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1. Il titolo della tavola rotonda, come quello delle giornate di studio, è “Libertà e attività sindacale dopo i cinquant’anni dello Statuto dei lavoratori”.

Essendo, com’è noto, un giurista di antica osservanza, sono un po' a disagio ad affrontare temi che toccano problemi che sono soprattutto di politica sindacale e di relazioni industriali.

Dirò, quindi, qualcosa come posso anche di questi problemi, ma, variando sia pur di poco la prospettiva dei ricordi, uscirò dalle righe.

Ciò mi sarà consentito dall’amabile e gentile presidente di questa tavola rotonda per due ragioni.

La prima ragione è che, a mio avviso, l’attività sindacale è, ed è stata, inevitabilmente condizionata dai rapporti di forza espressi dalla realtà del contesto economico e da quelle che, nel tempo, sono state le sue stesse vicende. Pertanto, il discorso su quell’attività appartiene, a mio avviso, a competenze diverse da quelle di un semplice “tecnico” del diritto come sono io.

La seconda ragione è che, per parlare della libertà e dell’attività sindacale, è, comunque, necessario ricordare che il loro presupposto essenziale e determinante è costituto dalla tutela della libertà e della dignità dei singoli lavoratori della quale qui non si parla, ma che è stata, per la prima volta, realizzata proprio dallo Statuto dei lavoratori.

2. Orbene, prima del 1970, come ricorda chi c’era, accadeva che: gli accertamenti sanitari erano eseguiti dai medici di fabbrica che, a volte, imponevano a chi era ancora malato di riprendere il posto di lavoro; le sanzioni disciplinari erano applicate senza alcuna garanzia; i datori di lavoro potevano eseguire senza limiti indagini anche sulle opinioni dei lavoratori tant’è che molte aziende avevano provveduto ad una analitica schedatura dei loro dipendenti.

Si aggiunga che, come abbiamo appreso dalle sentenze, v’erano anche datori di lavoro che avevano tolto le porte dei bagni per controllare meglio i loro dipendenti, mentre, in altri casi, ascoltavano le conversazioni private delle centraliniste.

Si comprende, allora, come, in questa situazione, l’attività sindacale era sostanzialmente limitata alla stipulazione dei contratti collettivi nazionali e ad influenzare l’attività legislativa.

Era, infatti, difficile, se non impossibile, svolgere attività sindacale all’interno dei luoghi di lavoro anche perché, almeno fino al 1966, i datori di lavoro si sbarazzavano facilmente dei sindacalisti e dei sindacalizzati perchè godevano della più assoluta libertà di licenziamento.

3. A questa situazione ha posto rimedio lo Statuto dei lavoratori con le disposizioni contenute nel titolo I. Anzi, direi che continua a porre rimedio non condividendo l’impressione di Franco Carinci il quale, come avete sentito, ritiene lo Statuto sia rimasto un “guscio vuoto”.

Certo, la disciplina destinata a tutelare la libertà e la dignità dei singoli lavoratori ha subito modificazioni.

Soprattutto sono stati modificati l’art. 4 che limiti i controlli a distanza e l’art. 13 che disciplina le mansioni. Modifiche, però, che, da un lato, sono state attuate in modo talmente maldestro che non mi sembra la giurisprudenza abbia dovuto modificare nella sostanza gli orientamenti che già erano consolidati e, d’altro lato, sono, almeno in parte, giustificate dalla necessità di tener conto delle sopravvenute innovazioni tecnologiche.

Per contro, deve essere ricordato che, almeno con riguardo alle sanzioni disciplinari, la tutela dei lavoratori prevista dallo Statuto è stata intensificata quando, non senza qualche difficoltà, anche il licenziamento è stato considerato sanzione disciplinare.

4. Certo, dopo i provvedimenti legislativi del 2012 e del 2015 è stata ridotta la tutela reale che era stata prevista, per tutti i licenziamenti illegittimi, dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

Al riguardo, però, continuo a restare convinto che la radicale e determinante limitazione della libertà di licenziamento è stata quella prevista dalla legge del 1966 che, per la prima volta, ha imposto limiti sostanziali al potere del datore di lavoro.

Rispetto alla legge del 1966 lo Statuto dei lavoratori non aggiunse limiti nuovi, e più rigorosi, al potere del licenziamento, ma, promettendo ai lavoratori licenziati una tutela reale, ha operato esclusivamente sulle sanzioni e, cioè, sui rimedi.

5. Promesse, però, non realizzate anche, se non soprattutto, perchè non realizzabili.

Bisognerebbe ricordare che, per Gino Giugni, la tutela reale era una tutela “inutile”, mentre per Federico Mancini è un “valore etico”, per Umberto Romagnoli e Massimo D’Antona è una tutela “immaginaria” e per Edoardo Ghera è una “mera in alternativa nominale a quella obbligatoria”.

Ed infatti, stante l’impossibilità di imporre al datore di lavoro di eseguire prestazioni personali e la mancata previsione di misure che, sia pure indirettamente, rendono effettivo l’ordine di reintegrazione, la tutela reale ha finito quasi sempre per degradare a tutela obbligatoria.

Resta che, anche con le riforme del 2012 e del 2015, è ancora prevista la tutela reale per i licenziamenti “odiosi” e, cioè, per i licenziamenti nei quali lo strapotere del datore di lavoro assume connotati di riprorevolezza sociale.

Per il resto, tutto si riduce alla questione del livello quantitativo del risarcimento sia esso l’unica sanzione prevista per i licenziamenti ingiustificati, sia esso la conseguenza della mancata attuazione della tutela reale.

6. Anche con riguardo alle disposizioni contenute nei titoli II e III lo Statuto dei lavoratori continua ad essere determinante.

Prima dell’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori il sindacato restava fuori dei cancelli aziendali, mentre all’interno delle fabbriche esisteva soltanto l’eventuale, e comunque debole, presidio delle commissioni interne che, essendo composte esclusivamente da dipendenti del datore di lavoro, erano esposte a ricatti e a tentativi di corruzione.

Rispetto a questa situazione, è evidente la perdurante importanza delle disposizioni che hanno vietato le discriminazioni, che hanno consentito le assemblee e i referendum, i permessi sindacali e le affissioni nonché la riscossione dei contributi sindacali. A maggior ragione, sono ancora importanti le disposizioni che hanno consentito la costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali.

7. Peraltro, queste disposizioni non solo hanno resa effettiva e garantita la libertà dell’azione sindacale, ma hanno anche concorso alla diffusione di una coscienza sociale.

E, se poi, è accaduto che negli ultimi anni (vedi anche le vicende dell’art. 19 dello Statuto) l’effettività dell’azione sindacale si è andata attenuando ciò è stato, molto probabilmente, conseguenza delle intervenute modificazioni della situazione economica e sociale che hanno determinato scelte diverse di politica sindacale. E’ stato, forse, conseguenza anche dell’inerzia del legislatore e della accomodante utopia dei giudici costituzionali.

Resta, però, che i veri e propri sindacati, che una volta si chiamavano confederali, continuano a godere le tutele, le garanzie e le prerogative previste dalla legge del 1970 anche se, ancora una volta, hanno l’onere di confrontarsi con altre, e diverse, iniziative sindacali.

8. Sono queste le ragioni per cui, a mio avviso, le disposizioni contenute nei titoli II e III dello Statuto dei lavoratori continuano ad essere importanti anche perché, a ben guardare, hanno introdotto, nei fatti, un modello alternativo a quello previsto dai commi successivi al primo dell’art. 39 Cost. dei quali è oramai necessario constatare l’inapplicabilità.

Direi di più. Nelle previsioni del legislatore costituente che ha scritto l’art. 39 non era contemplato un sostegno all’azione sindacale (come l’art. 47 lo prevede per il risparmio), ma c’era soltanto la fiducia che il sindacato, con la sua forza, è grado di realizzare un’effettiva tutela dei lavoratori.

La netta impressione, quindi, è che, mancando l’attuazione dell’art. 39 Cost., con riguardo alla tutela della libertà e dell’attività sindacale, sarebbe stato difficile fare di più di quanto ha fatto il legislatore ordinario del 1970.

Oltretutto, se si considerano i tentativi di una legge sindacale, è necessario dare atto che il riconoscimento della libertà sindacale (primo comma, art. 39 Cost.) è contraddittorio rispetto alle modalità con cui è stato previsto un contratto collettivo ad efficacia generale (quarto comma, art. 39 Cost.) e, quindi, costituisce un limite invalicabile al legislatore ordinario.

Basti pensare al problema, del quale ora si discute, dei “parametri” che dovrebbero definire l’ambito soggettivo di applicazione della contrattazione collettiva con efficacia generale. Problema che si pone soltanto perché i giudici, proprio in omaggio della libertà sindacale, hanno superato il vincolo dell’attività prevalentemente svolta dal datore di lavoro previsto dall’art. 2070 Cod. Proc. Civ.

9. Non so se l’attuale clima politica consentirebbe un ulteriore intervento rispetto a quello previsto dallo Statuto dei lavoratori.

Se lo consentisse, sarebbe da proporre, per agevolarlo, di abolire il secondo, terzo e quarto comma dell’art. 39 e sostituirli con un unico comma formulato in termini analoghi a quelli in cui è stato formulato l’art. 40 Cost.: “La legge determina le condizioni e le modalità con cui i contratti collettivi hanno efficacia generale”.

Tuttavia, considerata l’esperienza di questi ultimi trent’anni, avrei il timore di un qualsiasi intervento di un legislatore grossolano, ambiguo e contraddittorio.

Meglio è, allora, accontentarsi delle incertezze attuali affidando tutto all’autonomia sindacale che, se non altro, può tener conto delle continue variazioni del contesto economico e sociale e, soprattutto, alla saggezza, se non al coraggio, della giurisprudenza.

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