testo integrale con note e bibliografia
1. Anzitutto un sincero ringraziamento, anche da parte mia, a tutti coloro che, in maniera ineccepibile in circostanze difficili, hanno consentito di svolgere queste Giornate di studio, purtroppo più volte rinviate rispetto alla data originaria, il maggio 2020, mese in cui lo Statuto dei lavoratori ha compiuto i cinquant'anni.
Un ringraziamento particolare per i relatori, il cui impegno ha dato risultati assai interessanti.
Sarò molto schematico, soprattutto perché vorrei soffermarmi su un punto di fondo della tematica così centrale e complessa di cui ci stiamo occupando e qui non posso che farlo per passaggi essenziali.
Ho l'impressione che la riflessione potrebbe giovarsi di una maggiore attenzione al rapporto tra ordinamento statuale e ordinamento intersindacale, anzitutto in chiave storica, cominciando dal concetto di ordinamento intersindacale e dalle sue implicazioni. Non dico ovviamente nulla di nuovo: si tratta di un piano ampiamente riemerso anche ieri come oggi, specie nelle relazioni e nella Tavola rotonda, nondimeno mi pare il caso, al riguardo, di insistere.
Dei tanti contenuti delle due relazioni mi limito a ricordarne due, nella prospettiva appena indicata particolarmente stimolanti.
Delle riflessioni di Giuseppe Pellacani rammento l’importante passaggio concernente la rilevanza attribuita ad alcune vicende sindacali a cavallo dello scorso decennio e i primi anni di quello attuale (il cd. Patto della fabbrica del 2018, l’accordo sulla misurazione della rappresentatività del 2019, la ripresa della concertazione in occasione della pandemia da Covid-19), che per Pellacani avrebbero ridato spinta all'ordinamento intersindacale. Dell’analisi di Pietro Antonio Varesi riprendo invece il leitmotiv, cioè il recupero del criterio del sindacato comparativamente più rappresentativo, che Varesi propone di rilanciare nell'ambito di un cauto intervento legislativo. Tanto l'uno quanto l'altro tema inducono a mio avviso a insistere nella prospettiva di cui dicevo, muovendo dall'ordinamento intersindacale.
Durante la Tavola rotonda Maria Vittoria Ballestrero, tra le molte osservazioni interessanti, affermava: "il sistema sindacale di fatto non c'è più". A queste parole mi pare si raccordasse, in piena sintonia, Tiziano Treu: assai eloquente, tra le sue varie considerazioni al riguardo, quella in cui ricordava che del mutuo riconoscimento, in passato cardine delle nostre relazioni sindacali, oggi c'è poco e, quel poco che c'è, risulta presidiato in via amministrativa. Questo profilo conduce ai, ed è amplificato dai, problemi in merito alla rappresentatività datoriale e alla proliferazione dei contratti collettivi, rimarcati dallo stesso Treu come da altri interventi. Non c'è bisogno di rilevare che siamo al cuore dell'ordinamento intersindacale. Effettività e mutuo riconoscimento, aggiungo (per la strettissima correlazione) unità di azione sindacale: parole estremamente significative, che rimandano a una pluridecennale esperienza.
Non voglio naturalmente affermare che l'ordinamento intersindacale sia uno e uno soltanto, ritornando a dibattiti degli anni '60; bensì, più semplicemente, intendo dire che l'ordinamento intersindacale teorizzato da Gino Giugni aveva precise caratteristiche: che costituivano elementi decisivi, non solo per parlare di "ordinamento" nella ricostruzione di Giugni, ma anche perché questo ordinamento potesse supplire all'inattuazione della seconda parte dell'art. 39, come a me, e non solo a me, sembra sia avvenuto. In tal modo superando, forse nascondendo, il conflitto tra autonomia ed eteronomia presente nell'art. 39 Cost., che lo stesso articolo a mio parere ritiene superabile e da superare.
Allora, se non esiste un ordinamento intersindacale, è però fondamentale dire che, a giocare quel ruolo di supplenza, è stato un determinato ordinamento intersindacale: tale ordinamento ha costituito l'asse portante nella nostra esperienza sindacale repubblicana del Novecento; eloquentemente, era sotteso alla versione originaria dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori. Allo stesso tempo - è altrettanto fondamentale dirlo - a quella esperienza appartiene, in essa è da inquadrare: da questo punto di vista occorre fare molta attenzione a parlare genericamente e indifferentemente di ordinamento intersindacale, come pure di ordinamento sindacale tout court, senza l’indispensabile contestualizzazione storica.
2. Oggi tanto è cambiato dello scenario sociale ed economico nel quale la teoria di Giugni si inquadrava.
Gli accordi interconfederali dello scorso decennio (quelli ricordati da Pellacani, del 2018 e del 2019, ma ancor prima gli accordi del 2011, del 2013 e del 2014), in proposito, sono emblematici: realizzano, rectius, si propongono di realizzare il passaggio dall'unità di azione tra le tre grandi e storiche confederazioni, Cgil Cisl e Uil - su cui si basava il "riconoscimento" da parte dell’interlocutore datoriale - a un'unità fondata su regole e procedure a sostegno del criterio decisionale maggioritario.
Al di là di questo o quel tentativo per valorizzare detto cambiamento, anche in possibile interazione col piano legislativo, credo che il passaggio sia estremamente rilevante e che vada oltre un possibile, in qualche misura, recente ritorno a dinamiche del passato, se si preferisce della predetta unità di azione sindacale.
Il passaggio all'unità procedurale esprime davvero quel "mutato scenario delle relazioni sindacali" dal quale ha preso le mosse la ben nota e importante sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 2013 sull'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori: coerentemente alla sua origine, rinomato “sismografo” delle nostre relazioni sindacali, non a caso modificato dalla Consulta nel 2013 a fronte di cambiamenti sostanziali più evidenti che in passato.
L'aver posto le procedure al centro della scena è, da parte dell’autonomia collettiva, esplicita presa d’atto, per un verso, della debolezza della fattualità, per altro verso del bisogno di certezza e verifica della rappresentatività sindacale. In altre parole, è una profonda e rilevante novità nel segno dell’estensione e del rafforzamento della democrazia sindacale. Ma, se questo è, occorre essere attenti: verifica e certezza della rappresentatività, per essere tali, devono avere base "generale", devono cioè coinvolgere, già formalmente, tutti gli interessati, sul piano sia individuale sia collettivo; a differenza della "effettività", che la misurazione della rappresentatività può lasciare anche alla presunzione e a connotazioni tendenziali.
Non si tratta - per richiamare il suggestivo intervento di Armando Tursi - di contrapporre diritto comune e diritto sindacale, che pure hanno vissuto (è noto) un proficuo incontro negli anni Cinquanta, quanto piuttosto di prendere atto, da un lato, che il fenomeno collettivo, compiutamente inteso nella sua dimensione superindividuale, nel diritto dei privati sta stretto anzitutto sul piano concettuale; dall’altro lato che non possiamo continuare a non fare pienamente i conti con quella intrinseca dimensione. È d'altronde un'esigenza sorta da tempo: secondo un pensiero - si sa - di molti, negli ultimi anni anche più diffuso, e che ormai ha fatto breccia pure tra le grandi confederazioni.
Il discorso coinvolge ovviamente i vari profili dell'azione sindacale.
Ancora schematizzando, riguarda tanto l'affidabilità e l'utilità politico-sociale del coinvolgimento del sindacato sui diversi versanti istituzionali quanto, e ancor prima, l'effettivo radicamento dell'azione sindacale. Piani strettamente intrecciati.
La seconda esigenza oggi si avverte più che mai con forza a fronte della sempre più accentuata frammentazione del lavoro, nelle sue varie espressioni e nei suoi molteplici aspetti, che - a mio parere - proprio nel rafforzamento della democrazia sindacale trova (se non il primo) un ineludibile rimedio.
Come in precedenza accennato, ormai da diversi anni occorre fare i conti pure con l’indebolimento della rappresentatività sul fronte datoriale, che ha vissuto e vive un’articolazione interna parallelamente alla riduzione del ruolo aggregante di Confindustria. Anzi, per più d’uno, è questa, allo stato, la questione più problematica. D’altro canto, quanto previsto nel già menzionato Patto della fabbrica del marzo 2018 in merito, appunto, alla misurazione anche della rappresentatività datoriale e alla perimetrazione dei contratti collettivi è sufficientemente significativo.
3. Dunque, un’eventuale recente ripresa dell’unità di azione tra le grandi Confederazioni sindacali dei lavoratori in relazione a questa o a quella vicenda non deve, secondo me, trarre in inganno. In verità, anche Pellacani, che - ricordavo prima – sembra ritenere negli ultimi anni in ripresa lo storico ordinamento intersindacale, nello sviluppo della sua analisi mi pare al riguardo più problematico. Anch’egli, in primo luogo, ridà dovuto risalto alla questione del fondamento della rappresentanza e della rappresentatività sindacale in una “democrazia adulta”; in secondo luogo si sofferma ampiamente ed eloquentemente sull’annoso problema dell’efficacia soggettiva dei Protocolli sottoscritti dalle parti sociali nell’ambito della normativa di contrasto al Covid-19.
Il punto è che il sistema sindacale non può fondarsi su, e dipendere da, elementi deboli e contingenti (congiunture economiche negative, variazioni del quadro politico, trasformazioni delle organizzazioni produttive e del mondo del lavoro, mutamenti dei rapporti con la controparte, tensioni tra le grandi confederazioni sindacali, caratteristiche delle materie oggetto d’intervento e via dicendo). Ha invece bisogno, in una parola, di solidità, perché di solidità hanno bisogno le relazioni di lavoro e, più, in generale, le relazioni economiche e sociali. Le trasformazioni che hanno profondamente cambiato la nostra società, in tutte le sue sfaccettature, hanno privato il “sistema sindacale di fatto” di quella solidità (appena sufficiente) che aveva consentito di andare avanti nella seconda metà del Novecento, pur non senza delicate fasi di incertezza e di difficoltà.
Muovendo da tali consapevolezze, gli ostacoli incontrati, nella concreta attuazione, dai rammentati accordi interconfederali dello scorso decennio non devono stupire; piuttosto devono indurre a guardare avanti con chiarezza di idee e determinazione.
Non devono stupire perché gli accordi interconfederali non sono un prodotto dell’effettività: le norme che contengono non sono il frutto dell’esperienza. È il contrario: gli accordi nascono in seguito alla ricordata fine di alcuni capisaldi del sistema sindacale di fatto. Considerarli genericamente espressione dell’ordinamento sindacale nel nuovo secolo, come affermato da Varesi, non aiuta granché: la distanza dall’ordinamento intersindacale supplente dell’art. 39, seconda parte Cost., è considerevole. In sostanza, la realtà ha smarrito la sua forza normativa: ora sono gli accordi a dover svolgere, rispetto ad essa, una funzione prescrittiva. Ma qui, nel radicale cambio di prospettiva, scontano anzitutto le debolezze strutturali di cui dicevo in merito al carattere generale del loro fondamento e alle relative implicazioni.
Ciò non significa, ovviamente, allontanare dalla scena l’autonomia collettiva. Come dicevo prima, il rafforzamento della democrazia sindacale, a parer mio, costituisce una strada obbligata per ricucire il tessuto sociale in tutti i suoi sfilacciamenti e strappi evidenziati con forza dal nuovo secolo. Il rafforzamento della democrazia sindacale, però, per essere tale e, quindi, solido non può che essere sinonimo di legittimazione istituzionale e di conseguente adeguatezza giuridica: affinché tutti gli interessati avvertano come proprie le regole prodotte e da queste si sentano vincolati. Esigenze non risolutive ma, per un verso, imprescindibili, al cospetto di contesti articolati e compositi ancor prima che segnati da difficoltà economiche, per altro verso giuridicamente incompatibili sia con percorsi autoreferenziali sia con la dimensione privatistico-individuale; guide, queste ultime, adatte, nella migliore delle ipotesi, a tragitti più o meno brevi. Se si vuole o, forse più realisticamente, se si è obbligati a guardare oltre, indispensabili appaiono normative originate sì dal basso ma, al contempo, forti del sostegno dell’ordinamento statutale: segnatamente delle risorse di cui questo dispone a supporto dei circuiti democratici decisionali adatti alla complessità di una società contemporanea.
4. Sotto tale profilo non appaiono adeguate, ancorché sostenute dal legislatore, soluzioni basate su una pluralità non ben definita di indici per la misurazione della rappresentatività sindacale o meccanismi di estensione dell’efficacia del contratto collettivo in riferimento a questo o a quell’istituto che non siano frutto di chiare e compiute scelte normative. Sicché non convince la prospettiva, delineata da Varesi, di un circoscritto intervento del legislatore per il recupero della nozione di sindacato comparativamente più rappresentativo, unitamente alla riproposizione di escamotages interpretativi, già tante volte e da tanti così non a caso denominati (come quello incentrato sull’art. 36 Cost. per garantire l’efficacia generale delle clausole concernente i minimi retributivi), prospettiva per entrambi gli aspetti radicata nel passato. Mi è sembrato sempre poco fecondo considerare l’art. 39, seconda parte, Cost. una norma sostanzialmente da “disinnescare” piuttosto che un importante insieme di principi, regole ed esigenze ben avvertite già dai Padri costituenti.
Questi discorsi - si potrà osservare - si sentono ripetere da molto tempo. Non è una ragione sufficiente per tacerli, a mio avviso. A parte la permanente vigenza di una norma costituzionale - come tale meritevole della massima attenzione -, è da molto tempo che sentiamo anche chiedere condizioni strutturali più idonee per lo sviluppo economico e sociale del nostro Paese. Allora oggi è inevitabile tornare su tutto ciò, ancor più alla vigilia della ripartenza dopo la difficilissima emergenza pandemica. Una fase assai impegnativa e, al contempo, potenzialmente ricca di prospettive: che suggerisce e richiede un salto di qualità delle nostre relazioni sindacali e di lavoro, dalle indiscutibili proiezioni di carattere generale sui versanti, appunto, economico e sociale. Il silenzio, al riguardo, dell’ultima versione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza - ricordatoci da Pellacani - se finanche comprensibile, considerando proprio le pluridecennali difficoltà della legge sulla rappresentatività sindacale a fronte del carattere stringente degli impegni europei, deve ancor più invitare a non tacere sulla questione, non foss’altro che per un’ineludibile attenzione alle responsabilità politico-istituzionali.
Nuove ragioni, dunque, invitano, ancora una volta, ad affrontare l’anomia del nostro diritto sindacale. L’autonomia collettiva, come sempre, è, sì, una strada obbligata, ma, da tempo ormai, necessita di essere integrata strutturalmente con le risorse normative dell’ordinamento statuale. Occorre ripeterlo perché occorre guardare avanti, con consapevolezza e convinzione, sulla base delle fruttuose esperienze che al passato appartengono.