sua organizzazione ed esecuzione spazio-temporale, stimolando la crescita dei nuovi lavori c.d. non-standard .
L’ultima frontiera, quella della Gig economy, è popolata da lavoratori – più o meno – autonomi che svolgono attività tradizionalmente proprie del lavoro subordinato ma che, grazie alle nuove tecnologie, possono essere svolte con modalità differenti, mentre il datore di lavoro si smaterializza in un algoritmo e aumenta il rischio di sfruttamento.
Per questo occorre domandarsi se sia ancora attuale – per il lavoro mediante piattaforma digitale - la scelta della subordinazione – nozione, a mio avviso , non così monolitica e statica come sembra - quale fattispecie fondamentale di riferimento dello statuto protettivo offerto dal Diritto del lavoro del Novecento e c’è chi, guardando “oltre la subordinazione” , ha analizzato la nuova tendenza espansiva della nostra disciplina, affermando la necessità che la tutela del lavoro neo-moderno sia diffusa anche oltre la subordinazione.
Un altro campo di applicazione della rivoluzione digitale riguarda le modalità di lavoro da remoto.
Prima della pandemia, il ricorso allo smart working (o lavoro agile, secondo la traduzione non troppo fedele operata dalla Legge n. 81 del 2017 negli articoli da 18 a 23) era, in Italia, assai contenuto e principalmente concentrato nel settore privato.
In brevissimo tempo, la percentuale è aumentata vertiginosamente e quegli scenari - che sembravano avvicinarsi gradualmente – ai tempi del Coronavirus si sono trasformati, in pochi giorni, in realtà per milioni di persone, data la necessità, imposta dal lockdown, di evitare il contagio e rispettare le norme sul distanziamento .
Il lavoro da remoto, pur snaturato nella sua disciplina e finalità originaria, per ragioni di ordine pubblico sanitario, sta diventando il modello generale di organizzazione del lavoro per milioni di lavoratori (privati, pubblici, autonomi, professionisti) e non solo nelle grandi aziende.
Per il futuro, le attività eseguibili a distanza e online sono destinate ad aumentare anche perché queste modalità di lavoro potrebbero accrescere efficienza e produttività (almeno per le occupazioni più creative e intellettuali), consentendo la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro.
Infatti, la sperimentazione, avvenuta durante la pandemia, e realizzata spesso sotto forma di home working, lavoro tra le mura di casa, magari in cucina, insieme a familiari ed animali domestici, ormai ha segnato una svolta, sia nella gestione dei luoghi di lavoro, sia per gli strumenti utilizzati, dato che cresce e si consolida l’utilizzo di nuove tecnologie, sia per le regole stesse del rapporto di lavoro, sia per il cambiamento del legame con il territorio.
In effetti, nel lavoro agile si realizza il superamento delle categorie tradizionali con le quali si è strutturata la subordinazione e cioè lo spazio-luogo di lavoro all’interno dell’azienda e il tempo di lavoro, con conseguente necessità di ridisegnare diritti ed obblighi delle parti nel momento in cui, venendo meno la presenza fisica al lavoro, occorre fare i conti con una concezione “informatica” della stessa.
E’ necessario, però, che, quando si uscirà dall’ottica emergenziale, per evitare il solo working senza smart, si riesca a “normalizzare” il lavoro agile , passando da una mera trasposizione domestica del lavoro in ufficio (quello in fabbrica è più difficilmente eseguibile da remoto) a nuovi paradigmi culturali ed organizzativi di lavoro per obiettivi, che eviti la pervasività dei controlli che gli strumenti informatici consentono, ripensando leadership e stile manageriale per migliorare la qualità del lavoro e la sua produttività, sistemi premiali, monitoraggio sull’attività svolta e sui risultati conseguiti, elevando il tasso di fiduciarietà e di collaborazione pro-attiva e prevedendo una modalità “mista” tra lavoro in presenza e da casa .
Ciò in quanto il lavoro da ogni luogo e in qualsiasi momento (working anytime, anywhere) si accompagna ad un “effetto grotta”, “divide” ed “isola”, fa aumentare lo stress da videoterminali, da iperconnettività e le patologie muscolo-scheletriche, sovrappone i tempi, divenuti porosi, di vita e di lavoro , rischia di diventare alienante e non pienamente produttivo se non alternato da rapporti interpersonali, dal lavoro in comune, caratterizzato dall’interazione frequente tra i lavoratori e tra questi e il datore, interazione che deve restare essenziale, poiché il luogo di lavoro consente la crescita personale e sociale ed è sempre stato un laboratorio di idee, di pensiero e di ascolto.
E forse, in una prospettiva generale, data la pervasività delle tecnologie, tali rischi riguarderanno anche i lavoratori in presenza - e non solo quelli agili - per i quali occorrerà estendere il diritto alla disconnessione, senza dimenticare l’importanza di far attenzione ai carichi di lavoro e di garantire l’effettività di tale diritto, volto a tutelare, al contempo, sia la salute del lavoratore, sia la sua vita personale, al fine di conservare una cesura tra il momento della prestazione e il tempo del non lavoro
In conclusione, senza essere catastrofisti e volendo “andare oltre il lato peggiore dell’attuale tragicità” , va segnalato il rischio della perdita di socialità umana e professionale, di umanità e di relazionalità, della stessa identità del lavoro quando l’unico orizzonte e finestra del lavoratore a mezzobusto è lo schermo del computer, quando il lavoro a distanza diventa forzato e “a tempo pieno”, e rappresenta solo un coatto lavoro distanziato, fra la paura del contagio e quella della disoccupazione
Inoltre, quello del controllo “a distanza” dei lavoratori “a distanza” è un problema in cui si “raddoppia” l’effetto dell’utilizzo di nuove tecnologie: se ne servono i lavoratori per rendere la prestazione lavorativa e se ne servono i datori di lavoro per controllare i propri dipendenti .
Se è indubbio che per le nuove forme e modalità di lavoro tendono a sovrapporsi il concetto di strumento di lavoro e quello di strumento di controllo, occorre ribadire la necessità di limitare il controllo ai risultati del lavoro (per il lavoro agile) e non alla persona.
Forse la rilevanza del consenso o la tutela della privacy non bastano quando il controllo diventa continuo (si pensi alla questione del diritto alla disconnessione di chi lavora da remoto) invasivo, penetrante , quando è possibile catalogare per quanto tempo i dipendenti utilizzano determinati programmi o addirittura si riesce a guardare in tempo reale cosa stanno facendo i lavoratori al computer (comprese le pubblicazioni sui social) oppure si può contare il numero di ore che il dipendente ha trascorso in riunioni on line e, in generale, tutti i dati riguardanti i periodi di attività o di inattività, in assenza di una effettiva regolamentazione del diritto alla disconnessione (necessaria per evitare l’always on e l’overworking).
Oggi, a conferma del rapporto sempre più stretto tra uomo e macchina, non si discute più di apparecchiature “aggiuntive”, telecamere o microfoni occulti, ma sono le stesse modalità ordinarie del collegamento in rete di ogni persona (non solo durante il lavoro e non solo nello smart working) a creare collegamenti permanenti .
E così si giunge ad un apparente paradosso: da un lato, i nuovi strumenti di lavoro consentono un controllo più penetrante e, dunque, rendono il lavoratore ancora più subordinato; dall’altro, queste stesse tecnologie svincolano il lavoratore dal coordinamento spazio-temporale della prestazione permettendogli di “staccarsi” dalla postazione di lavoro all’interno dei locali aziendali.
In effetti, in tutti i casi in cui l’attività lavorativa “esce” totalmente o parzialmente dagli spazi aziendali, non si svolge più “nell’impresa”, il potere direttivo e il potere di controllo risultano sempre più intrecciati e richiedono un ripensamento circa il contenuto e i limiti dei tradizionali poteri del datore di lavoro .
2. Dall’interazione alla sostituzione datore – macchina: la delega di poteri datoriali all’algoritmo
Come si è visto, l’impatto dell’introduzione di sofisticate tecnologie, il ricorso a nuove tipologie o modalità di lavoro pone ai datori di lavoro sfide e rischi rispetto ai passati effetti che la scoperta della macchina ha avuto sul lavoro industriale.
Innanzitutto, serve un cambiamento della cultura d’impresa se si intendono (o si dovranno) innovare i modelli di organizzazione del lavoro: occorre, per una leadership smart, riscrivere il ruolo dei manager, puntando sul coinvolgimento e sull’impegno delle persone, sviluppandone competenze e motivazione.
In questa prospettiva la stessa leadership deve cambiare stile e strumenti: mancando la presenza fisica, occorre puntare su fiducia e responsabilità, sostenendo la “fatica” psicologica conseguente alla remotizzazione del lavoro e delle sue relazioni.
E’ richiesto, dunque, un forte impegno personale da parte di datori di lavoro e manager di fronte alla società degli algoritmi, a questo indebolimento della dimensione relazionale, alla difficoltà del lavoratore di sentire l’identità aziendale, al rischio, insomma, di una generale spersonalizzazione, che nel medio tempore certamente non migliora la produttività dell’impresa.
Invece, contraddittoriamente, si rischia, oggi e nel futuro, di aggiungere un ulteriore fattore di progressiva de-umanizzazione delle relazioni umane, in quanto “sfuma” la presenza stessa del datore di lavoro che finisce per esercitare i propri poteri datoriali attraverso l’utilizzo di algoritmi o piattaforme digitali , allo scopo di assumere, dirigere, premiare e sanzionare il proprio personale, in tal modo delegando le funzioni gestionali ad agenti non umani.
Tale scenario neppure troppo avveniristico di management tramite algoritmi rappresenta uno dei più nuovi ma meno indagati ambiti di sviluppo della interazione tra uomo e macchina, che può sfociare in una sostituzione del datore, nel momento in cui sistemi tecnologici automatizzati non sono più soltanto un “mezzo”, uno strumento per realizzare azioni decise da un soggetto umano, ma essi stessi prendono decisioni o esprimono valutazioni .
Si pensi a quegli algoritmi che stabiliscono schemi di turnazione, preselezionano il personale da assumere oppure a quelli che verificano le assenze e le presenze in servizio mediante la scansione di dati biometrici , misurano la performance dei lavoratori (esigendo livelli quantitativi e qualitativi oggettivamente ed istantaneamente misurati) e ne controllano l’attività dall’alto di una posizione di assoluto e pieno dominio informativo.
Tuttavia, poiché vi è una profonda differenza tra le abilità di una macchina e le capacità umane, va segnalato il rischio di meccanismi decisionali opachi, di pregiudizi della macchina che potrebbero comportare discriminazioni basate sul genere o di altro tipo , così come intrusioni nella vita privata del lavoratore.
Si tratta di effetti collaterali in sede valutativa e decisionale che potrebbero derivare da difetti nella progettazione dei sistemi di IA (o nei frequenti aggiornamenti del software o che si basano sull’apprendimento automatico) oppure dall’uso di dati e dai collegamenti tra di essi , in occasione del controllo sull’attività lavorativa o in sede preassunzionale .
In altri termini, può dirsi che i dati trattati e le modalità di progettazione e di applicazione possono violare diritti fondamentali del lavoratore e richiedono il mantenimento di un intervento umano di sorveglianza durante l’utilizzo e l’intero ciclo di vita dei sistemi di IA, quale misura di salvaguardia di fronte ai rischi specifici in ambito lavorativo, sia nel momento in cui il dipendente – che soffre l’asimmetria informativa - interagisce con la macchina (si pensi, oltre agli altri, alle questioni psicologiche connesse alla necessità di collaborare con robot umanoidi oppure alla preoccupazione e alla diffidenza suscitate dalla scarsa fiducia nei confronti della opacità dei sistemi intelligenti), sia quando lo stesso datore, una sorta di robomanager, la utilizza per l’organizzazione e la gestione dei rapporti di lavoro, per riorganizzare i processi produttivi o pianificare le strategie aziendali, ribaltando il tradizionale rapporto tra uomo e macchina.
Ad esempio, va sottolineato che ogni risultato del sistema di IA non dovrebbe diventare definitivo prima di essere stato verificato e convalidato dal datore di lavoro o da un suo delegato, così come dovrebbe prevedersi l’intervento in tempo reale di un essere umano (attraverso una convalida preventiva o un riesame successivo) durante il funzionamento di un sistema di IA , non apparendo accettabile che la decisione finale su un rapporto di lavoro sia assunta da un decisore non umano , in quanto la ragione meccanicistica, la neutralità dell’algoritmo è solo apparente e non è vera imparzialità, né è immune da errori nonostante il diffuso crisma di scientificità ed “autorità” della valutazione algoritmica che appare più efficiente, oggettiva ed affidabile ed ha assunto una innegabile forza pratica, dato il desiderio collettivo che privilegia la delega alle macchine per risolvere tecnicamente i problemi posti dalle interazioni umane .
In effetti, in tutti quei settori a forte componente empatica e relazionale dove è alto il “coefficiente di umanità”, l’impiego dell’IA non dovrebbe giungere mai ad una sostituzione dell’uomo ma dovrebbe limitarsi a svolgere un ruolo strumentale: anche nella gestione del personale, l’intervento umano autonomo e non automatico – del dirigente del personale o del datore di lavoro - in fase valutativa e decisionale deve restare centrale e garantire il rispetto di principi etici di “distinzione” e “proporzionalità”.
Se è vero che non può pensarsi di frenare lo sviluppo delle tecnologie, va segnalato che, pensando di “servirsi” delle macchine intelligenti, il datore di lavoro rinuncia al senso critico, alla sua identità, alla complessità della realtà, alla consapevolezza delle diversità e mette a repentaglio la sua stessa libertà umana, da intendersi quale diritto-dovere di assumersi la responsabilità delle proprie scelte e decisioni.
È il rischio della società dell’algoritmo, che può deresponsabilizzare l’essere umano dalla necessità di scelta.
Come detto, la dottrina non ha ancora adeguatamente approfondito questo profilo, cioè di come stia cambiando la figura del datore di lavoro per effetto dell’utilizzo delle nuove tecnologie e di come mitigare gli effetti collaterali di una e-leadership, ribadendo l’importanza di una gestione del personale umana, inclusiva, empatica, tale da creare un clima di benessere ed accrescere la produttività individuale e collettiva.
Peraltro, all’interno delle aziende, può notarsi una crescita della consapevolezza dei manager nei confronti degli effetti della trasformazione in atto: si richiedono, anche per i dirigenti, forti competenze tecniche e trasversali per innovare l’impresa e la gestione dei rapporti di lavoro a seguito dell’utilizzazione di robot e sistemi di automazione.
Sul punto, si è sostenuto che per evitare il rischio di una secca perdita di posti di lavoro (anche dei direttori del personale) e di una disumanizzazione di una comunità di lavoro, l’unica soluzione sia quella di investire in competenze innovative, aggiornate e trasversali , per tutti i livelli della gerarchia professionale, sia per le piccole e medie imprese, sia per le grandi aziende.
Serve, dunque, una riqualificazione continua per proteggere efficacemente la professionalità (da intendersi in senso dinamico e potenziale, piuttosto che statico) del lavoratore – anche del dirigente - attraverso piani di upskilling, mediante il miglioramento delle competenze rispetto ad oggi, e di reskilling e cioè di riqualificazione e, più in generale, di longlife learning, nel senso di percorsi di formazione lungo l’intera vita lavorativa.
Altra soluzione per mitigare gli effetti collaterali di una e-leadership è rappresentata dal ruolo attivo che il Sindacato può assumere per innovare le strategie di risposta alle nuove domande di tutela.
“Il coinvolgimento delle parti sociali sarà un fattore cruciale per garantire un approccio antropocentrico all’IA sul lavoro”: così si è espressa la Commissione europea nel Libro bianco del 2020 .
Rinviando alle pagine che seguono per più ampie riflessioni, può fin d’ora notarsi che la rivoluzione digitale crea ulteriori campi di azione sindacale: non solo per una negoziata regolamentazione, da tutti auspicata , delle nuove tipologie di lavoro mediante piattaforma digitale o da remoto, al fine di “contrattare l’algoritmo”, ma pure per introdurre misure di welfare aziendale per controbilanciare l’impiego di strumenti automatizzati di gestione del lavoro e soddisfare interessi del lavoratore come persona, così come per prevedere occasioni di formazione e aggiornamento e soluzioni atte a prevenire rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori.
Per questo, alla luce dei mutamenti organizzativi e produttivi che la pandemia sta accelerando, è decisivo che il Sindacato raccolga la “sfida della modernizzazione dell’azione sindacale [...] per approdare a nuove forme di mediazione degli interessi collettivi e di autotutela, che impongono la ricerca di uno strumentario più moderno e innovativo” , al fine di evitare che le nuove forme e modalità di lavoro, unitamente alle nuove tecnologie. impediscano agli attori sindacali di svolgere la loro funzione, marginalizzandone il ruolo e depotenziando la dimensione collettiva nelle relazioni di lavoro.
Insomma, secondo una recente ricerca dell’OIL , si avrà una rivitalizzazione delle relazioni sindacali se i sindacati sapranno - invertendo l’attuale tendenza di declino, cambiando i mezzi e non gli obiettivi di solidarietà inclusiva - adottare strategie organizzative (anche attraverso alleanze con altri movimenti e gruppi sociali) e di rappresentanza in grado di rafforzare la fiducia nei sindacati e il loro ruolo nell’economia digitale. In tale prospettiva, lascia ben sperare “l’adozione, da parte dei sindacati dei Paesi sviluppati, di modi intelligenti per usare il web come strumento per comunicare e organizzare i lavoratori delle piattaforme e per estendere l’adesione ai lavoratori “autonomi” dell’economia tradizionale e di quella digitale”, con la consapevolezza che, “in futuro l’appartenenza sindacale sarà probabilmente più fragile e “temporanea” e meno basata su un impegno permanente e “a tempo indeterminato”, rispecchiando i cambiamenti nei rapporti di lavoro” .
Nelle pagine seguenti, si esprimeranno ulteriori considerazioni sugli strumenti possibili, utili per mitigare i rischi derivanti dall’impatto dell’innovazione digitale e di una tendenziale e-leadership nei rapporti di lavoro.
3. Contro il rischio del robomanager: il valore della formazione
È incontestabile che la pandemia da covid-19 ha accelerato - in modo prima inimmaginabile - le tendenze in atto cui si è fatto riferimento nei paragrafi precedenti.
Si tratta di diversi lati di un medesimo fenomeno e cioè quello dell’interazione uomo/macchina che, in alcuni settori, è già sfociata in una sostituzione.
Al tempo stesso, le vicende sopra riportate dimostrano l’avanzare di un algorithmic management.
Ed allora occorre valorizzare tutte quelle occasioni che possono tenere viva la dimensione della relazionalità umana nel lavoro, affinchè l’impresa resti una comunità.
Per tali ragioni, se è indubbio che – a fronte dell’innovazione digitale – sarà necessario un netto miglioramento dell’efficienza dei servizi di istruzione e formazione continua mirata alle nuove esigenze (lifelong learning), in combinato con un adeguato sostegno del reddito delle persone coinvolte dalla perdita dell’occupazione e se è indubbio che occorra investire nella formazione delle competenze digitali dei lavoratori (di tutti i livelli professionali), in questa sede preme evidenziare l’importanza della formazione di datori di lavoro e manager non solo in materia digitale, ma anche per tutte quelle soft skills che consentano loro di mantenere un ambiente di lavoro inclusivo, collaborativo, motivato e fidelizzato, nonostante l’indubbia perdita di spazi e luoghi tradizionali di incontro e colloquio come le vecchie fabbriche e gli uffici.
Del resto, le potenzialità offerte dall’IA di poter controllare in modo invasivo e penetrante il lavoratore, così come la possibilità di poterlo “contattare” in ogni momento e in ogni luogo non accrescono né il benessere del lavoratore né la produttività ove non si accompagnino ad una reale nuova organizzazione aziendale che sappia effettivamente conciliare i tempi di vita e di lavoro.
È indubbio, infatti, che la permeabilità di questi ultimi possa creare stress e una serie di gravi problemi per la salute e la sicurezza dei lavoratori .
In questo contesto, il welfare aziendale (come si ribadirà nel paragrafo seguente) può costituire un elemento idoneo a realizzare (o a concorrere a realizzare) una mitigazione efficace del rischio in commento incentivando, ad esempio, la formazione continua dei dipendenti che eviti l’obsolescenza della loro professionalità per effetto dell’innovazione digitale, ovvero la ridefinizione della struttura del contratto collettivo di lavoro, da intendersi come contratto ibrido, ossia formato da due parti, una collettiva e solidarista e, un’altra, che ha ad oggetto aspetti che riguardano attualmente solo la contrattazione individuale (orari e quote di salario) .
Quello della formazione professionale, quindi, appare destinato a divenire il terreno elettivo di sperimentazione di nuove politiche attive del lavoro e di nuovi strumenti normativi , potendosi già immaginare in concreto una rinnovata centralità del sindacato, come confermato dalla recente creazione del cd. Fondo nuove competenze .
In aggiunta, pur non essendo questa la sede per dare risposta al problema circa l’esistenza nell’ordinamento italiano di un diritto alla formazione, è certo che per gli stessi datori sarà utile permettere che i lavoratori facciano sempre più proprie le modalità di interazione con i robot e strumenti potenziati da intelligenza artificiale , vincendo la psicologica diffidenza che spesso anima i dipendenti ed aggiornandone le conoscenze informatiche.
4. La funzione “mitigatrice” del Sindacato
Di fronte a questi rischi di una tecnologia negativa e in favore di una IA antropocentrica, come auspicato in tutte le sedi internazionali, un ruolo significativo può essere svolto dal Sindacato, vista la difficoltà del Legislatore nel regolamentare i nuovi fenomeni e della Giurisprudenza nell’inseguire i casi concreti. Si pensi all’ampio contenzioso sui rider, diffusamente commentato su questa Rivista.
Si aprono, dunque, ampi spazi per la contrattazione collettiva a tutti i livelli, al fine di negoziare le emergenti tipologie di lavoro non standard o le modalità di prestazione da remoto e di restituire umanità alla relazione di lavoro.
In quest’ottica, è condivisibile l’invito contenuto nella recente Risoluzione del Parlamento UE di cui si è detto a “garantire che le relazioni industriali tra le piattaforme e i lavoratori siano adeguate alle nuove realtà di una società e un’economia digitalizzate e che siano chiarite includendo tali lavoratori nelle leggi vigenti in materia di lavoro e nelle disposizioni in materia di sicurezza sociale, al fine di migliorarne le condizioni di lavoro, le competenze e la formazione e di garantire loro orari di lavoro prevedibili”, garantendo che “i lavoratori delle piattaforme possano costituire rappresentanze dei lavoratori e formare sindacati per concludere contratti collettivi”. Che vi sia ancora molta strada da fare lo conferma lo stesso Parlamento europeo nel momento in cui chiede agli Stati membri “di garantire che i sindacati abbiano accesso ai luoghi di lavoro, anche di lavoro a distanza, al fine di associarsi, condividere informazioni e consultazioni”.
Oltre a questa tradizionale funzione di job protection, che il Sindacato fatica ad assolvere in una fase in cui il lavoro non è più in presenza ma a distanza, vi è la necessità di guidare i lavoratori nello skill development . Oltre a tutto ciò, si immagina un nuovo “mestiere” che il sindacato deve imparare a svolgere, in quanto, per dirla con la migliore Dottrina, “l’alternativa è stare con chi progetta e si fa carico della grande trasformazione del lavoro o essere spazzati via dalla disintermediazione favorita dal digitale” .
Si apre, altresì, un ulteriore spazio di intervento sindacale, volto all’introduzione di obblighi di informazione, consultazione e coinvolgimento adeguati sull’uso di sistemi digitali o “intelligenti” ad alto rischio, per evitare forme di dipendenza robotica e rafforzare la fiducia dei lavoratori, aiutandoli ad affrontare l’impatto emotivo e psicologico dei nuovi strumenti, mediante la concessione alle OO.SS. di un diritto all’informazione sulle forme di utilizzo di sistemi di IA nei processi produttivi o decisionali aziendali.
Su queste basi, potrebbero poi costruirsi altre forme di mitigazione come, ad esempio, la creazione di comitati paritetici misti datore/rappresentanti dei lavoratori con il compito di valutare e correggere, oltre agli eventuali errori dell’IA, anche i ‘sovraccarichi’ di valutazione robotica, quando idonei ad arrecare danno a sicurezza, libertà e dignità umana, secondo le linee di intervento indicate nell’Accordo quadro europeo sul tema della digitalizzazione, di marzo 2020.
Ed ancora: la dottrina ha approfondito le implicazioni sul conflitto collettivo realizzato, oggi, “in inedite forme di aggregazione del consenso e di manifestazioni conflittuali” , consentite dall’utilizzo di tecnologie digitali e organizzate on line, che si aggiungono ai tradizionali scioperi, picchetti, presidi, ma che hanno una spiccata potenzialità lesiva e globale nei confronti dell’immagine reputazionale delle Aziende.
Insomma, al datore di lavoro “tentato” dalla e-leadership conviene consigliare di non abusarne; altrimenti, il pericolo potrebbe essere quello di dover subire un e-strike, avente una diffusività illimitata.
Oltretutto, ovunque si sta assistendo a fenomeni di auto-organizzazione dei lavoratori non-standard, attraverso iniziative inedite di protesta e di sindacalismo “spontaneo” – talvolta con il supporto di sindacati tradizionali – e agitazioni collettive (c.d. walk-out).
In effetti, una recente ricerca dell’OIL , partendo dai cambiamenti rapidi del mondo del lavoro, dal netto calo dei tassi di sindacalizzazione nella maggior parte dei Paesi del mondo (non solo causato dalla scomparsa di posti di lavoro altamente sindacalizzati nell’industria) e dalla “nuova instabilità del lavoro”, che caratterizza i rapporti di lavoro nel ventunesimo secolo, ne valuta le ripercussioni sulle attività sindacali, tanto sui livelli di adesione sindacale, quanto sulla composizione dei sindacati stessi e sulla frammentarietà del movimento sindacale .
Appare necessario, inoltre, un sempre crescente ripensamento del ruolo del welfare aziendale da parte delle aziende, le quali devono continuare ad affiancare agli strumenti tradizionali (come ad esempio i piani sanitari o di previdenza complementare), sopravvissuti nel corso degli anni, azioni innovative che vadano a incidere anche sulle modalità e sui tempi di lavoro, per offrire a tutti i dipendenti risposte ai nuovi bisogni e ai nuovi rischi sociali che vanno presentandosi e ai quali i ‘canonici’ strumenti di welfare non riescono più a far fronte.
Si pensi ad alcuni dei rischi determinati dall’innovazione tecnologica sopra evidenziati e a come potrebbero essere mitigati da misure di welfare aziendale: a) salute: w.a. che preveda – ad esempio – istituti che favoriscano il work-life balance, ovvero strumenti di time saving (oggi molto diffusi anche in Italia e non solo nelle grandi aziende) ; b) sostituzione uomo-macchina: w.a. che incentivi la formazione continua dei dipendenti (lifelong learning); c) disumanizzazione del datore: misure di w.a. che valorizzino il lavoratore come persona, restituendo umanità al rapporto di lavoro.
Del resto, è anche indubbio che l’ascesa del welfare aziendale abbia arricchito le coordinate tradizionali del patto lavoro/retribuzione, facendovi rientrare non solamente la soddisfazione economica del dipendente, ma anche il suo benessere, che comprende non solo la dimensione monetaria della retribuzione del lavoratore, ma allarga il proprio raggio di azione a una sua condizione più generale .
Tanto nelle intenzioni del Legislatore quanto nella pratica delle moderne relazioni industriali, si sta infatti verificando il passaggio da salari interamente monetizzati a retribuzioni/compensi misti che inglobino al loro interno anche servizi quali strumenti alternativi di remunerazione del lavoro .
Simili sistemi si tramutano, a parere di gran parte della dottrina, in un’operazione win-win, in cui ne beneficia l’impresa che aumenta la produttività, abbassa il costo del lavoro e fidelizza i lavoratori e vince il lavoratore, come singolo, che ottiene servizi con ridotto carico fiscale e umanizza il suo rapporto di lavoro, soprattutto attraverso nuovi servizi di conciliazione; infine, ne guadagna anche lo Stato, che ottimizza le politiche di welfare pubblico .
Queste riflessioni trovano conferma nel quinto Rapporto Welfare Index PMI del 2020, promosso da Generali Italia.
In conclusione, la “retribuzione in welfare, dunque, può concorrere significativamente a garantire un’esistenza libera e dignitosa ai sensi dell’articolo 36 Cost” anche mitigando gli effetti potenzialmente negativi dell’impatto sui mestieri dell’innovazione tecnologica e dell’intelligenza artificiale.
5. L’opacità degli algoritmi e la vicenda delle graduatorie scolastiche
Tornando ora alla questione della tutela dei lavoratori contro i meccanismi pericolosi derivanti dall’utilizzo di sistemi di learning machine, gli esperti della European Agency for Safety and Health at Work hanno evidenziato come la trasparenza e l’etica delle decisioni degli algoritmi di intelligenza artificiale hanno un impatto rilevante sui lavoratori, in particolare sulla loro fiducia e accettazione di tali sistemi, nonché sui livelli di stress e ansia e altri aspetti della loro salute mentale, in particolar modo nel momento in cui essi non siano in grado di comprendere cosa stia succedendo, quali dati vengano raccolti e per quali scopi .
Queste problematiche sono particolarmente accentuate in riferimento al tema della selezione dei candidati ad una posizione lavorativa nel quadro di un processo automatizzato .
Un riferimento normativo utile a questo proposito si può trovare nelle disposizioni del Regolamento Generale n. 679 del 2016 in materia di protezione dei dati personali.
Secondo alcuni , ai sensi del detto Regolamento, nel caso di semplice profilazione è necessario quantomeno informare l’interessato sulla logica complessiva applicata (artt. 13, 14 e 15 GDPR) mentre, per altri , nel caso di decisione unicamente automatizzata, occorre che vi sia un livello ancora maggiore di garanzia, ottenuta o con un ricorso all’intervento umano o mediante l’autorizzazione normativa e la congiunta previsione di “misure adeguate” (art. 22 GDPR) .
Anche in quest’ultimo caso, però, non manca chi evidenzia, attraverso l’analisi degli artt. 14 e 15, il diritto del titolare dei dati personali ad avere comunicazione di tutti i dati personali che lo riguardano, quindi anche di quelli cosiddetti “derivati” , che costituiscono output intermedi del processo automatizzato, almeno nella misura in cui influenzino significativamente la decisione finale .
La medesima esigenza di trasparenza che giustifica la comunicazione all’interessato dei suoi dati acquisiti sussiste anche per i dati ulteriori, inferiti dai processi computazionali del sistema automatizzato.
In questo modo, è possibile verificare, da un lato, la liceità e la correttezza del trattamento dei dati personali come processo inerente all’identità di una persona fisica determinata; dall’altro, che la decisione in sé, quale output conclusivo del trattamento, non leda i diritti e le libertà fondamentali della persona sottoposta al processo automatizzato (art. 5 GDPR).
Di contro, una decisione inspiegabile nelle sue ragioni giustificatrici non è considerata idonea a soddisfare il contenuto minimo del principio di trasparenza.
A ciò, inevitabilmente, si lega la difficoltà dei lavoratori ad ottenere una spiegazione della logica utilizzata nel processo decisionale automatizzato.
In realtà, la letteratura giuridica pare pessimista, poiché la logica alla base dei processi automatizzati nei sistemi di machine learning spesso non è conoscibile in riferimento alla fase della costruzione degli output: a rimanere incognito è l’algoritmo in azione, il suo funzionamento nell’elaborazione dei dati personali e quindi nella costruzione delle risposte che il sistema intelligente restituisce all’ambiente esterno .
Come detto, si verifica con sempre maggior frequenza la delega da parte dei datori di lavoro di poteri a sistemi tecnologici.
Del resto, l’apparente oggettività della macchina e la sicura velocità di elaborazione dei dati stanno rappresentando, anche per i datori di lavoro pubblici, uno strumento per migliorare l’efficienza delle Pubbliche Amministrazioni.
In tale prospettiva, si segnala la vicenda, molto singolare, dell’algoritmo utilizzato dal Ministero dell’Istruzione per l’assegnazione delle ‘cattedre’ al personale docente, nell’ambito delle operazioni di mobilità conseguenti alle immissioni in ruolo effettuate in forza della L. n. 107/2015 (cd. Legge sulla “buona scuola” ).
Le assegnazioni di sede automatizzate non sono state particolarmente apprezzate dai docenti, che sono risultati in molti casi assegnatari di una posizione (scuola superiore di primo grado) per la quale non avevano mai lavorato, inferiore rispetto a quella per la quale avevano maturato maggiore esperienza e punteggio (scuola superiore di secondo grado).
Il personale lamentava, inoltre, che la procedura di assunzione, alla quale si accedeva previa presentazione di domanda di partecipazione, sarebbe stata gestita da un sistema che, operando per il tramite di un algoritmo, avrebbe prodotto un provvedimento amministrativo senza tener conto delle preferenze indicate dalle rispettive domande e privo di motivazione, con conseguente pregiudizio del criterio meritocratico e un consistente deficit di trasparenza nelle procedure, dato che risultavano non conoscibili le modalità di funzionamento dell’algoritmo.
Ne è scaturito un contenzioso, conclusosi con la sentenza n. 2270 del 2019 del Consiglio di Stato, secondo il quale: “nel caso di assegnazioni delle sedi di servizio di docenti di scuola secondaria sulla base di graduatorie ministeriali redatte da un software appositamente creato nell’ambito del piano straordinario di assunzioni, l’algoritmo è da considerarsi a tutti gli effetti «atto amministrativo informatico» e, pertanto, la regola tecnica sottesa all’algoritmo soggiace ai principi di imparzialità, pubblicità e trasparenza che caratterizzano l’azione amministrativa ed è soggetta al sindacato del giudice”.
In sostanza, secondo la Giurisprudenza amministrativa, “la regola che governa l’algoritmo deve essere conoscibile e valutabile alla luce dei principi di logicità e ragionevolezza e, pertanto, anche soggetta alle figure sintomatiche dell’eccesso di potere (come la disparità di trattamento tra situazioni uguali o comparabili, il difetto di motivazione, la violazione del principio di proporzionalità, ecc.), nella considerazione che l’amministrazione debba agire sempre quale soggetto razionale”.
Quindi, deve comunque esistere - nel processo decisionale - un contributo umano capace di controllare, validare ovvero smentire la decisione automatica, con un meccanismo definito - in ambito matematico – come HITL (human in the loop).
In tal senso, l’orientamento è ormai consolidato nell’escludere la legittimità di una decisione puramente automatica, in quanto l’algoritmo deve svolgere una funzione solo “servente” e strumentale, quale supporto automatizzato della decisione umana e dell’istruttoria procedimentale che il Ministero deve svolgere, tenendo presente che ci troviamo di fronte a casi di mera discrezionalità tecnica.
In un altro caso, sempre concernente una procedura di assegnazione di sedi scolastiche ai docenti, il Consiglio di Stato (sent. n. 881 del 2020) ha affermato che l’impiego di tali supporti comporta, in realtà, una serie di scelte e di assunzioni tutt’altro che neutre, ribadendo il necessario rispetto dei principi di conoscibilità, di non esclusività della decisione algoritmica e di non discriminazione algoritmica .
Infine, si segnala una recentissima pronuncia di merito (Tribunale di Tivoli 27 aprile 2021), che ha accolto il reclamo di un docente, il quale, a causa di un errore di programmazione del software del Ministero dell’Istruzione (errata attribuzione di codici alle classi di concorso), si era visto assegnare un punteggio minore nelle graduatorie scolastiche.
Tale vicenda dimostra come l’utilizzo errato dell’algoritmo ministeriale non possa ledere i diritti del soggetto, poiché è la P.A. che deve tutelare il “favor partecipationis” del cittadino e non il cittadino che deve farsi carico del buon andamento della P.A.
6. Per concludere, tra sfide ed opportunità, mantenendo la dimensione umana
Vi è un rischio concreto che, nel prossimo futuro, il contesto aziendale diventi sempre meno umano. E si scambi l’autonomia umana con l’automazione artificiale.
“L’intelligenza artificiale si sta sviluppando rapidamente” e “cambierà le nostre vite” poiché la “tecnologia digitale diventa una parte sempre più centrale di tutti gli aspetti della vita delle persone”: come sottolineato dall’Unione europea , per sfruttarne le opportunità ed affrontarne le sfide , occorre promuoverne lo sviluppo e la diffusione, “basandosi su valori europei” e con attenzione alle implicazioni umane ed etiche dell’IA, per renderla affidabile, etica, inclusiva ed antropocentrica.
Non bisogna rinunziare a provare a disegnare il mondo, l’orizzonte del domani , per coltivare speranze e fiducia in un futuro migliore, in cui il cielo non apparirà nero, con la consapevolezza che la rivoluzione digitale era già dietro la porta ed ora è esplosa nelle nostre case e nei luoghi di lavoro, entrandovi prepotentemente, a causa della pandemia, senza bussare.
In questo difficile periodo, di incertezze e paure, la sensazione è che il futuro del lavoro è oggi, è, è già arrivato.
Di fronte ai tanti cambiamenti, così tanti e così in fretta, per superare il senso di smarrimento della speranza, occorre guardare senza pessimismo ai mutamenti in atto, cogliendone i rischi ma anche le sfide e le potenzialità che si stanno presentando, per trasformare anche questa crisi in opportunità , se da subito sapremo creare il mondo dopo il Covid, se sapremo essere sognatori di realtà che sono tra il già e il non ancora, se sapremo distinguere ciò che va eliminato da ciò che va promosso.
L’approccio migliore e più utile alla tecnologia non è quello del tecno-entusiasta ma neppure quello del tecno-pessimista: occorre imboccare una via mediana “che cerca il bene dell’uomo in ogni contesto e su ogni mezzo. Che guarda con attenzione alle novità tecnologiche non per farsi ammaliare ma per capire come poterle usare al meglio e per migliorare la vita di ognuno” .
Ecco perchè, per limitarne gli “effetti collaterali” nello scenario del lavoro, serve un approccio multi-attoriale e interdisciplinare di tutela e regolazione, senza catastrofismi ma senza neppure eccessivo ottimismo: c’è ancora molto da fare per il Legislatore sovranazionale (chiamato ad evitare una tecnocrazia autoreferenziale, un mero dominio della tecnica, attraverso scelte di valore rispettose dei diritti fondamentali), per quello nazionale (che deve adattare le sue categorie generali alle nuove tipologie e condizioni di lavoro) e per il Sindacato, mentre la Giurisprudenza, come spesso avviene, si è già trovata a dover affrontare l’emergenza interpretativa ed a svolgere una funzione di quasi supplenza normativa.
Di fronte a nuovi modi di produrre e di lavorare , è necessario non dimenticare che l’essenza del lavoro è fatta di uomini e di relazioni tra esseri umani ; ce ne rendiamo conto tanto più ora che, a causa dell’emergenza Covid, si è assistito ad“uno svuotamento forzoso, improvviso e generalizzato dei tradizionali luoghi di lavoro” .
La fedeltà a tale essenza non comporta certo la volontà di bloccare l’innovazione, nel senso di disconoscere i vantaggi dell’introduzione - nella produzione così come nella gestione ed organizzazione del personale - di sistemi di intelligenza artificiale o robot, quanto piuttosto deve essere mantenuta, quale bussola per navigare e per guidare l’impatto di tali tecnologie sul mondo del lavoro e delle aziende.
Di fronte a questo orizzonte che muta così rapidamente, a quest’epoca di cambiamenti che, in realtà, è un cambio d’epoca , il Diritto del lavoro è chiamato a proporre soluzioni che - senza negare le potenzialità dei dispositivi tecnologici sempre più sofisticati - salvaguardi al contempo la qualità dei rapporti di lavoro, non soltanto di quelli subordinati, in quanto l’espansione del ritmo innovativo rende urgente la tutela anche delle forme di lavoro (più o meno) autonomo: la migliore risposta alle sfide dell’intelligenza artificiale riposa su un human-in-command approach e su un human-centered approach, anche perché la mente umana non è algoritmica e il pensiero umano del lavoratore e del datore - fatto di coscienza, consapevolezza, intuizione, creatività, responsabilità, comprensione che le macchine non hanno - non può divenire artificiale.
Il giuslavorista ben conosce la rilevanza della dimensione personalistica ed è questo nucleo essenziale di valori che abbiamo il compito di delimitare e salvaguardare e che rende insostituibile la funzione – in generale - del Diritto, che deve tutelare il diritto a rimanere umani.
Come condivisibilmente osservato, “in ogni caso, non pare che la scelta di mantenere un ruolo per la componente umana, e di conseguenza di evitare lo sviluppo di una piena autonomia artificiale, possa essere aprioristicamente criticata di eccessivo conservatorismo. Che tutto ciò che è tecnicamente possibile non sia anche di per sé (eticamente e giuridicamente) lecito è principio ormai diffuso e accettato quasi unanimemente” .