TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Premessa e contesto – Il recente caso della chiusura dello stabilimento della multinazionale GKN Driveline (di qui: GKN) di Campi Bisenzio (FI) ha messo in evidenza per l’ennesima volta le molteplici questioni che si pongono a fronte di operazioni di delocalizzazione produttiva sia sul piano giuridico, sia sul piano socio-economico.
Quello della GKN è soltanto l’ultimo dei tanti casi di dismissione di siti produttivi a fronte del trasferimento dell’attività, registrati negli ultimi anni su scala nazionale .
In generale, la delocalizzazione può essere configurata come il trasferimento, in tutto o in parte, di un'attività produttiva verso Paesi che offrono maggiori vantaggi competitivi per l'impresa, derivanti da minori costi di manodopera, da una minore regolamentazione del mercato del lavoro nonché da regimi fiscali più favorevoli . Tuttavia, in ragione delle molteplici forme attraverso cui vengono realizzate in concreto tali operazioni, l’elaborazione di una definizione giuridica di delocalizzazione sufficientemente ampia ed elastica risulta complessa .
La delocalizzazione comporta necessariamente una riduzione dei livelli produttivi e occupazionali del sito produttivo che viene totalmente o parzialmente dismesso, con notevole danno al tessuto sociale ed economico locale. Le conseguenze risultano ancor più gravi qualora l’impresa che pone in essere tale operazione abbia beneficiato di contributi pubblici. In tal caso, infatti, agli effetti negativi che di per sé derivano della delocalizzazione si aggiunge la distrazione dell’investimento pubblico che, al contrario, dovrebbe essere diretto al rafforzamento della competitività economica locale e alla creazione di posti di lavoro.
Per arginare questo fenomeno il legislatore, sia europeo, sia nazionale, è intervenuto a più riprese introducendo una serie di vincoli alla delocalizzazione delle imprese beneficiarie di agevolazioni pubbliche dal campo di applicazione più o meno ampio e il cui mancato rispetto comporta, di norma, la decadenza dal beneficio e la revoca delle somme erogate. Tuttavia, considerando la pressoché totale assenza di rilevanti casi di recupero degli aiuti erogati (almeno per quanto riguarda l’esperienza italiana) , è ragionevole affermare che le risposte fornite sul piano normativo non risultano adeguate.
Dopo una breve ricostruzione dell’attuale quadro normativo di riferimento, questo contributo si propone di esaminare le problematiche di carattere sia interpretativo, sia applicativo che incidono sulla relativa efficacia. Infine, ci si chiederà quali possano essere le prospettive evolutive della disciplina anti-delocalizzazione.
2. La normativa anti-delocalizzazione: problematiche interpretative … – La normativa di contrasto alla delocalizzazione appare quanto mai frammentata. In questa sede non sarà possibile analizzarla compiutamente; tuttavia, al fine di comprendere al meglio le possibili cause che ne hanno determinato l’inefficacia, pare utile restituire un quadro d’insieme delle norme attualmente applicabili e, in particolare, dei vincoli di cui al d.l. n. 87/2018 (convertito con modificazioni dalla l. n. 96/2018, di qui: decreto Dignità).
Al livello sovranazionale, il diritto dell’Ue prevede due categorie di vincoli recentemente coordinati tra loro: la prima categoria riguarda gli aiuti di Stato a finalità regionale «agli investimenti» , ovvero gli aiuti di Stato erogati in favore di stabilimenti ubicati in regioni ammissibili agli aiuti regionali e diretti a sostenere investimenti in «attivi materiali e immateriali» di cui al reg. n. 651/2014 (di qui: GBER); la seconda categoria riguarda i programmi co-finanziati dai Fondi SIE, ovvero i Fondi strutturali e di investimento europei disciplinati con il reg. n. 1060/2021.
In particolare, all’art. 14, paragrafi 5 e 16 del GBER si stabilisce che la concessione di aiuti di Stato a finalità regionale che implicano una delocalizzazione da altri paesi dello Spazio economico europeo è sottoposta all'obbligo di notifica individuale alla Commissione ex ante e a controlli rigorosi circa la compatibilità dell’aiuto da parte della Commissione stessa. Gli aiuti a finalità regionale possono essere esentati dalla notifica solo a condizione che il beneficiario si impegni a non effettuare una delocalizzazione fino a due anni dopo il completamento dell'investimento.
Il nuovo reg. n. 1060/2021 ha coordinato i vincoli alla delocalizzazione previsti in relazione ai Fondi Sie con i vincoli di cui al GBER. In particolare, agli artt. 65 e 66 si stabilisce che è inammissibile la destinazione del contributo dei Fondi in favore di operazioni di delocalizzazione, con applicazione della norma di cui all’art. 14, par. 16 del GBER qualora il contributo dei Fondi costituisca un aiuto di Stato (art. 66); inoltre lo Stato è obbligato a restituire il contributo fornito dai Fondi in caso di cessazione o di trasferimento dell’attività produttiva al di fuori della regione in cui ha ricevuto sostegno (art. 65, par. 1). Ai sensi del successivo art. 73, l’autorità di gestione nazionale che seleziona le operazioni da sostenere dovrà garantire che tali operazioni non rientrino nell’ambito di delocalizzazioni o trasferimenti di unità produttive.
Al livello interno, la ricostruzione della normativa di riferimento appare ben più complessa in ragione della moltitudine di norme introdotte negli ultimi decenni .
Fatto salvo quanto previsto all’art. 1, co. 60 della l. n. 147 del 2013 , prima del decreto Dignità erano stabiliti diversi limiti alla delocalizzazione dal campo di applicazione ristretto a singoli regimi di aiuti di Stato . Nella maggior parte dei casi si trattava di vincoli quinquennali al mantenimento in loco dell’unità produttiva agevolata, il cui mancato rispetto avrebbe comportato la revoca e la conseguente restituzione del beneficio fruito.
Con gli artt. 5 e 6 del decreto Dignità il legislatore italiano ha tentato di ricomporre la frammentazione che caratterizzava la normativa previgente introducendo una disciplina unitaria dotata di un campo di applicazione più ampio .
In particolare, le norme di cui ai co. 1 e 2 dell’art. 5 stabiliscono due differenti vincoli: il primo si applica in relazione agli aiuti di Stato diretti a sostenere «investimenti produttivi» e riguarda le sole delocalizzazioni verso Stati extra-Ue o non aderenti allo Spazio economico europeo (SEE); il secondo si applica in relazione agli aiuti di Stato diretti a sostenere «investimenti produttivi specificamente localizzati» e riguarda ogni trasferimento al di fuori del sito produttivo incentivato.
La norma di cui al successivo art. 6 non riguarda direttamente le operazioni di delocalizzazione, ma è diretta a preservare il mantenimento dei livelli occupazionali in seno a imprese - operanti sul territorio nazionale - beneficiarie di aiuti di Stato che «prevedono una valutazione dell’impatto occupazionale». L’impresa decade interamente dal beneficio a fronte di una riduzione dei livelli occupazionali degli addetti all’unità produttiva o all’attività interessata dall’aiuto in misura superiore al 50 per cento per cento, entro cinque anni dalla data di completamento dell’investimento. In caso di riduzioni superiori al dieci per cento - ma inferiori al cinquanta - il beneficio è ridotto proporzionalmente.
Com’è noto, qualsiasi norma di diritto interno che introduca limiti alla libertà di stabilimento delle imprese è compatibile con il diritto dell’Ue solo se giustificata da ragioni di interesse pubblico e vi sia proporzionalità tra il sacrificio imposto all’impresa e il perseguimento dell’obiettivo. Sotto questo aspetto, i vincoli previsti a livello interno paiono del tutto in linea con le limitazioni alla delocalizzazione di cui al reg. n. 1060/2021 e al GBER; pertanto, non sembrano porsi problemi di compatibilità.
Nonostante i buoni propositi del legislatore, dall’esame della disciplina anti-delocalizzazione di cui al decreto Dignità emergono vari problemi di carattere interpretativo . In questa sede non sarà possibile analizzarli nel dettaglio, ma se ne fornirà una panoramica atta a far comprendere come tali questioni incidano sull’efficacia dei vincoli.
In primo luogo, il campo di applicazione dell’attuale disciplina pare connotato da poche luci e molte ombre: ciò riguarda specialmente l’individuazione delle tipologie di contributi presi in considerazione e la definizione di delocalizzazione di cui all’art. 5, co. 6 del decreto Dignità.
Sotto il profilo dell’individuazione dei contributi, non risulta chiaro il riferimento agli aiuti diretti al sostegno di «investimenti produttivi» (art. 5, co. 1) e «investimenti produttivi specificamente localizzati» (art. 5, co. 2) . Se è vero che lo scopo della nuova disciplina anti-delocalizzazione di cui al decreto Dignità è quello di ricomprendere «tutti gli aiuti di Stato agli investimenti indipendentemente dalla relativa forma [...] e dalle modalità di erogazione» , non si può fare a meno di notare che l’eccessiva vaghezza di tale indicazione è foriera di problemi in sede applicativa. Una questione analoga attiene agli aiuti che «prevedono la valutazione dell’impatto occupazionale» (art. 6): ci si chiede in particolare se con tale dicitura il legislatore abbia inteso far riferimento agli incentivi all’occupazione – vale a dire gli aiuti diretti a realizzare incrementi occupazionali netti –, o agli aiuti diretti alla realizzazione di investimenti produttivi che abbiano una qualsiasi ricaduta sul piano occupazionale . L’accoglimento dell’uno o dell’altro filone interpretativo porta a una differente valutazione circa l’opportunità e la ragionevolezza dell’esclusione dal computo dell’impatto occupazionale dei licenziamenti «riconducibili a giustificato motivo oggettivo» sancita allo stesso art. 6.
Per quanto riguarda la definizione di delocalizzazione di cui all’art. 5, co. 6 il compito dell’interprete non risulta meno agevole. In particolare, può parlarsi di delocalizzazione solo nel caso in cui il trasferimento abbia ad oggetto l’«attività economica specificamente incentivata»: ci si chiede se a tal fine debbano ritenersi esclusi i casi di trasferimento di attività economiche simili o anche minimamente difformi rispetto a quella incentivata. L’incertezza circa l’individuazione delle operazioni qualificabili giuridicamente come delocalizzazione rischia di incidere negativamente sull’efficacia dei vincoli rendendoli facilmente eludibili da parte delle imprese.
In secondo luogo, i vincoli di cui al decreto Dignità paiono, in generale, ben poco incisivi e non si rinvengono elementi di grande novità rispetto a quanto stabilito dalla normativa previgente. In particolare, si consideri che la norma cui al co. 1 dell’art. 5, connotata dal campo di applicazione più ampio, pone un divieto rispetto ai soli trasferimenti extra-SEE, laddove, al contrario, le operazioni di delocalizzazione riguardano anche – se non prevalentemente – lo spazio economico europeo. Inoltre, in relazione agli aiuti che «prevedono la valutazione dell’impatto occupazionale» il recupero per intero dell’incentivo si ha soltanto in caso di una riduzione dei livelli occupazionali almeno del 50 per cento.
3. (segue) … e problematiche applicative – L’attuale disciplina anti-delocalizzazione pone altresì rilevanti problemi di carattere applicativo che discendono dalla complessità che connota, in concreto, le operazioni di delocalizzazione. Infatti, nella più parte dei casi il trasferimento non viene attuato mediante la diretta riallocazione dell’unità produttiva di origine in un nuovo stabilimento: tali operazioni sono spesso ben più elaborate e difficili da ricostruire . La questione è peraltro esacerbata dalla progressiva frammentazione dei processi produttivi e dall’elaborazione di strutture societarie e imprenditoriali sempre più articolate.
Innanzitutto, la norma di cui all’art. 5, co. 3 del decreto Dignità demanda alle diverse amministrazioni che istituiscono e gestiscono gli aiuti di Stato il compito di vigilare sul rispetto dei vincoli alla delocalizzazione. Tale circostanza, unitamente alla scarsa chiarezza del quadro normativo di riferimento, rende concreta la possibilità che si realizzino disparità e difformità di letture rispetto al medesimo fenomeno.
Inoltre, in ragione della molteplicità delle imprese che beneficiano di aiuti di Stato, della quantità di dati e di informazioni da raccogliere e della complessità dei controlli, tali amministrazioni dovrebbero essere dotate sia di personale specificamente adibito alla sorveglianza delle delocalizzazioni, sia di strumenti, digitali e non, che facilitino il monitoraggio delle imprese. Tra questi un ruolo decisivo dovrebbe essere ricoperto dalle banche dati sulle imprese e sulla loro attività, nonché sugli aiuti di Stato: dovrebbe, poiché nonostante diversi strumenti siano attualmente disponibili , la funzionalità e l’accessibilità degli stessi desta ancora qualche perplessità .
Si consideri poi che la delocalizzazione comporta, di norma, il coinvolgimento di due Stati diversi: quello “di partenza”, in cui il sito produttivo viene dismesso, e quello “di destinazione” del trasferimento. Pertanto, per un’efficace attività di controllo si rende necessaria la piena collaborazione dello Stato “di destinazione” della delocalizzazione. Vero è che la disciplina anti-delocalizzazione di diritto dell’Ue vieta agli Stati membri di sostenere iniziative che comportino una delocalizzazione; tuttavia, all’oggettiva difficoltà di riconoscere e di ricostruire tali operazioni, deve aggiungersi la possibile ritrosia dello Stato membro “di destinazione” a disincentivare (seppur solo indirettamente, attraverso la raccolta e la condivisione di dati e informazioni) l’investimento di un’impresa nel proprio territorio. Infatti, a fronte delle conseguenze negative che derivano dalla dismissione dell’unità produttiva di “origine”, corrispondono proporzionali riflessi positivi in termini produttivi e occupazionali nel sito di “destinazione”.
Infine, il mancato rispetto dei vincoli comporta unicamente la decadenza e conseguente restituzione del beneficio fruito da parte dell’impresa. Tuttavia, quand’anche si riuscisse a recuperare il contributo, in alcun modo tale rimedio mitiga le conseguenze negative che derivano dalla dismissione del sito produttivo per il tessuto sociale ed economico locale.
4. Conclusioni e prospettive de jure condendo – I rilevanti problemi di carattere interpretativo e applicativo sin qui osservati derivano, almeno in parte, dalla scarsa chiarezza che connota l’attuale disciplina nonché, in generale, da una considerazione poco puntuale da parte del legislatore circa la complessità del fenomeno della delocalizzazione produttiva. Tuttavia, proprio in ragione di quest’ultimo aspetto, lo strumento normativo pare scontare un limite intrinseco: le difficoltà legate alla controllabilità delle imprese, l’incerta reperibilità e attendibilità delle informazioni sulle operazioni poste in essere dalle stesse e l’elaborazione di una definizione giuridica di delocalizzazione che possa cogliere il fenomeno nella sua interezza non sembrano problemi eludibili attraverso l’imposizione di vincoli più o meno stringenti al trasferimento.
A parere di chi scrive, de jure condendo si rende necessario un cambio di prospettiva. Come più volte evidenziato, la delocalizzazione determina gravi conseguenze sul tessuto produttivo e, soprattutto, occupazionale. Pertanto, lo scopo della disciplina di contrasto non dovrebbe essere quello di limitare il trasferimento dell’attività in quanto tale, quanto piuttosto quello di vietare l’apertura di procedure di licenziamento collettivo e di obbligare contestualmente l’impresa a presentare piani di sopravvivenza del sito produttivo in dismissione . Un tale vincolo non sembra porsi in contrasto con i principi di diritto dell’Ue e consentirebbe di ovviare ai molti problemi interpretativi e applicativi che derivano dal carattere intrinsecamente complesso delle operazioni di delocalizzazione.
Contestualmente dovrebbero essere implementate le misure dirette a garantire la continuità e/o sulla reindustrializzazione del sito produttivo: nella prassi che attualmente segue la dismissione di uno stabilimento troppo spesso si assiste ad attese messianiche di possibili acquirenti privati o a prolungate discussioni sulla possibilità di un intervento pubblico . A tal riguardo, può accogliersi positivamente la recente introduzione dello strumento della composizione negoziata della crisi aziendale di cui al d.l. n. 118/2021 (convertito con modificazioni nella l. n. 147/2021) che, sinteticamente, mira al salvataggio dell’impresa mediante la contrattazione tra l’imprenditore e i vari stakeholders. Allo stesso modo, sembra porsi nella giusta direzione la norma di cui all’art. 13-ter della l. n. 128/2019 che ha previsto un rifinanziamento del Fondo crescita sostenibile diretto al sostegno dei workers’ buyout, ovvero le operazioni di reindustrializzazione di unità produttive dismesse realizzate da cooperative costituite, normalmente ad hoc, dagli ex lavoratori, con il sostegno di vari attori operanti nel mondo cooperativo e non.
L’attivazione tempestiva delle parti sociali può consentire di agevolare la raccolta di dati e di informazioni utili circa l’attività dell’impresa nonché di vagliare con adeguato anticipo le soluzioni per la possibile reindustrializzazione del sito produttivo, tra cui, su tutte, proprio il workers’ buyout.