Testo integrale con note e bibliografia
1. Un vecchio proverbio milanese ammonisce: Ofele’ fa ‘l to’ meste’.
Se non per quanto è indispensabile alla comprensione del caso, perfettamente interno, anzi centrale nelle problematiche lavoristiche, io mi occuperò dei profili costituzionalistici, che sono a loro volta centrali e fondativi della nostra disciplina e che hanno ricevuto, anche recentemente, una forte spinta di attualizzazione nell’acceso dibattito tra studiosi al quale farò riferimento, sia pure in breve.
2. La disputa sui poteri/limiti della Corte cost. è antica. Quale ruolo ha, o pretende di avere – a dire dei suoi aspri critici – questa rilevantissima istituzione della Repubblica? La Corte costituzionale è andata oltre i limiti che le sono propri? Si è mossa… ultra vires?
La disputa è risalente. In via generale debbo citare per primo il volume degli studi in onore di A. Pizzorusso pubblicato dal Gruppo di Pisa a cura di R. Romboli con eccellenti prese di posizione di Angiolini, Dogliani, Bin, Spadaro e altri . L’amico e stimato collega Andrea Morrone – che è l’autore delle critiche più acuminate, che esaminerò tra poco – arriva a paventare un tentativo, rinforzato di recente, della Corte di mettersi in relazione diretta con l’opinione pubblica e con il popolo. Per dirla chiaramente lo scopo sarebbe la ricerca di una legittimazione popolare. Un comportamento, questo, che non troverebbe giustificazione né per la parte funzionale (attinente dunque al nesso tra l’organo e le sue competenze) né per le ulteriori attività istituzionali che la Corte eserciterebbe oltre il recinto della Costituzione.
Entriamo in media res: parlando delle conseguenze finanziarie di una delle decisioni esemplari di tale indirizzo, la n. 10 del 2015 che ha annullato la c.d. Robin Hood Tax, lo stesso Morrone paventava già un lustro fa l’emersione di un eccesso di potere della giurisdizione costituzionale. Ed il denunciato rafforzamento di questo vento insidioso andrebbe nella stessa direzione anche nel caso della sentenza n. 59/2021 che oggi esaminiamo. È la ragione, immagino, che ha propiziato il mio intervento odierno.
Così dicendo ho già messo, per così dire, le carte in tavola. Necessita, a questo punto, solo un caveat che sottolinei fin dall’esordio – ma è cosa scontata in una comunità di studiosi – l’utilità anzi la necessarietà, della critica da parte degli studiosi, e dunque della dottrina, perché se è vero che la forza delle decisioni della Corte sta nella loro definitività – nella lingua inglese c’è un aggettivo qualificativo secco e appropriato: ultimate - è altrettanto vero che i giudici sono donne e uomini “d’onore”, cosicché la stima degli appartenenti al loro stesso ceto e quella in se stessi verrebbe colpita e demolita se le sentenze si dimostrassero partigiane, non adeguatamente motivate, incongrue o abnormi: comunque non all’altezza del supremo compito di attuare il diritto ed esserne custodi.
Questo è ciò che ci aspettiamo da un’istituzione che, sia per i compiti ad essa affidati sia per le modalità della sua composizione, viene a trovarsi – obbligatoriamente, necessariamente – al crocevia tra funzione giurisdizionale e funzione politica.
Come del resto, e senza eccessive differenziazioni, avviene anche nelle altre forme di governo democratiche che noi consideriamo viciniori: quelle vigenti negli USA, in Germania, in Spagna e, con qualche appropriato distinguo, anche in Francia e nel Regno Unito.
3. Anticipavo che la discussione sui poteri di cui dispone e i limiti dentro i quali deve restare la Corte sono risalenti; che critiche su sconfinamenti e straripamenti ne sono sempre venute e che conseguentemente è facile, tra le migliaia di decisioni adottate nell’arco di sessantacinque anni, trovare e citare numerosi casi di ὕβϱις (hybris) curtense, laddove i critici hanno ritenuto di vedere delle vere e proprie pronunce “politiche”: o quanto meno sentenze che entrano sul terreno dell’indirizzo politico. La memoria corre immediatamente a tante pronunce sull’ammissibilità o non ammissibilità dei referendum, spesso attinenti una incandescente e non rimuovibile “materia politica”, ad esempio in materia elettorale, o su profili concernenti la bioetica ovvero diritti sui quali la sensibilità dell’opinione pubblica è elevata e schierata in parti contrapposte, non raramente militanti. Valga per tutte la considerazione, che ci è fornita da un Maestro del diritto e della giustizia costituzionale: Gustavo Zagrebelsky, il quale – non in scritti occasionali né con frasi casuali: ma nel suo Manuale – proclama che “in occasione della maggior parte delle decisioni assunte in materia referendaria, la Corte è stata trascinata nel mezzo di forti tensioni politiche, apparendo ora agli uni, ora agli altri (pro o contro i referendum) mossa da interessi di parte” . Lo stesso Presidente emerito, passando a commentare la monumentale sentenza n. 16 del 1978 (relatore Paladin) non esita ad affermare: “si è detto, e non a torto, che con questa decisione straordinariamente costruttivistica la Corte ha riscritto l’art. 75 Cost. e che in questo senso si è trattato di una sentenza costituente”.
In altro campo, nei giudizi in via principale o di azione, la magmatica materia dei rapporti tra Stato e Regioni ha offerto più volte il destro a molte critiche, specialmente ex parte di chi difendeva le autonomie regionali, spesso compresse – non senza vistose corresponsabilità della dirigenza delle stesse Regioni – compresse, dicevo, in favore di una pervasiva competenza statale bon a tout faire: a cominciare da quel capolavoro di intelligenza conservatrice (dello status quo antea) che fu la sentenza n. 303 del 2003, opera del compianto Carlo Mezzanotte – giudice eccellente e giurista raffinatissimo – che si inventò, e fece approvare dai suoi colleghi, la c.d. “chiamata in sussidiarietà”: una strategia processuale, ma con grande impatto sostanziale, volta a riportare nella competenza statale parecchio di quanto il legislatore della revisione costituzionale del 2001 aveva attribuito alle Regioni nel nuovo Titolo V. Ma non è di questo che dobbiamo parlare oggi.
4. Limitiamoci perciò ai giudizi in via incidentale che, come è ben noto, la Corte non si inventa e non sceglie nel mazzo (come fa la sua consorella di Washington) perché le pervengono da un giudice a quo il quale ha già valutato, positivamente, in via incidentale, sia la non manifesta infondatezza che la rilevanza.
Dopo una premessa di inquadramento mi dirigerò al caso che ha dato origine alla disputa sfociata, infine, nella sentenza n. 59/2021, redattore Sciarra, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo: un licenziamento che viene dichiarato nullo e dunque inefficace se il GMO (giustificato motivo oggettivo) viene trovato insussistente in sede processuale.
Già i colleghi Ichino e Perulli hanno disquisito con acume e finezza sulla fondatezza o meno dell’assunto, sia nelle premesse che nelle conseguenze, viste dal punto di vista lavoristico. A me tocca un compito diverso e facendo ciò sono aiutato dal vivace dibattito dottrinale ospitato in diverse sedi, ma soprattutto su Quaderni costituzionali – del cui comitato scientifico sono onorato di essere membro – dove ha visto protagonisti Andrea Morrone, Roberto Bin ed Enzo Cheli . A Morrone ho già fatto cenno pocanzi, ma completo la citazione con una sua ulteriore ampia disamina ospitata da federalismi.it un mese fa. Per la parte generale mi avvalgo inoltre di una recentissima monografia di Diletta Tega che, con profondità e larghezza di esemplificazioni, si è sforzata di porre la Corte nel suo contesto, non escludendo, anzi interrogandosi sui i riflessi di ordine politico del suo operato.
Come anticipavo l’accusa più veemente, espressa già prima del nostro caso odierno, si rivolge non solo nei confronti delle motivazioni circostanziate che, a tale proposito e quando si sostiene che vi siano sconfinamenti di ruolo, vengono addotte dalla Corte, quanto al fatto ben più grave di perseguire un disegno a tutto tondo, che consisterebbe nel voler “coniare nuovi moduli (di giudizio e di decisione) superando le regole processuali esistenti, riscrivendo norme sostanziali, modificando l’equilibrio dei poteri”. Così si è espresso Andrea Morrone il quale sottolinea già di suo, corsivandoli, i tre gerundi che paleserebbero una tale tendenza eversiva.
Se ho ben inteso è questo, nel suo fondo, anche il parere di diversi lavoristi – e non solo loro – sul nostro caso. Il che contribuirebbe ad assegnare alla sentenza in esame il posto della carta mancante per il poker, affiancandosi così al tris delle sentenze n. 1/2014 sulla legge elettorale c.d. Porcellum; la già citata, la n. 10/2015 sulla c.d. Robin Hood Tax e la n. 207/2018 sul caso Cappato. Del resto lo stesso Autore si era già accorto della sentenza n. 194/2018, pubblicata quando già il suo studio di carattere generale era in fase di completamento. La decisione n. 194, anche questa con redattore Sciarra, sulla personalizzazione del risarcimento del danno conseguente al licenziamento illegittimo, veniva etichettata come “frutto di un uso quanto mai discutibile del criterio di proporzionalità” .
Coloro che ritengono provato tale presunto ruolo politico della Corte avrebbero così in mano una combinazione di carte pressoché imbattibile. Inoltre, poiché viviamo ormai nella c.d. società dell’immagine (e dell’iperbole) non ci si sottrae al vezzo di battezzare tale atteggiamento come “suprematismo giudiziario”, tirando per la giacchetta il buon pittore Kasimir Malevic, che aveva coniato l’espressione suprematismo per il suo manifesto estetico lanciato nella Russia dell’ultimo zar nel 1915. Vengono poi i brividi a rievocare anche solo nominalmente e alla lontana i suprematisti bianchi: i Proud boys sdoganati da Trump alla vigilia delle ultime elezioni americane, che figuravano fra i patrioti assalitori di Capitol Hill il 6 gennaio scorso, per non richiamare i massacri di Tulsa 1921, che hanno indotto il Presidente Biden ad affermare solennemente che “il suprematismo bianco è la minaccia più grave” .
Dunque, se non vogliamo parlare di suprematismo – un termine evidentemente infelice perché assurdo, e che oggi Morrone spero non userebbe più - ma ci limitiamo a sconfinamento ovvero più appropriatamente “attivismo molto deciso” della Corte dobbiamo però scrutare dentro il ragionamento dei giudici come i critici della decisione hanno brillantemente fatto.
5. Posso limitarmi a commentare una breve ma ficcante nota stesa da Giuseppe Pellacani per la rivista C.S.D.L.E. “Massimo D’antona”.it che ha il pregio della chiarezza ed è felicemente riassuntiva di molte critiche . Attenendomi al caveat dato a me stesso già all’inizio mi limiterò ai fatti prettamente costituzionalistici che la decisione, nella parte dispositiva, argomenta così ritenendo “che sia irragionevole – in caso di insussistenza del fatto – la disparità di trattamento tra il licenziamento per GMO (c.d. licenziamento economico) e quello per giusta causa” per la circostanza che in quest’ultima ipotesi è previsto l’obbligo della reintegrazione nel posto di lavoro, mentre nell’altra è lasciata alla discrezionalità del giudice la scelta tra la stessa reintegra e la corresponsione di un’indennità”
Credo che ad orientare in una certa direzione il ragionamento prima e il giudizio poi della Corte abbia concorso anche il tipo di linguaggio che, leggendo con le sue lenti la realtà, il legislatore nei suoi diversi passaggi dal 2012 al 2015 aveva ritenuto di usare, laddove la reintegrazione era stabilita dal giudice in presenza di motivazioni manifestamente insussistenti, ma esclusivamente a favore dei lavoratori licenziati per GMS, vale a dire per motivi disciplinari o per giusta causa. Per contro il licenziamento per GMO connesso a ragioni economiche, produttive e organizzative prescriveva di regola la corresponsione di una indennità risarcitoria di entità variabile.
Il ragionamento della Corte potrebbe esser stato questo: così dice la legge, ma noi giudici rileviamo qui una disparità di trattamento che valutiamo irragionevole; dunque nel nostro ufficio di custodi del diritto – ovvero dell’ordinamento costituzionale visto nella sua interezza e completezza – dichiariamo costituzionalmente illegittima e dunque non più efficace tale diversificazione discriminante. Facendo capo ad un ulteriore parametro – quello della proporzionalità – riteniamo che la sproporzione tra il trattamento che riguarda i licenziati per GMO rispetto a quelli colpiti per GMS o giusta causa non sia tollerabile, e dunque la normativa de qua va espunta.
È ovvio che ci muoviamo sul terreno dell’applicazione del principio di eguaglianza tra posizioni supposte uguali, mentre il bilanciamento tra l’implementazione dei valori sottesi agli articoli 4 e 35 da una parte e 41 dall’altra, va, nel caso di specie, a favore dei primi. È tale compito di confronto e bilanciamento che, sempre nel caso di specie, la Corte si intesta, mentre i suoi critici lo assegnano alla discrezionalità del legislatore. Teniamo a mente che nel giorno della festa della Repubblica il Presidente Mattarella ha felicemente sintetizzato che il principio di eguaglianza è “il vero pilastro della Carta costituzionale” che resta ancora da realizzare pienamente .
Nell’unica digressione ad extra che mi consento, rilevo che la Corte e la redattrice, who apparently drived her reasoning, non sono così ingenui e sprovveduti da non rendersi conto di ciò che stanno facendo e dell’impatto che ne deriverà. Ed infatti una scrupolosa dottrina – che pure bacchetta la Corte fin dalla titolazione di un suo commento critico parlando di “inaccettabile discrezionalità” – rileva che la sentenza n. 59 è attenta a circoscrivere la valutazione di irragionevolezza al mero profilo dell’opzione sanzionatoria posta in capo al giudice, ribadendo in più passaggi la discrezionalità legislativa in ordine alle tutele da accordare”: così Bellomo e Preteroti in un recente saggio .
Tuttavia, al punto 9 del Considerato in diritto, dalla Corte sembra alzarsi un tono di indignazione quando adopera parole di forte impatto, anche emozionale. Sentiamo: “L’esercizio arbitrario del potere di licenziamento, sia quando adduce a pretesto un fatto disciplinare inesistente sia quando si appella a una ragione produttiva priva di ogni riscontro, lede l’interesse del lavoratore alla continuità del vincolo negoziale e si risolve in una vicenda traumatica, che vede direttamente implicata la persona del lavoratore”. E così prosegue: “[l]’insussistenza del fatto, pur con le diverse gradazioni che presenta nelle singole fattispecie di licenziamento, denota il contrasto più stridente con il principio di necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro, che questa Corte ha enucleato sulla base degli artt. 4 e 35 Cost.”. Credo che l’aggettivo “stridente”, che evoca il rumore acuto e ingrato del gesso che graffia la lavagna, sia stato usato con parsimonia in passato dalla Corte e segnala sicuramente un malessere di ordine morale.
6. Domandiamoci allora e per infine: si tratta di una sentenza manipolatoria? Sicuramente sì, ma è proprio questa la realtà dell’agire e la responsabilità dei giudici della Corte quando le circostanze lo richiedano. E ciò vale per le Corti supreme che operano sotto ogni meridiano e parallelo.
La nostra Corte non si potrebbe nel caso in esame nascondere dietro un dito o alzando una caligine di parole fumose, perché la sovrapposizione della sua volontà a quella del legislatore è chiarissima ed è significata per verba nel dispositivo finale.
Siamo forse di fronte ad una sentenza che integra uno sconfinamento e dunque eversiva? A mio parere no.
E nello stesso senso argomentano Bin e Cheli. Roberto Bin è secco e convincente nel respingere l’idea dei critici più devastanti secondo i quali la Corte si arrogherebbe il ruolo di modificatrice del “equilibrio dei poteri”, addirittura avendo un “disegno preciso” a tale scopo. Egli parla invece di abulia del legislatore, per molti casi, e io aggiungerei di pressapochismo nel caso di specie, rispetto al quale la Corte ha cercato e trovato una sua strada sforzandosi di modulare gli effetti della propria decisione. Una soluzione che può non piacere, ma resta molto lontana da un progetto di allargamento sregolato dei propri confini. Tante volte, al contrario, la Corte si era anche troppo trattenuta, esibendo una “modestia”, una ritrosia e una “deferenza” che ne avevano fatto una connivente per il reato, politico, di omissione di atti dovuti, come quando reagì con la storica sentenza n. 360 del 1996 che mise fine alla subordinazione alla volontà governativa, non consentendo più la reiterazione sine die dei decreti legge.
Bin ritiene che, se del caso, il suprematismo giudiziario stia altrove e che sarebbero da indagare meglio i rapporti con altri ordinamenti, all’interno della teorica del c.d. “costituzionalismo multilivello”, particolarmente nella relazione, peraltro ineludibile, con le altre due Corti che siedono a Lussemburgo e Strasburgo, ma di ciò non mi posso occupare qui e adesso.
Cheli, per parte sua, critica argomentatamente il radicalismo della tesi di Morrone e di altri che vedrebbero i prodromi, rectius: l’ansia, di instaurare un diverso ordinamento. Riconosce che diverse volte “dentro il flusso concreto della storia” si sono prodotte forte tensioni sui confini del modello costituzionale, ma considera naturalmente evolutiva la presenza e il ruolo delle istituzioni di garanzia – Capo dello Stato e Corte costituzionale – volti a rafforzare la propria legittimazione anche attraverso la ricerca di un consenso indiretto da parte del corpo sociale”.
Ne segue che la legittimazione dell’organo di giustizia costituzionale “nasce pur sempre dalla specifica dotazione non solo tecnica, ma anche culturale che l’organo stesso è in grado di esprimere in un rapporto diretto con la storia sociale del proprio Paese”, non certo attraverso i comunicati stampa, né con la visita alle scuole o alle carceri. Invece, come felicemente sintetizzò un suo grande presidente, Leopoldo Elia, “come tutte le grandi istituzioni la Corte costituzionale italiana, che è forse il miglior prodotto della Costituzione del ’47, ha bisogno di una continua rilegittimazione”. Someone must be trusted, let’s trust the judges.
Parlando, come si è tranquillamente riconosciuto, di sentenze manipolatorie – ci ammonisce Zagrebelsky – ci accostiamo a “quel tanto di significato negativo che esse portano con sé, tanto più in quanto accostato a una funzione di giustizia, dove la manipolazione, qualsiasi cosa significhi, dovrebbe essere esclusa” . Zagrebelsky suggerirebbe allora “sentenze ricostruttive” ed io, nel mio piccolo, sono d’accordo con lui e percepisco che il caso odierno vi rientra perfettamente.
Se non apparisse una conclusione troppo buonista, mi azzarderei a parlare di un rammendo ad opera della Corte del tessuto ordinamentale, che sarebbe instaurato dopo la rammagliatura operata a palazzo della Consulta. Almeno questa è la mia opinione, che vedo suffragata – nella mia lettura, beninteso – da un precedente antico, barbarico ed evocativo. Un grande storico del Medioevo, Aaron Gurevič, nel libro dedicato a Le categorie della cultura medioevale , precisamente nel capitolo intitolato “Un paese si costruisce sul diritto”, dopo aver discusso dell’eterno problema non solo terminologico della relazione tra la legge e il diritto, tra lög e réttr, evoca il re norvegese Magnus Haakonarson, il quale in età barbarica era stato insignito del titolo d’onore di Lagabaetir, che significa “il miglioratore delle leggi”.
Forse alla Corte, araldicamente parlando, piacerebbe assai questa “impresa” .