TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Il 20 maggio 2020 cadeva il cinquantesimo anniversario dello Statuto dei lavoratori e sono innumerevoli gli scritti che, nel corso dell’anno, i giuslavoristi hanno dedicato alla riflessione su quanto di quella mitica legge faccia ancora parte del diritto del lavoro di oggi. La riflessione ha coinvolto tanti di noi: dai più anziani , che quella legge hanno visto nascere e al cui studio hanno dedicato tanta parte del lavoro scientifico, ai più giovani, nei cui studi lo Statuto occupa un posto limitato. Tanto limitato da giustificare il dubbio che l’esame di ciò che è rimasto dello Statuto rischi davvero «di sancire il suo definitivo passaggio di mano dai giuslavoristi agli storici» .
È passato un anno, “le bandiere sono state ammainate”, la pandemia ci ha costretto, oltre che a cambiare il nostro modo di vivere e di lavorare, a dare priorità, nei nostri studi, al nuovo diritto del lavoro emergenziale che andava via via prendendo forma, decreto dopo decreto. E così, dal profluvio dei contributi dedicati ai cinquant’anni dello Statuto, siamo passati al profluvio dei contributi dedicati al diritto Covid-19: con la non banale differenza che, mentre lo Statuto resta una pietra miliare nella storia del nostro diritto del lavoro, di questo diritto del lavoro emergenziale non possiamo dire se sarà in grado di lasciare qualche frutto duraturo, quando dalla pandemia potremo ragionevolmente pensare di essere usciti.
Se a questo interrogativo non siamo in grado di dare risposte attendibili, possiamo però trarre dall’esperienza di questo periodo elementi utili di riflessione. Anche per questo, nell’occasione delle giornate di studio dell’Aidlass di cui si immaginava lo svolgimento proprio nella ricorrenza del cinquantesimo anniversario dello Statuto, poi rinviate di un anno a causa della pandemia e svolte ancora a distanza, si parla certo di Statuto dei lavoratori ma con lo sguardo rivolto al presente. Un presente che ha accelerato la discussione, già in corso da anni, su questioni di fondo della nostra disciplina: dalla centralità del lavoro dignitoso, al ruolo che lo Stato è chiamato a svolgere per ridurre la povertà e le diseguaglianze, redistribuire le risorse, correggere le storture del mercato, recuperare lo svantaggio che colpisce le donne e i giovani.
Delle questioni di fondo fa parte, e non è una parte minore, la riflessione sul nostro diritto sindacale, di cui si è giustamente rilevato il declino non solo didattico . Non è un caso, temo, che la legge sulla rappresentatività sindacale (insieme alla legge sul salario minimo, alla quale da più parti si ritiene coessenziale l’estensione erga omnes almeno parziale dei contratti collettivi) , sia sparita nuovamente dai radar. Avremo tuttavia modo di verificare, e forse in tempi relativamente brevi, se nell’agenda del Ministro del lavoro, impegnato non meno di altri ministri nell’attuazione del PNRR, questi temi cruciali per il futuro del nostro sistema di relazioni industriali troveranno finalmente lo spazio che meritano.
2. Tutto ciò considerando, mi pare una buona scelta quella del direttivo dell’AIDLASS di portarci a riflettere sulla libertà e l’attività sindacale, cinquant’anni dopo lo Statuto e nel pieno di una stagione emergenziale, per la salute come per il lavoro.
Come hanno dimostrato le ampie relazioni svolte da Antonio Varesi e Giuseppe Pellacani in queste giornate di studio , sono molte le questioni alle quali si deve tentare di dare risposta. Sempre che si continui a pensare che le profonde trasformazioni del lavoro alle quali stiamo assistendo non abbiano spazzato via la necessità dell’intermediazione dei soggetti collettivi. Anche io penso, come pensava Luigi Mariucci , che resti essenziale la dimensione collettiva degli interessi del lavoro che storicamente si riconduce alle diverse forme di organizzazione sindacale.
Proprio la pandemia, del resto, ci ha messo di fronte all’irrinunciabile ruolo dell’intermediazione sindacale per garantire la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori: intermediazione diversamente declinabile a seconda del ruolo che il sindacato è chiamato a svolgere, e della sede nella quale svolge tale ruolo . Per parte mia, lascerò da parte il ruolo immediatamente politico del sindacato “concertatore”, per guardare alle molte questioni che investono direttamente l’assetto del nostro sistema di relazioni industriali, costruito nel corso dei decenni a partire da quella mancata attuazione dei commi da 2 a 4 dell’art. 39 Cost. Un assetto che da più di un decennio mostra evidenti segni di cedimento.
Un breve intervento non è certo la sede idonea per affrontare con un accettabile livello di approfondimento questioni sulle quali si affaticano da anni gli studiosi del diritto del lavoro. Mi limiterà perciò a mettere sul tavolo qualche argomento degno – a mio giudizio – di essere discusso.
2.1. Non tutte le disposizioni dello Statuto sono state espressamente o implicitamente abrogate, o tanto fortemente rimaneggiate da renderle irriconoscibili; vale dunque la pena di riflettere sulla resistenza agli oltraggi del tempo di alcuni di quelli che, al di là della perdurante attualità dei valori di libertà e dignità affermati dallo Statuto, per lungo tempo abbiamo considerato gli acquis statutari, e oggi ci appaiono, per diverse ragioni, in crisi. Come ho avuto l’occasione di rilevare altrove, del disegno statutario resta fermo, come acquis o punto di non ritorno, il diritto dei lavoratori ad una propria rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro, della quale i datori di lavoro debbono rispettare le prerogative e con la quale sono talora tenuti a negoziare. Non è poco, ma non è abbastanza a fronte dei mutamenti intervenuti nei cinquant’anni che ci separano dall’entrata in vigore dello Statuto.
L’art.19, secondo un giudizio largamente condiviso, è diventato estremamente “gracile”: mutilato dal referendum del 1995, e solo rammendato dalla Corte costituzionale, appare basato su un criterio selettivo che, nella sostanza, consente al datore di lavoro, per il quale non vale (almeno fino al limite della palese discriminazione sindacale) l’obbligo a trattare, di scegliere la composizione del tavolo negoziale.
L’interrogativo che si pone è se costituisca un obiettivo praticabile e ragionevole una riscrittura dell’art. 19, che modifichi i criteri selettivi alla base dell’istituzione delle RSA, conservando però il modello pluralistico, o se, invece, non sarebbe più ragionevole che una legge sulla rappresentanza e rappresentatività sindacale, della quale ormai da più parti si invoca l’intervento, promuovesse un diverso modello di rappresentanza. Promozione, non imposizione: per rispettare il primo comma dell’art. 39 Cost., dovrebbe restare fermo quanto previsto dall’art. 14 St. lav.
Il riferimento è, ovviamente, alla disciplina interconfederale, che istituendo la RSU ha messo in campo un diverso modello, unitario e collegiale, di rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro. Accantonata la rappresentatività presunta, la disciplina interconfederale poggia sulla rappresentatività effettivamente pesata dal consenso elettorale, che determinerà maggioranza e minoranza del collegio.
Penso che se il modello interconfederale potesse sostituire in toto quello legale si potrebbe semplicemente archiviare l’art. 19. Ma le cose non stanno così, perché le RSA previste dalla legge vigente non scompaiono, né potrebbero scomparire perché gli accordi interconfederali non hanno efficacia erga omnes.
Di qui l’interrogativo sulla riscrittura dell’art. 19, che a me pare debba comportare il ripensamento non tanto o non solo dei criteri selettivi, ma, come ho detto, proprio del modello statutario di rappresentanza sindacale.
Nel prefigurare un nuovo modello occorre però tener conto della realtà di oggi, nella quale la stessa idea della rappresentanza sindacale come baluardo dell’effettività dei diritti dei lavoratori (che era l’idea-forza del Titolo III dello Statuto) è messa crisi da una molteplicità di fattori, primo fra tutti la disgregazione della rappresentanza sindacale, di cui costituisce prova tangibile il fenomeno della moltiplicazione abnorme dei contratti collettivi nazionali di categoria, cui fa da pendant la contrattazione aziendale derogatoria che si fa largo tra le pieghe della legislazione sul lavoro.
Ma non trascurerei il peso di altri fattori. A mio parere inadeguata appare oggi anche la delimitazione, mediante soglia numerica e riferimento all’unità produttiva (art. 35 St. lav.), dell’area entro la quale si costituisce e opera la rappresentanza sindacale, messa in crisi dalla diffusione di micro imprese al di sotto della soglia numerica e dalla crescente importanza del lavoro digitale. Non parlo solo dei lavoretti della gig economy gestiti dalle piattaforme, ma della diffusione del lavoro da remoto e dello smart working che coinvolgono una percentuale elevata di lavoratori, che non hanno più una presenza stabile in un luogo di lavoro, che è anche luogo di aggregazione e di confronto con gli altri lavoratori. La dispersione in luoghi remoti fa venir meno il collante dell’attività sindacale, quello che da sempre spinge ad organizzarsi, e sfida la capacità dei sindacati di rappresentare anche i lavoratori dispersi, oltre ai precari del lavoro frammentato.
2.2. Se dal livello per così dire di base dell’attività sindacale spostiamo lo sguardo al livello del vertice, incontriamo “il tema dei temi” del diritto sindacale attuale; l’animato dibattito in corso, al di là delle opinioni che si possono avere sulle diverse soluzioni prospettate, ha il merito di renderci avvertiti della grande distanza che ci separa dalla stagione di cui lo Statuto è stato insieme il frutto e l’icona.
Nella parte in cui regolava le RSA definendo l’ambito (selettivo) della loro costituzione, lo Statuto, secondo l’interpretazione accreditata, era una legge “promozionale”: nel senso che l’intervento dello Stato era diretto (solo) a promuovere l’attività dei sindacati della cui maggiore rappresentatività all’epoca non vi era ragione di dubitare. Ridotto all’osso, il significato della legge promozionale era questo: è vero che nel modello prefigurato dall’art. 39 Cost. lo Stato detta le regole di base del funzionamento dell’ordinamento sindacale, ma il legislatore ha ritenuto di doversi fermare al solo primo comma, salvaguardando l’autonomia dell’ordinamento che le organizzazioni sindacali si danno, e sostenendola senza regolarla. Insomma, dell’art. 39 conta solo il primo comma; oltre vi è il sistema di fatto che vive legittimamente (e prospera) fuori dall’art. 39. Solo che il sistema non prospera più. Il ruolo meramente “promozionale” che lo Statuto assegnava all’intero Titolo III della legge non appare oggi all’altezza dei problemi che investono l’intero campo delle relazioni industriali.
Rispetto allo Statuto, che ancora si muoveva sulla linea del non intervento diretto della legge, è diventata evidente (ed è infatti largamente condivisa) proprio l’esigenza di un intervento diretto della legge, che dettando le regole (eventualmente facendo tesoro di quanto le parti sociali hanno concordato tra di loro) sulla rappresentanza e rappresentatività dei soggetti collettivi (sindacati e associazioni dei datori di lavoro) garantisca la tenuta della contrattazione collettiva nazionale (della quale a mio giudizio va riaffermato il ruolo prioritario), ma anche della contrattazione decentrata (specialmente aziendale), il cui ruolo (al di là delle enfatizzazioni di troppo) deve essere tenuto in considerazione dal legislatore, al fine di porre le basi per un ordinato sistema “two tier”.
Per ciò che specialmente attiene alla contrattazione nazionale, i nodi da sciogliere sono tanti, e il più urgente è disboscare la giungla contrattuale e il dumping che la infesta. Personalmente credo che lo scoglio dell’art. 39, commi 2 e ss., Cost., non possa essere facilmente aggirato; ma sono consapevole della difficoltà di prospettare soluzioni che contro quello scoglio vadano direttamente a sbattere. Anche se credo che sia possibile (ma non ho qui la possibilità di approfondire) una lettura del disegno costituzionale di cui l’art. 39 è frutto, che coordini il primo comma con i commi successivi, anziché limitarsi a denunciare l’incompatibilità tra la libertà sindacale sancita dal primo comma e la predeterminazione della categoria che sarebbe prevista dal quarto comma. Se così fosse non vi sarebbe altra possibilità che l’abrogazione della seconda parte dell’art. 39. Altre strade sono invece possibili, come dimostrano le proposte avanzate, nell’ambito della nostra disciplina, da valenti studiosi esperti di diritto sindacale; il che naturalmente non significa che quelle strade possibili siano anche politicamente praticabili.
In ogni caso, che l’art. 39 sia aggirato o sia invece preso di petto, il nodo della definizione della categoria è sempre lì, a fare da pietra d’inciampo sul cammino dei riformatori: mentre si infittiscono le proposte su come procedere ad una “perimetrazione” (con questo termine, passato dal lessico sindacale al linguaggio dei giuristi si intende la definizione dell’ambito di applicazione dei contratti collettivi) rispettosa del principio di libertà sancito dal primo comma dell’art. 39, riemerge la tentazione di affidarsi al buon vecchio art. 2070 c.c., di corporativa memoria.
Ma è una tentazione da respingere. Intendiamoci: nulla da ridire sulle indicazioni contenute nel Patto della fabbrica, che impegnano tuttavia alla ridefinizione dei perimetri le sole parti stipulanti, e ben vengano le iniziative del CNEL che hanno portato all’approvazione per legge (d.l. n. 76/2020, art. 16 quater) del codice univoco alfanumerico per identificare i contratti collettivi, dal quale è ragionevole attendersi l’acquisizione di dati molto importanti sulla applicazione dei contratti collettivi nei macro-settori e nei sotto-settori individuati in base all’attività economica delle imprese, e per questa via, sulla rappresentatività delle parti stipulanti .
Il problema al quale facevo riferimento, scartando l’idea di una reviviscenza dell’art. 2070 c.c., è quello della eventuale “perimetrazione” per legge della categoria nell’ambito della quale, pesata la maggiore rappresentatività comparativa del sindacato (ma più speso della coalizione sindacale) e dell’organizzazione datoriale stipulanti, si possa procedere all’estensione erga omnes del contratto (o della sola parte salariale di esso). L’intervento della legge implica una selezione eteronoma a fronte di scelte autonome di perimetrazioni diversificate: dalla trasversalità alla frammentazione delle categorie come tradizionalmente definite dai contratti collettivi nazionali. Il terreno non è così dissodato come appare ai più ottimisti commentatori della sentenza n. 51/2015 della Corte costituzionale, e il nodo della conformità all’art. 39, comma 1, Cost., non si scioglie con un colpo di spada.
2.3. Ai due argomenti segnalati in queste brevi note, vorrei aggiungere un terzo argomento che mi pare meritevole di discussione.
Disposizione simbolo e architrave dell’intera parte dello Statuto dedicata alla tutela della libertà e attività sindacale è certamente l’art. 28. Ebbene, la repressione della condotta antisindacale sta cedendo il passo alla discriminazione per “convinzioni personali” (dove per convinzione si intende l’ideologia sindacale: espressione che non uso a caso, perché è quella usata dai giudici) . È una mutazione importante (al di là dei vantaggi processuali) perché mette in campo un corpus normativo (il diritto antidiscriminatorio) molto sviluppato sulla carta, ma poco presente nelle aule giudiziarie. Il passaggio dalla repressione della condotta antisindacale alla discriminazione per “convinzioni personali” modifica, insieme alla legittimazione al ricorso, il “bene protetto”, allargando l’orizzonte oltre il lavoro subordinato (che fa da confine, secondo alcuni giudici, ma non tutti, anche all’art. 28) e aprendo la porta alla considerazione della discriminazione individuale, ma soprattutto collettiva, diretta, ma soprattutto indiretta, potenziale e non solo attuale.
Questo allargamento dell’orizzonte va di pari passo con l’infittirsi dei licenziamenti giudicati discriminatori anche per ragioni sindacali: fenomeno nel quale pare di poter cogliere una sorta di “vendetta” dell’art. 18, uno dei pilastri (preterintenzionale: così ci dicono gli atti parlamentati) dello Statuto, che di recente il legislatore ha pensato bene di togliere di mezzo, lasciando tuttavia aperto il campo alle incursioni della Corte costituzionale, e a quella sorta di silenziosa riespansione della reintegrazione che prende corpo nella giurisprudenza dei giudici di merito e della stessa Corte di cassazione. A dimostrazione della resilienza (ma forse, meglio, della resistenza) di alcuni valori ai quali lo Statuto dei lavoratori aveva fornito le gambe dei diritti giustiziabili.