TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

La direttiva n. 1152 del 2019

1.- Introduzione

La diffusione al livello mondiale, ormai risalente nel tempo ed “esplosa” con la “quarta rivoluzione industriale” , di quella che con termine omnicomprensivo possiamo chiamare “economia delle piattaforme digitali” − nel cui ambito sono comprese realtà variegate e a volte molto diverse tra loro come: l’economia collaborativa, l’economy on demand tramite app (tipo: Uber, Lyft, TaskRabbit, Handy, Wonolo), la rental economy, la digital economy, la crowd-economy (vedi: Amazon Mechanical Turk, Clickworker, Crowdflower, Jovoto, Microtask, Topcoder , Upwork), la gig-economy (economia dei lavoretti), la sharing economy (economia della condivisione) – ha creato incertezza sui diritti e sugli obblighi di coloro che vi partecipano.
Ma ciò è stato favorito dal fatto che all’epoca un’analoga incertezza si riscontrava da tempo nella economia tradizionale con una tendenza a ridurre le tutele dei lavoratori.
Da più parti si sostiene che, in questa complessiva situazione, all’innovazione digitale e robotica deve essere impresso uno sviluppo etico affinché le nuove tecnologie possano essere di grande ausilio per dare nuova linfa ai principi fondanti delle nostre democrazie che da tempo sono “latenti”, a partire da quello della pari dignità di tutti gli esseri umani cui si collega, in primo luogo, il diritto di ciascuno di non soffrire la fame e la sete.
In questa ottica, insieme con il direttore generale della FAO Dongyu Qu, si può auspicare che le nuove tecnologie possano essere “fonte di speranza” e possano essere di ausilio per evitare che le diseguaglianze già esistenti raggiungano livelli inauditi, mettendo a rischio la stabilità della società nel suo insieme, come da tempo sostengono autorevoli studiosi di varie discipline , a partire da Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001 .
Ma, va aggiunto, la medesima impostazione deve essere applicata a tutto il mondo del lavoro le cui attuali flagellazioni – aggravate dalla pandemia di Covid-19 − sono in molti casi particolarmente dolorose e, come si è detto, hanno origini remote visto che è a partire dal famoso rapporto dell’OCSE sull’occupazione del 1994 (Job Study), che è stata praticata in tutta l’Unione europea e quindi anche in Italia, sia nel settore pubblico sia in quello privato, la politica della “flessibilizzazione” estrema del lavoro come strumento ideale per incrementare i livelli occupazionali e, al contempo, il lavoro in nero e irregolare ha cominciato ad avere grande diffusione.
Sono anni che le criticità di queste pratiche sono note a tutti, ma non si riesce a farvi fronte in modo adeguato.
Oggi che le vediamo con una “lente di ingrandimento” a causa della pandemia e grazie alla gig-economy potremmo sperare che finalmente possano trovare una risposta idonea a mettere in primo piano la dignità delle persone, e in questo un uso sapiente ed “etico” delle nuove tecnologie potrebbe essere di grande aiuto.
E, in questo ambito, si dovrebbe anche pensare anche a regolarizzare le cosiddette delocalizzazioni delle multinazionali, che si riscontrano in tutti i Paesi dell’economia globalizzata e che nel nostro Paese hanno comportato la perdita di milioni di posti di lavoro in un limitato arco di tempo.
Peraltro, poiché i suddetti problemi non hanno una dimensione solamente nazionale è chiaro che per porvi mano in modio efficace sarebbe necessaria una svolta significativa effettuata almeno nell’ambito dell’Unione europea nel suo complesso e nei rapporti tra gli Stati membri, visto che, al momento se è possibile che la UE adotti soluzioni energiche per impedire delocalizzazioni al di fuori del territorio dell’Unione – analoghe a quelle adottate dalla Cina (Paese socialista che mantiene un forte controllo sull’economia) e dagli USA specie durante la presidenza Trump, attraverso il controverso sistema dei dazi doganali – non è ammesso impedire che una azienda trasferisca la produzione dall’Italia a un altro Paese della UE e assimilati.

2.- La Direttiva UE 2019/1152: lineamenti generali.

Nella direzione di restituire dignità al lavoro si pone la Direttiva UE 2019/1152 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, “relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea” – da recepire entro il 1° agosto 2022 − che abroga la Direttiva 91/533/CEE in considerazione delle modifiche sostanziali introdotte per quanto riguarda lo scopo, l’ambito di applicazione e il contenuto della Direttiva 91/533/CEE stessa. La nuova Direttiva mira a introdurre condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea, stabilendo che i lavoratori in ambito UE hanno diritto ad essere informati per iscritto, all’inizio del rapporto di lavoro, dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto e delle condizioni del periodo di prova.
La Direttiva interviene anche a tutelare da pratiche abusive il lavoro a chiamata, dei riders e dei lavoratori della gig-economy in genere.
Infatti, in essa viene espressamente stabilito che “poiché l’obiettivo della presente Direttiva, vale a dire migliorare le condizioni di lavoro promuovendo un’occupazione più trasparente e prevedibile e garantendo nel contempo l’adattabilità del mercato del lavoro, non può essere conseguito in misura sufficiente dagli Stati membri ma, data la necessità di stabilire prescrizioni minime comuni, può essere conseguito meglio a livello di Unione, quest’ultima può adottare misure conformemente al principio di sussidiarietà sancito dall’articolo 5 del trattato sull’Unione europea. La presente Direttiva si limita a quanto è necessario per conseguire tale obiettivo in ottemperanza al principio di proporzionalità enunciato nello stesso articolo (Considerando 46)”.
Si specifica poi che “la presente Direttiva stabilisce prescrizioni minime, lasciando così impregiudicata la prerogativa degli Stati membri di introdurre o mantenere disposizioni più favorevoli. I diritti acquisiti a norma del quadro giuridico in essere dovrebbero continuare ad applicarsi, a meno che la presente Direttiva non introduca disposizioni più favorevoli.” “L’attuazione della presente Direttiva non può essere utilizzata per ridurre i diritti esistenti stabiliti dall’attuale diritto dell’Unione o nazionale in materia, né può costituire un motivo valido per ridurre il livello generale di protezione offerto ai lavoratori nel settore disciplinato dalla presente Direttiva. In particolare, non dovrebbe essere utilizzata come motivo per introdurre contratti di lavoro a zero ore o di tipo simile” (Considerando 47).
In questo quadro è interessante sottolineare che:
● nel considerando 8 della Direttiva si afferma che: “Nella sua giurisprudenza, la Corte di giustizia dell’Unione europea (Corte di giustizia) ha stabilito criteri per determinare la condizione di lavoratore (vedi sentenze della Corte di giustizia del 3 luglio 1986, Deborah Lawrie-Blum/Land Baden-Württemberg, C-66/85; del 14 ottobre 2010, Union syndicale Solidaires Isère/Premier ministre e altri, C-428/09; del 9 luglio 2015, Ender Balkaya/Kiesel Abbruch- und Recycling Technik GmbH, C-229/14; del 4 dicembre 2014, FNV Kunsten Informatie en MEDIA/Staat der Nederlanden, C-413/13; del 17 novembre 2016 Betriebsrat der Ruhrlandklinik gGmbH/ Ruhrlandklinik gGmbH, C-216/15). È opportuno tenere conto dell’interpretazione di questi criteri da parte della Corte di giustizia nell’attuazione della presente Direttiva. I lavoratori domestici, i lavoratori a chiamata, i lavoratori intermittenti, i lavoratori a voucher, i lavoratori tramite piattaforma digitale, i tirocinanti e gli apprendisti potrebbero rientrare nell’ambito di applicazione della presente Direttiva a condizione che soddisfino tali criteri. I lavoratori effettivamente autonomi non dovrebbero rientrare nell’ambito di applicazione della presente Direttiva, in quanto non soddisfano tali criteri. L’abuso della qualifica di lavoratore autonomo, quale definito dal diritto nazionale, a livello nazionale o nelle situazioni transfrontaliere, costituisce una forma di lavoro falsamente dichiarato che è spesso associata al lavoro non dichiarato. Il falso lavoro autonomo ricorre quando il lavoratore, al fine di evitare taluni obblighi giuridici o fiscali, è formalmente dichiarato come lavoratore autonomo pur soddisfacendo tutti i criteri che caratterizzano un rapporto di lavoro. Tali persone dovrebbero rientrare nell’ambito di applicazione della presente Direttiva. È opportuno che la determinazione dell’esistenza di un rapporto di lavoro si fondi sui fatti correlati all’effettiva prestazione di lavoro e non basarsi sul modo in cui le parti descrivono il rapporto”.
Al riguardo va ricordato che una delle finalità della Proposta di Direttiva C(2021) 8838 final, in materia di concorrenza e lavoro autonomo − che è ancora in fase di elaborazione − appare proprio quella di salvare dalla povertà i lavoratori autonomi che “non sono indipendenti”, come si desume dal preambolo della Proposta ove viene richiamato il su richiamato Considerando 8 della Direttiva UE 2019/1152. Ma alcuni studiosi dubitano che la nuova Direttiva possa realmente avere una significativa influenza sulle condizioni di lavoro dei suddetti lavoratori e osservano che la strada intrapresa con la Proposta, sulla scia della posizione assunta dalla Commissione UE a favore della suddetta categoria di lavoratori a partire dal 2020, è piena di insidie anche se vale la pena di percorrerla .
● nel considerando 12 si afferma: “I lavoratori che non hanno una quantità garantita di lavoro, compresi quelli con contratti a zero ore e alcuni contratti a chiamata, si trovano in una situazione di particolare vulnerabilità. Pertanto, a tali lavoratori dovrebbero applicarsi le disposizioni della presente Direttiva, qualunque sia il numero di ore da essi effettivamente lavorate”;
● per il considerando 19; “Le informazioni sull’orario di lavoro dovrebbero essere coerenti con la Direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e dovrebbero includere informazioni su pause, riposi quotidiani e settimanali e durata del congedo retribuito, garantendo in tal modo la tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori”;
● per il considerando 21: “Se, a causa della natura dell’impiego, come nel caso di un contratto a chiamata, non è possibile indicare una programmazione del lavoro fissa, i datori di lavoro dovrebbero informare i lavoratori in merito alle modalità di determinazione del loro orario di lavoro, comprese le fasce orarie in cui possono essere chiamati a lavorare e il periodo minimo di preavviso che devono ricevere prima dell’inizio di un incarico di lavoro”;
● nel considerando 22 si dice: “Le informazioni sui sistemi di sicurezza sociale dovrebbero comprendere informazioni sull’identità delle istituzioni di sicurezza sociale che ricevono i contributi sociali, ove pertinente, relativi a prestazioni di malattia, di maternità, di paternità e parentali, prestazioni per incidenti sul lavoro e malattie professionali e prestazioni di vecchiaia, di invalidità, di reversibilità, di disoccupazione, di prepensionamento e familiari. I datori di lavoro non dovrebbero essere tenuti a fornire tali informazioni se la scelta dell’istituzione di sicurezza sociale è compiuta dal lavoratore. Le informazioni da fornire sulla protezione sociale a carico del datore di lavoro dovrebbero comprendere, ove pertinente, l’esistenza di una copertura da parte di regimi di pensione complementare ai sensi della Direttiva 2014/50/UE del Parlamento europeo e del Consiglio (9) e della Direttiva 98/49/CE del Consiglio.”;
● per il considerando 35: “I contratti di lavoro a chiamata o analoghi, compresi i contratti a zero ore, nell’ambito dei quali il datore di lavoro dispone della flessibilità di poter chiamare il lavoratore in funzione delle proprie necessità, sono particolarmente imprevedibili per il lavoratore. Gli Stati membri che consentono tali contratti dovrebbero assicurare che esistano misure efficaci per prevenirne l’abuso. Tali misure potrebbero assumere la forma di limitazioni dell’uso e della durata di tali contratti, di una presunzione confutabile dell’esistenza di un contratto di lavoro o rapporto di lavoro con un numero garantito di ore retribuite basato sulle ore lavorate in un precedente periodo di riferimento, o di altre misure equivalenti che garantiscano un’efficace prevenzione delle pratiche abusive”;
● per il considerando 39: “La consultazione pubblica sul pilastro europeo dei diritti sociali ha evidenziato la necessità di rafforzare l’applicazione della legislazione dell’Unione in materia di lavoro al fine di garantirne l’efficacia. La valutazione della Direttiva 91/533/CEE effettuata nel quadro del Programma di controllo dell’adeguatezza e dell’efficacia della regolamentazione della Commissione ha confermato che l’efficacia della legislazione dell’Unione in materia di lavoro potrebbe essere migliorata mediante meccanismi di applicazione rafforzati. Secondo la consultazione, i sistemi di ricorso basati unicamente sulle domande di risarcimento del danno sono meno efficaci di quelli che prevedono anche sanzioni, come gli importi forfettari o la perdita delle licenze, per i datori di lavoro che non rilasciano le dichiarazioni scritte. È inoltre emerso che i lavoratori raramente presentano ricorso durante il rapporto di lavoro e ciò compromette l’obiettivo di fornire la dichiarazione scritta, che è garantire che i lavoratori siano informati sugli elementi essenziali del rapporto di lavoro. È pertanto necessario introdurre disposizioni relative all’applicazione che garantiscano l’uso di presunzioni favorevoli, qualora non vengano fornite le informazioni sul rapporto di lavoro, o l’uso di una procedura nell’ambito della quale il datore di lavoro possa essere tenuto a fornire le informazioni mancanti e possa subire sanzioni in caso di non conformità, o entrambi. Tali presunzioni favorevoli dovrebbero poter comprendere la presunzione che il lavoratore ha un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, che non vi è un periodo di prova o che il lavoratore ha una posizione a tempo pieno, laddove le pertinenti informazioni siano mancanti. Il ricorso potrebbe seguire una procedura in virtù della quale il lavoratore o una parte terza, come un rappresentante del lavoratore o altra autorità o altro organo competente, notificano al datore di lavoro che mancano alcune informazioni e che egli è tenuto a fornire informazioni complete e corrette in modo tempestivo”;
● per il considerando 43: “I lavoratori che esercitano i diritti previsti dalla presente Direttiva dovrebbero essere protetti contro il licenziamento o pregiudizio equivalente, come un lavoratore a chiamata che non riceva più lavoro, o contro la preparazione di un eventuale licenziamento per il fatto di aver cercato di esercitare tali diritti. Se un lavoratore ritiene di essere stato licenziato o di aver subito un pregiudizio equivalente per questi motivi, il lavoratore e le autorità o gli organi competenti dovrebbero avere la possibilità di esigere che il datore di lavoro fornisca i motivi debitamente giustificati del licenziamento o della misura equivalente”;
● per il considerando 44: “L’onere della prova per stabilire che non vi è stato licenziamento o pregiudizio equivalente per il fatto che il lavoratore ha esercitato i diritti previsti dalla presente Direttiva dovrebbe incombere al datore di lavoro se il lavoratore presenta dinanzi a un tribunale o a un’altra autorità od organo competente prove fattuali dalle quali si può presumere che sia stato licenziato o che abbia subito misure di effetto equivalente per tali motivi. Gli Stati membri dovrebbero poter non applicare tale norma in procedimenti in cui spetta a un tribunale o a un’altra autorità od organo competente indagare sui fatti, in particolare in sistemi dove il licenziamento deve essere approvato in anticipo da tale autorità od organo”;
● in base al considerando 45: “Gli Stati membri dovrebbero prevedere sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive in caso di mancata ottemperanza agli obblighi derivanti dalla presente Direttiva. Si può trattare di sanzioni amministrative e finanziarie, quali ammende o il pagamento di una compensazione, come anche di altri tipi di sanzioni”;
● per l’art. 11 della Direttiva (Misure complementari per i contratti a chiamata): “Qualora consentano l’uso di contratti di lavoro a chiamata o di contratti di lavoro analoghi, gli Stati membri adottano una o più delle seguenti misure per prevenire pratiche abusive: a) limitazioni dell’uso e della durata dei contratti a chiamata o di analoghi contratti di lavoro; b) una presunzione confutabile dell’esistenza di un contratto di lavoro con un ammontare minimo di ore retribuite sulla base della media delle ore lavorate in un determinato periodo; c) altre misure equivalenti che garantiscano un’efficace prevenzione delle pratiche abusive. Gli Stati membri informano la Commissione di tali misure”.

3.- Il necessario intervento della UE per una condivisa nozione di “rapporto di lavoro” e per una unitaria politica salariale e fiscale.

In linea generale può dirsi che, per un ordinamento articolato come il nostro, la Direttiva non contenga molti elementi totalmente innovativi, ma è indubbio che, grazie alla spinta UE, i diritti già previsti potrebbero finalmente ottenere una migliore attuazione.
E questo potrebbe consentire – grazie anche ad un più incisivo impegno delle Parti sociali, richiamato pure nella Direttiva (spec. considerando 49) − l’abolizione delle situazioni di lavoro schiavistico purtroppo presenti sia nell’economia delle piattaforme sia in molti altri settori (a partire dall’agricoltura e dall’edilizia) in tutta Europa.
Va però sottolineato che, come si è detto, secondo la Direttiva i lavoratori deboli o poveri: domestici, a chiamata, intermittenti, a voucher, tramite piattaforma digitale, tirocinanti e apprendisti possono rientrare nell’ambito di applicazione della Direttiva solo a patto che soddisfino i criteri per stabilire la condizione, ovvero la natura giuridica di lavoratore subordinato, come individuata dalla Corte di giustizia in relazione alla (abrogata) Direttiva 91/533/CEE.
E va pure ricordato che tra gli Stati membri le suddette condizioni variano significativamente in funzione delle rispettive nozioni di “lavoratore subordinato”, “rapporto di lavoro” e “contratto di lavoro”, sicché questo rappresenta un primo ostacolo una applicazione uniforme della Direttiva in ambito UE, il che significa che per ottenere il risultato sperato sarebbe necessario un intervento della UE di tipo strutturale onde pervenire a nozioni comuni al riguardo.
Del resto, in una recente nota tematica del Parlamento UE in materia di “Politica dell’occupazione” si afferma che anche se la responsabilità relativa all’occupazione e alla politica sociale compete principalmente ai governi nazionali, in alcuni settori il diritto UE è divenuto sempre più rilevante. La strategia europea per l’occupazione, risalente al 1997, ha stabilito una serie di obiettivi comuni per la politica in materia di occupazione ed ha favorito il “coordinamento flessibile” tra gli Stati membri, grazie al suo processo di monitoraggio e agli strumenti di finanziamento a essa connessi. La creazione di nuovi e migliori posti di lavoro era uno dei principali obiettivi della strategia Europa 2020 e con l’ingresso nel nuovo decennio, la Commissione UE ha proposto nuovi obiettivi più ambiziosi in materia di occupazione, competenze e protezione sociale al fine di costruire un’Europa sociale forte entro il 2030.
Inoltre in questo ambito nel 2016 l’Unione europea ha creato il “Centro di competenza europeo per le politiche in materia di diritto del lavoro, occupazione e mercato del lavoro” che si occupa degli aspetti giuridici, normativi, economici e politici dell’occupazione e dei mercati del lavoro, incluse le riforme nei 27 Stati membri, nel Regno Unito, nei Paesi dello Spazio economico europeo (SEE) e nei Paesi candidati effettivi e potenziali che possono partecipare all’asse Progress del programma dell’Unione europea per l’occupazione e l’innovazione sociale (EaSI) .
Sicché, da questo punto di vista, non manca una base di partenza per la realizzazione di una Europa sociale entro il 2030.

4.- La recente proposta della Commissione UE di una Direttiva sul miglioramento delle condizioni di lavoro nel lavoro mediante piattaforme digitali.

La suddetta base di partenza potrebbe essere rafforzata dall’approvazione della Proposta di Direttiva sul miglioramento delle condizioni di lavoro nel lavoro mediante piattaforme digitali presentata dalla Commissione UE il 9 dicembre 2021.
Infatti, nell’ampia relazione di presentazione, la Commissione ha chiarito che l’obiettivo generale della Direttiva proposta è “migliorare le condizioni di lavoro e i diritti sociali delle persone che lavorano mediante piattaforme digitali, anche al fine di sostenere le condizioni per una crescita sostenibile delle piattaforme di lavoro digitali nell'Unione europea”.
Ed è stato precisato che “gli obiettivi specifici mediante i quali sarà raggiunto l’obiettivo generale sono i seguenti:
1) garantire che le persone che lavorano mediante piattaforme digitali abbiano, o possano ottenere, la corretta situazione occupazionale alla luce del loro effettivo rapporto con la piattaforma di lavoro digitale e abbiano accesso ai diritti applicabili in materia di lavoro e protezione sociale;
2) garantire l’equità, la trasparenza e la responsabilità nella gestione algoritmica nel contesto del lavoro mediante piattaforme digitali;
3) accrescere la trasparenza, la tracciabilità e la consapevolezza degli sviluppi nel lavoro mediante piattaforme digitali e migliorare l'applicazione delle norme pertinenti per tutte le persone che lavorano mediante piattaforme digitali, comprese quelle che operano a livello transfrontaliero.
La commissione ricorda poi che tra gli strumenti giuridici pertinenti per i lavoratori subordinati che lavorano mediante piattaforme digitali figurano:
– la Direttiva (UE) 2019/1152 relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili, che prevede misure volte a proteggere le condizioni di lavoro delle persone che lavorano con rapporti di lavoro non standard, ivi comprese norme in materia di trasparenza, diritto all’informazione, periodi di prova, lavoro in parallelo, prevedibilità minima del lavoro e misure per i contratti a chiamata. Si sottoluinea che tali norme minime sono particolarmente pertinenti per le persone che lavorano mediante piattaforme digitali, data la loro organizzazione e i loro modelli di lavoro atipici. Tuttavia la Direttiva garantisce la trasparenza sulle condizioni di lavoro di base e l’obbligo di informazione per i datori di lavoro ivi disciplinato non si estende all’uso degli algoritmi nell’ambiente di lavoro e al modo in cui essi incidono sui singoli lavoratori;
– la Direttiva (UE) 2019/1158, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza, che stabilisce prescrizioni minime relative al congedo parentale, di paternità e per i prestatori di assistenza e modalità di lavoro flessibili per i genitori o i prestatori di assistenza e integra la Direttiva 92/85/CEE sulla sicurezza e la salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento, che prevede, oltre ad altre misure, un periodo minimo di congedo di maternità;
– la Direttiva 2003/88/CE sull’orario di lavoro, che stabilisce prescrizioni minime in materia di organizzazione dell’orario di lavoro e definisce concetti quali “orario di lavoro” e “periodo di riposo”. Al riguardo viene sottolineato che la Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) ha tradizionalmente interpretato il concetto di “orario di lavoro” nel senso che il lavoratore debba essere fisicamente presente in un luogo stabilito dal datore di lavoro e che in recenti casi la Corte ha esteso tale concetto in particolare quando è in atto un sistema di reperibilità (ossia quando un lavoratore non è tenuto a rimanere sul luogo di lavoro, ma deve rimanere a disposizione per lavorare se chiamato dal datore di lavoro). Inoltre nel 2018 la Corte ha chiarito che il periodo di reperibilità, durante il quale le possibilità del lavoratore di svolgere altre attività sono notevolmente limitate, è considerato orario di lavoro (si richiama l’orientamento espresso dalla sentenza della Corte di giustizia del 21 febbraio 2018, C-518/15, Ville de Nivelles contro Rudy Matzak, confermato ed approfondito nelle sentenze del 9 marzo 2021, C-580/19, RJ contro Stadt Offenbach am Main e del 9 marzo 2021, C-344/19, D.J. contro Radiotelevizija Slovenija).;
– la Direttiva 2008/104/CE relativa al lavoro tramite agenzia interinale, che definisce un quadro generale applicabile alle condizioni di lavoro dei lavoratori tramite agenzia interinale. In tale direttiva è stabilito il principio di non discriminazione, per quanto riguarda le condizioni essenziali di lavoro e di occupazione, tra i lavoratori tramite agenzia interinale e i lavoratori impiegati dall’impresa utilizzatrice. La suddetta direttiva può essere pertinente per il lavoro mediante piattaforme digitali in considerazione della tipica triangolarietà del rapporto contrattuale nel lavoro mediante piattaforme digitali. Infatti, a seconda del modello di business di una piattaforma di lavoro digitale e del fatto che i suoi clienti siano consumatori privati o imprese, essa potrebbe essere considerata un’agenzia interinale che assegna i propri lavoratori alle imprese utilizzatrici. In alcuni casi la piattaforma digitale potrebbe essere l’impresa utilizzatrice che si avvale dei servizi dei lavoratori assegnati dalle agenzie interinali;
– la Direttiva 89/391/CEE, Direttiva quadro concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro , che stabilisce i principi fondamentali per promuovere il miglioramento della salute e della sicurezza sul luogo di lavoro, garantendo prescrizioni minime di salute e sicurezza in tutta la UE. La direttiva quadro è accompagnata da ulteriori direttive incentrate su aspetti specifici della sicurezza e della salute durante il lavoro;
– la Direttiva 2002/14/CE che istituisce un quadro generale relativo all’informazione e alla consultazione dei lavoratori, che svolge un ruolo fondamentale nella promozione del dialogo sociale fissando principi minimi, definizioni e modalità per l'informazione e la consultazione dei rappresentanti dei lavoratori a livello aziendale in ciascuno Stato membro;
– la proposta di direttiva COM(2020) 682 final relativa a salari minimi adeguati che, quando sarà adottata, istituirà un quadro per migliorare l’adeguatezza dei salari minimi e aumentare l'accesso dei lavoratori alla tutela garantita dal salario minimo;
– la proposta di direttiva COM(2021) 93 final sulla trasparenza delle retribuzioni che, una volta adottata, rafforzerà l'applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.
Inoltre, la Commissione ricorda che i regolamenti sul coordinamento dei sistemi nazionali di sicurezza sociale (Regolamento CE n. 883/2004 del 29 maggio 2004 e relativo regolamento di esecuzione CE n. 987/2009) si applicano sia ai lavoratori subordinati che ai lavoratori autonomi che lavorano mediante piattaforme digitali in una situazione transfrontaliera.
Infine, viene menzionata la raccomandazione Raccomandazione del Consiglio, dell’8 novembre 2019 (2019/C 387/01) sull’accesso alla protezione sociale per i lavoratori subordinati e autonomi che riguarda le prestazioni di disoccupazione, malattia e assistenza sanitaria, maternità e paternità, invalidità, vecchiaia e ai superstiti e le prestazioni in caso di infortuni sul lavoro e malattie professionali. In essa si raccomanda agli Stati membri di garantire che sia i lavoratori subordinati sia i lavoratori autonomi abbiano accesso a una protezione sociale effettiva e adeguata.
Su queste articolate basi la Proposta mira principalmente a chiarire lo status dei lavoratori delle piattaforme, orientandosi a favore del riconoscimento di un rapporto di tipo dipendente, e dare centralità al tema dell’utilizzo di algoritmi e sistemi di intelligenza artificiale, che svolgono un ruolo cruciale nel definire, valutare e monitorare l’esecuzione delle prestazioni dei lavoratori delle piattaforme. Sicché è necessario un adeguamento dell’apparato normativo in materia.
Va sottolineato che già nella nostra giurisprudenza si sono registrate importanti pronunce in questa direzione, fra le quali, in questa sede, ci si limita a ricordare :
a) l’importante Cass. 24 gennaio 2020, n. 1663 − relativa ad una controversia instaurata da sei riders di FOODORA nella quale ratione temporis era inapplicabile la disciplina in materia di lavoro attraverso piattaforme digitali, in specie dei riders, dintrodotta al decreto-legge 3 settembre 2019, n. 101, convertito dalla legge 2 novembre 2019, n. 128 – ha, in sintesi, stabilito che con l’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 il legislatore si è limitato a valorizzare taluni indici fattuali ritenuti significativi (personalità, continuità, etero-organizzazione) considerati sufficienti a giustificare l’applicazione della disciplina dettata per il rapporto di lavoro subordinato, esonerando da ogni ulteriore indagine il giudice che ravvisi la concorrenza di tali elementi nella fattispecie concreta e senza che questi possa trarre, nell’apprezzamento di essi, un diverso convincimento nel giudizio qualificatorio di sintesi, salva la possibilità per il giudice di accertare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza in materia;
b) la storica pronuncia del 31 dicembre 2020 del Tribunale di Bologna con la quale è stato accolto il ricorso per discriminazione collettiva proposto congiuntamente da NIDIL, FILCAMS e FILT, riconoscendosi in sede giudiziaria per la prima volta in Europa che l’algoritmo (nella specie Frank, l’algoritmo utilizzato dalla DELIVEROO) non è neutrale nelle sue decisioni ma è capace di discriminare in quanto riproduce all’infinito la “logica” dei suoi programmatori.
Peraltro, anche molti giudici europei si sono orientati nel senso di propendere per il carattere subordinato del rapporto di lavoro con le piattaforme digitali.

5.- La concorrenza fiscale dannosa.Vi è però un altro ostacolo per il raggiungimento degli obiettivi prefigurati dalla Direttiva UE UE 2019/1152 – che può incidere anche su quelli della recente Proposta di Direttiva relativa al lavoro mediante piattaforme digitali − che è rappresentato dal fenomeno della “concorrenza fiscale dannosa” tra gli Stati UE che ‒ come reiteratamente confermato anche dalla Corte dei conti, nei suoi Rapporti annuali sulla Finanza pubblica ‒ si traduce in situazioni di tipo discriminatorio per le imprese nazionali e per i loro dipendenti o addirittura nella perdita dei posti di lavoro dovuta alla scelta delle imprese in attivo di chiudere le sedi italiane e trasferirsi in Paesi UE ove il fisco è più clemente ed anche le garanzie per i lavoratori sono inferiori. Sicché proprio per limitare le differenze di regime in ambito tributario attualmente esistenti fra i diversi Stati, che ne falsano la concorrenza, da più parti, da tempo, si sostiene la necessità dell’istituzione di un unico Ministro delle Finanze in ambito UE.
Al riguardo da parte di autorevole dottrina è stato rilevato che “le misure fiscali di carattere specifico volte principalmente, se non esclusivamente, ad attrarre investimenti stranieri hanno invece spesso una caratteristica del tutto opposta: esse attuano cioè una “discriminazione a rovescio” (c.d. Home State Restriction), penalizzando le imprese domestiche a favore di quelle che – pur essendo formalmente residenti – presentano rilevanti elementi di collegamento con Paesi esteri, quali ad esempio la provenienza estera dei capitali e la destinazione all’estero degli utili”. Pertanto, per reprimere tale concorrenza fiscale dannosa si sostiene che sarebbero necessari tipi di misure diversi da quelli comunemente adoperati, tenendo conto del fatto che il tema della concorrenza fiscale travalica l’ambito UE e si manifesta anche con riferimento a Paesi terzi, non legati da un comune sostrato normativo e istituzionale.
L’OCSE ha emanato nel 1998 un Rapporto sulla concorrenza fiscale dannosa (Harmful Tax Competition) il cui punto centrale è stato proprio quello di stabilire quando tale concorrenza sia “dannosa”, ed in proposito l’approccio è stato basato sulla selettività, nel senso di considerare dannosi i regimi o le prassi speciali che abbiano caratteristiche tali da avere l’effetto di attrarre investimenti dall’estero. In questa ottica il Rapporto si occupa esclusivamente della tassazione delle attività finanziarie in quanto, per loro natura, maggiormente suscettibili di allocazioni di comodo .
Ma la stessa dottrina aggiunge che anche l’UE ha adottato un Codice di condotta sulla tassazione delle imprese sostanzialmente analogo a quello OCSE e ad esso coevo ma che, a differenza di quello OCSE, si applica a tutte le attività di impresa e non solo a quelle finanziarie. Nel Codice “sono state in particolare ritenute ‘dannose’ quelle misure che, ad esempio, accordano vantaggi solo ai non residenti e per transazioni condotte con non residenti, che non comportano effetti sulla base imponibile domestica, i cui vantaggi sono assicurati ad un soggetto che non abbia una presenza effettiva sul territorio dello Stato in questione, ecc. Tuttavia, nessuna di tali misure può o vuole avere, effetti di contrasto alla concorrenza fiscale tra Stati in modo assoluto, ma ciò che si tende a reprimere, peraltro attraverso atti non normativi e non vincolanti dato il limite inderogabile delle sovranità statali, è l’abuso, da parte degli Stati, delle loro prerogative in materia di tassazione; abuso che viene individuato sulla base dell’adozione di misure fiscali caratterizzate dall’essere state costruite ad hoc per attrarre ‘slealmente’ imprese estere alterando così la fisiologica concorrenza tra Stati, con conseguenti effetti discriminatori, diretti o indiretti, dei non residenti rispetto ai residenti, o viceversa. E, quindi, viene a determinarsi una situazione che non può che svantaggiare anche la concorrenza tra imprese e la loro produttività”.
In effetti, da anni nell’ambito della UE si registra il fenomeno di crescente rilevanza dell’impiego di accordi fiscali – i tax rulings o «decisioni fiscali anticipate» – tra Stati e operatori economici.
Tale fenomeno ha avuto un passaggio significativo nella sentenza del Tribunale UE del 15 luglio 2020, con la quale è stata annullata la decisione della Commissione 2017/1283 che aveva configurato come aiuto di Stato, sotto forma di esenzione fiscale, il trattamento concesso dall’Irlanda a favore di Apple, società leader del digitale.
Dopo anni di indagini della Commissione sui tax rulings di cui diversi operatori economici beneficiano da parte di alcuni Stati dell’Unione, questa presa di posizione era molto attesa affinché venisse dato più di un segnale alle molteplici aspettative al riguardo.
In particolare vi erano continuano ad esserci – posto che la sentenza è stata impugnata dalla Commissione di fronte alla Corte di giustizia, e va dunque incontro ad un ulteriore passaggio significativo per i tax rulings – da un lato le aspettative di coloro che ritengono non opportuno che la Commissione persegua la finalità di contrastare l’evasione fiscale attraverso la vigilanza sugli aiuti di Stato e dal lato opposto quelle di chi auspica che una sentenza della CGUE a favore della decisione della Commissione possa servire ad accelerare il processo di unificazione fiscale a livello europeo, di cui si parla da molti anni, con l’obiettivo di una maggiore equità fiscale .
Comunque, va tenuto presente che lo stesso 15 luglio 2020 la Commissione europea, per la prima volta e con una forte enfasi, ha aperto il capitolo della concorrenza fiscale sleale all’interno della UE con una comunicazione nella quale, pur non indicando i nomi dei Paesi che maggiormente ricorrono a tale pratica – i quali peraltro sono all’attenzione anche dell’Antitrust, come l’Olanda, il Lussemburgo, l’Irlanda, seppure con alterne fortune in sede di giudizio UE (come dimostra il caso Apple) – ha proposto un ampliamento del mandato del gruppo europeo sul codice di condotta sulla tassazione delle imprese per tener conto delle nuove pratiche che portano alla concorrenza fiscale sleale e alla pianificazione fiscale aggressiva.
Il Commissario Paolo Gentiloni ha, fra l’altro, sottolineato che le perdite annuali di entrate per la UE dovute all’evasione fiscale internazionale da parte di privati è stata stimata in 46 miliardi di euro; quelle dovute all’elusione dell’imposta sulle società è stata di oltre 35 miliardi; quelle dovute alle frodi Iva transfrontaliere di 50 miliardi. Pertanto, ha rilevato che: “Questo è uno scandalo che non può continuare senza controllo. Soprattutto in questo momento di crisi e al fine di costruire una ripresa duratura, tutti devono pagare la loro giusta quota di imposte”. Si tratta di principi “che devono essere applicati a tutti, si tratti di aziende che operano online o offline. La trasparenza fiscale deve coprire il mondo digitale e le autorità fiscali devono disporre degli strumenti giusti per garantire che coloro che traggono profitto dalle piattaforme digitali paghino le tasse come tutti gli altri”.
Quindi, il Parlamento europeo con una risoluzione approvata il 7 ottobre 2021 − con 506 voti favorevoli, 81 contrari e 99 astensioni − ha stabilito le proprie priorità per la riforma UE sulle pratiche fiscali dannose e ha adottato un progetto per un nuovo sistema di valutazione delle politiche fiscali nazionali. Si è specificato che con la concorrenza fiscale feroce tra Paesi – all’interno e all’esterno dell’Unione − in continua espansione, la UE ha bisogno di rivedere e aumentare il proprio impegno nella lotta contro le pratiche fiscali che privano gli Stati membri di entrate sostanziali, che portano ad una concorrenza sleale e minano la fiducia dei cittadini.
Nella risoluzione il Parlamento ha precisato che, sebbene la concorrenza fiscale tra i Paesi non costituisca di per sé un problema, tuttavia è necessario stabilire principi comuni che gli Stati devono rispettare nell’attuare le proprie politiche e i propri regimi fiscali per attirare imprese e profitti. Si è sottolineato che la politica e la legislazione UE non hanno tenuto il passo con gli schemi fiscali innovativi degli ultimi venti anni, pertanto è stato ritenuto necessario approvare una riforma completa del Codice di condotta sulla tassazione delle imprese (CoC - Code of Conduct), uno strumento creato per affrontare la concorrenza fiscale dannosa, ma che finora non ha funzionato adeguatamente. Con la riforma dovrebbero essere rivisti, in particolare, i criteri, la governance e il campo di applicazione di tale codice.
Con queste iniziative sembra che la UE abbia finalmente intrapreso il giusto cammino per la risoluzione di un problema delicatissimo sul quale vi è la forte resistenza di molti Stati membri a definire un approccio UE.
Pare che si sia compreso che occorre un “grande disegno” idoneo a portare alla convergenza e all’armonizzazione e che non ci si possa basare sull’occasionalità degli eventi, o della concorrenza, o dei pareri della Corte di Giustizia, perché l’azione della Corte non è, né può essere, lo strumento principale per la risoluzione delle contraddizioni né può certamente sostituirsi al necessario dibattito politico fra gli Stati, cui spetta, nelle opportune sedi istituzionali, assumere decisioni.
Certo, come rilevato da autorevole dottrina , la rimozione della concorrenza fiscale dannosa, anche se è un avanzamento non è di per sé certamente un “gran disegno”. Ma lo potrebbe essere se l’armonizzazione dell’aliquota della corporation tax fosse indicata come legittimo obiettivo di medio periodo dell’Unione e se l’Unione si indirizzasse verso l’istituzione di controlli omogenei finalizzati a una verifica sui guadagni e le perdite di tassazione che generano differenze in materia di fiscalità sulla produzione e sul lavoro.
Si osserva che il vero “grande disegno” in questo campo, è idealmente un altro, che supera congiuntamente l’insieme di tutti i problemi in materia ed è quello di giungere ad una tassazione unitaria delle imprese transnazionali.
Questo è effettivamente un superamento organico di uno schema di tassazione internazionale le cui strutture furono disegnate cento anni fa quando la realtà odierna delle multinazionali non esisteva. Queste non sono costituite da una serie di unità locali tassate separatamente come se fossero unità indipendenti, come si tende a considerarle oggi, ma sono un centro unitario di affari che deriva le proprie capacità competitive dal combinare attività economica in singole locazioni oltre che dal controllo unitario di tecnologia e conoscenza.
Per questo la vera svolta – anche per una migliore tutela dei dipendenti −sarebbe quella di tassarle come singola unità di cui ogni branca è parte organica.
Si precisa che “il riferimento dovrebbe essere al consolidato mondiale delle multinazionali, che esse dovrebbero presentare in ogni Paese dove operano, per poi venire tassato unitariamente secondo formule di ripartizione concordata del reddito che riflettano la genuina presenza in ciascun Paese. Formule che pesino, tra loro e tra Paesi, le unità fisiche o i costi della manodopera impiegata, gli asset fisici – esclusi gli intangibili – e le vendite. Trovare criteri contabili unitari e concordati è il più superabile di tutti i problemi, data l’esistenza ormai di standard contabili accettati”.
Uno schema del genere, che elide le transazioni interne, eliminerebbe alla radice la convenienza a costruzioni fittizie in paradisi fiscali o a spostare i profitti nel globo attraverso i prezzi praticati nel commercio interno al gruppo.
Se invece si continua a consentire che i Paesi UE lottino fra loro per sottrarsi reciprocamente basi imponibili e si legittima la industrializzazione di alcuni a vantaggio di altri la prospettiva futura non può che essere un’alta disoccupazione con un conseguente aumento della povertà e, quindi, della denatalità.

6.- Le delocalizzazioni.
“delocalizzazione” delle imprese, la quale nasce dalla scelta della parte imprenditoriale di spostare altrove − in tutto o in parte − la propria attività produttiva e nella larga maggioranza dei casi in un diverso Paese .
Come si è detto, il problema delle delocalizzazioni è avvertito in tutti i Paesi in un contesto di globalizzazione, ma se Paesi come la Cina e gli USA possono adottare, per contrastarlo, soluzioni “forti” ad esempio attraverso il controverso sistema dei dazi doganali, nella UE sono praticabili soluzioni del genere solo per impedire delocalizzazioni al di fuori del territorio dell’Unione, mentre non è possibile impedire ad una azienda il trasferimento della produzione da un Paese all’altro Paese dell’Unione e di un Paese SEE.
Infatti, il trattato di Maastricht ha introdotto la libera circolazione dei capitali tra le libertà sancite dai trattati, si tratta di una delle quattro libertà fondamentali del mercato unico UE che, oltre a essere quella di più recente introduzione (2004), è anche la più ampia in virtù della sua peculiare dimensione extra UE. Attualmente l’articolo 63 TFUE vieta tutte le restrizioni ai movimenti di capitali e ai pagamenti tra Stati membri, nonché tra Stati membri e Paesi terzi. La Corte di Giustizia UE ha il compito di interpretare le disposizioni relative alla libera circolazione dei capitali e in tale settore esiste un’ampia giurisprudenza. In caso di ingiustificata restrizione della libera circolazione dei capitali da parte degli Stati membri trova applicazione la normale procedura di infrazione prevista dagli articoli 258-260 TFUE.
Per questo all’interno della cornice dei trattati UE un singolo Stato non può impedire le delocalizzazioni, mentre a tal fine una politica comune di tipo fiscale quale quella dianzi descritta potrebbe sicuramente rivelarsi molto efficace.
Deve essere, in primo luogo, chiarito che la delocalizzazione non coincide con la esternalizzazione, anche se può accadere che le due scelte siano contestuali.
Infatti, con il termine “delocalizzazione” si allude ad un mero spostamento geografico dell’attività produttiva, a prescindere da ogni variazione della struttura giuridica del soggetto imprenditore (può così accadere che una medesima casa-madre apra una filiale o unità produttiva all’estero continuando a produrre in prima persona lo stesso bene o servizio, ma in un luogo diverso) mentre con il termine “esternalizzazione” si allude alla dismissione di una fase o parte dell’attività produttiva prima realizzata dall’impresa al suo interno, seguita dalla riacquisizione del prodotto, del semilavorato, del servizio realizzato ora da un terzo, a prescindere da ogni variazione spaziale (può così accadere che il terzo realizzi il prodotto, il semilavorato o il servizio all’interno dello stabilimento dell’impresa esternalizzante) .
Come è accaduto anche di recente, i licenziamenti per ragioni economiche – licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo e licenziamenti collettivi – sono fra gli strumenti maggiormente utilizzati per le delocalizzazioni.
Va anche considerato che, in questo ambito, il diritto del lavoro viene chiamato in causa solo in poche ipotesi perché “le strategie di delocalizzazione aggirano in misura consistente gli strumenti giuslavoristici per avvalersi invece delle soluzioni offerte dal diritto commerciale” , grazie anche alla suddetta mancanza, in ambito UE, di una politica fiscale comune tra tutti gli Stati membri .
Su quest’ultimo problema, molto complesso e dibattuto, si sono avute molte decisioni della Corte di Giustizia.
Tra queste ci si limita a ricordare la nota sentenza della Corte di Giustizia UE del 12 settembre 2006, C-196/04 Cadbury-Schweppes, con la quale è stato stabilito che la libertà di stabilimento consente di localizzare ai fini dell’imposta sul reddito un’impresa in un Paese UE anche per sole motivazioni fiscali, purché non si tratti di “costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale”.
La CGUE, nell’anzidetta sentenza, ha altresì specificato che i suddetti effetti di ristrutturazione organizzativa possono essere originati dall’obiettivo di una migliore efficienza gestionale o produttiva ovvero finalizzati ad un incremento della redditività d’impresa (e quindi eventualmente del profitto) e non solo determinati dalla necessità di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli non contingenti oppure a spese straordinarie.
Ma ha anche aggiunto che questo non significa affatto che la decisione imprenditoriale sia sottratta ad ogni controllo e sfugga a ben precisi limiti.
Infatti, tutti i diversi orientamenti sono concordi in ordine all’esistenza del controllo giudiziale sull’effettività del ridimensionamento nonché sul nesso causale tra la ragione addotta e la soppressione del posto di lavoro del dipendente licenziato.
Parimenti costituisce limite al potere datoriale costantemente affermato dalla giurisprudenza della nostra Corte di cassazione quello identificato nella non pretestuosità della scelta organizzativa, che comporta che resti saldo il controllo del giudice sulla effettività e non pretestuosità della ragione concretamente addotta dall’imprenditore a giustificazione del recesso.
E viene ricordata la costante affermazione secondo cui: “il motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, nel cui ambito rientra anche l’ipotesi di riassetto organizzativo attuato per la più economica gestione dell’impresa, è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost., ma al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore. Pertanto, non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, sempre che risulti l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato” (Cass. n. 24235 del 2010; Cass. n. 15157 del 2011; Cass. n. 7474 del 2012; tra le più recenti conformi: Cass. n. 18409 del 2016; Cass. n. 16544 del 2016; Cass. n. 6501 del 2016; Cass. n. 12242 del 2015; Cass. n. 25874 del 2014, queste ultime in motivazione).
opo il sostanziale fallimento delle norme inserite nella legge di Stabilità per il 2014 e nel decreto Dignità del 2018, ora ha elaborato un testo – che ha dato luogo al d.l. 24 agosto 2021, n. 118 − volto a contrastare per legge le delocalizzazioni produttive.
Il ministro del Lavoro Andrea Orlando e la viceministra dello Sviluppo Economico Alessandra Todde, hanno inteso far riferimento alla loi Florange varata nel 2014 da un Francois Hollande per rispondere alla “fuga” di Arcelor Mittal dallo stabilimento siderurgico della Mosella.
Tuttavia, anche quella legge, come ha riconosciuto lo scorso anno al Senato l’allora titolare del MISE Stefano Patuanelli, si è rivelata largamente inefficace come deterrente nei confronti delle multinazionali che decidono di spostare la produzione altrove.
Né va omesso di sottolineare che, prima ancora che il testo fosse definito, già alcuni giuristi italiani hanno rilevato che l’eventuale stretta sulle delocalizzazioni va applicata soltanto a coloro che se ne sono veramente approfittati, in quanto la libertà di scegliere il luogo dove produrre non può essere imposta dal legislatore nazionale, semmai può essere resa più o meno attrattiva perché in caso contrario si rischia che le aziende non vengano a investire in Italia .
Ne consegue che, anche in questo caso, per una soluzione generalizzata e definitiva del problema e delle sue incisive conseguenze sulla tutela dei lavoratori sarebbe necessario un intervento della UE diretto alla istituzione di un unico Ministro delle Finanze in ambito UE oltre che alla revisione dei principi della libertà di impresa e della libertà di stabilimento all’interno dell’Unione europea, mentre i pur pregevoli tentativi dei singoli Stati volti a contrastare la concorrenza fiscale e salariale di altri Stati membri non possono dare risposte esaustive.
Comunque, dopo le polemiche che hanno accompagnato il suddetto decreto-legge la questione delle delocalizzazioni è stata oggetto un semplice articolo della legge finanziaria in via di approvazione, con una consistente riduzione dell’entità delle sanzioni già poco significative per colossi come le multinazionali.
La nuova normativa si applica ad imprese con almeno 250 dipendenti e licenziamenti di almeno 50 unità non dovuti a squilibri economico-finanziari. Oltre a vari incentivi per evitare la delocalizzazione è previsto l’obbligo per le aziende di comunicare in anticipo la chiusura degli stabilimenti alle istituzioni e di presentare un piano che ne limiti l’impatto sociale.
Senza il piano o in assenza dell’accordo sindacale, scattano le sanzioni: nel primo caso pari al raddoppio di quanto previsto dalla legge n. 92 del 2012 (la legge Fornero) per i licenziamenti collettivi; nella seconda fattispecie, pari al 50% in più dello stesso contributo.
Secondo un conteggio fatto dall’Ufficio Studi CGIL per il quotidiano La Repubblica l’applicazione della norma anti-delocalizzazioni costerebbe al datore di lavoro complessivamente (sommando il contributo comunque dovuto in base alla legge sui licenziamenti collettivi alla nuova sanzione) euro 10.800 per ogni lavoratore nella prima fattispecie (inadempienza) ed euro 8.100 nella seconda ipotesi (mancato accordo sindacale) in caso di stipendio mensile pari ad euro 1.200; euro 11.566 ed euro 8.673 in caso di stipendio pari ad euro 1.400.
Moltiplicando queste cifre per 300 dipendenti (numero medio delle chiusure di stabilimenti avvenute fin qui in Italia) la sanzione complessiva oscillerebbe tra un massimo di 3,4 milioni di euro a un minimo di 2,6 milioni di euro, parte dei quali le aziende sarebbero già tenute a pagare in base alle norme vigenti sui licenziamenti collettivi. Ciò significa che l’aggravio netto sarebbe in realtà rispettivamente di 1,7 milioni di euro e di 810mila euro. Tali cifre non appaiono dissuasive se confrontate con i fatturati globali delle multinazionali, a titolo di esempio: (i) Whirlpool raggiunge 19 miliardi di dollari (avendo oltretutto beneficiato in Italia di fondi pubblici per circa 100 milioni euro); (ii) Gkn 10 miliardi di sterline; (iii) Caterpillar 41 miliardi di dollari.
Comunque, poiché la posta in gioco è la dignità del lavoro è evidente che non si può comunque puntare solo sulle sanzioni perché si tratta di tornare all’etica del lavoro e, per noi italiani, all’applicazione dell’art. 41 Cost. che, dopo aver affermato al primo comma che l’iniziativa economica privata è libera, subito dopo precisa che essa non può svolgersi “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (secondo comma) e che “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” (terzo comma).
E la dignità da rispettare non è solo quella dei lavoratori, ma è anche quella degli stessi datori di lavoro che solo se rispettano la dignità sociale dei dipendenti e gli altri vincoli previsti non solo tutelano anche la propria dignità ma soprattutto valorizzano il ruolo − tuttora valido − che i Costituenti hanno attribuito all’impresa e all’imprenditore consistente nel promuovere lo sviluppo economico, il progresso tecnologico, l’innovazione, il miglioramento della qualità della vita individuale e collettiva.
Tali esigenze oggi, a più di sessanta anni dalla stesura dell’art. 41 Cost., sono tuttora attuali e si manifestano nella cultura della responsabilità sociale d’impresa, che si legge tra le righe della norma costituzionale, e che negli anni si è diffusa e consolidata anche a livello sovranazionale, venendo monitorata da organismi indipendenti .
Se invece le imprese puntano esclusivamente ad accumulare ricchezza non fanno che alimentare la diffusione di una oggettivizzazione dei lavoratori che finisce con il corrispondere a quella che Karl Marx in uno scritto giovanile considerava “alienazione economica” perché nei fatti porta in prevalenza a degradare i lavoratori a merce quante più merci hanno prodotto, sicché si ha un impoverimento dei lavoratori direttamente proporzionale all’arricchimento dei datori di lavoro la cui posizione si rafforza sempre più, senza peraltro un reale beneficio per l’economia generale , in quanto per effetto di quello che il sociologo Domenico De Masi chiama “il grande paradosso” la ricchezza così accumulata viene solo in parte reinvestita in attività produttive e questo comporta che ogni anno aumenta la ricchezza complessiva del pianeta ma in tutti i Paesi aumenta anche il divario tra ricchi e poveri, il che è causa di disgregazione sociale.
Per tali ragioni la società solidale − che è il frutto di investimenti, pubblici e privati, nel capitale umano e che è quella prefigurata dalle moderne democrazie – rischia di essere soppiantata da una società estremamente competitiva, caratterizzata da individualismi, diseguaglianze e discriminazioni.
E tale fenomeno incide negativamente su tutte le componenti della società, compresi i gestori delle multinazionali nonché le sempre più numerose aziende – anche italiane – che si stanno impegnando nello sviluppare al loro interno un buon livello di benessere organizzativo, intendendo con questo termine la capacità di migliorare il benessere fisico, psicologico e sociale dei lavoratori, spesso con benefici effetti sul fatturato anche in tempi di pandemia .
Ne consegue che l’anzidetto comportamento di tipo egoistico oltre ad essere contrario ai principi condivisi cui si ispirano le nostre Carte, incide negativamente sull’economia, genera costi umani e materiali molto elevati e quindi neppure “conviene”.

7.- Il ruolo del giudice.

Com’è noto, in ambito europeo, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la loro giurisprudenza in materia di diritti fondamentali hanno, rispettivamente, avuto un ruolo determinante al fine di consentire il progresso dei diritti umani e questo risulta confermato anche dai richiami alla giurisprudenza europea contenuti nella Direttiva UE 2019/1152.
Il ruolo centrale delle suddette Corti nei rispettivi sistemi, la notevole influenza di tali decisioni sulle giurisprudenze dei giudici nazionali sono fra le cause per le quali da tempo i più attenti studiosi del diritto pongono l’accento sulla tendenza delle valutazioni di giustizia materiale a prevalere rispetto al comando delle leggi in senso formale .
Dire che la c.d. giustizia materiale è in primo piano rispetto alla legge in senso formale significa che è in primo piano il “ruolo sociale” del giudice , accanto a quello dell’avvocato.
Infatti, è soprattutto nello svolgimento di queste due attività ‒ diverse ma complementari ‒ che si manifesta nel modo più significativo la finalità propria del diritto, quale scienza da includere nel novero delle scienze sociali le quali, nell’ambito della categoria delle c.d. “scienze umane”, sono caratterizzate dal fatto di studiare comportamenti collettivi.
Questo “ruolo sociale” è quello che al giudice è stato assegnato dalla nostra Costituzione e si manifesta attraverso la motivazione dei provvedimenti che l’art. 111, sesto comma, Cost. prevede come obbligatoria in tutti i casi, con una scelta tutt’altro che scontata e non presente in molte Costituzioni.
Ma in sede giudiziaria istituzionalmente ci si limita a valutare comportamenti patologici, mentre per combattere, in linea generale, le degenerazioni che si registrano nel mondo del lavoro siamo tutti chiamati a diffondere prassi e comportamenti “fisiologicamente” corretti rispetto ai quali i comportamenti “patologici”, dovrebbero rappresentare delle eccezioni.

8.- Il trinomio ambiente-salute-lavoro dignitoso nella nostra Costituzione e in ambito UE.

É noto che la nostra Costituzione ‒ nella quale la persona e il rispetto della persona hanno un ruolo centrale ‒ per una precisa decisione dei Padri costituenti, anziché dedicare un apposito articolo alla tutela della dignità umana, ha seguito una diversa impostazione, che si è tradotta nella solenne proclamazione, al primo comma dell’art. 1, che «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro».
In tal modo è stato creato un profondo collegamento tra democrazia e lavoro, configurandosi la questione democratica come questione del lavoro, come è stato acutamente osservato .
Infatti, secondo la tesi più accreditata , una simile scelta è stata fatta nell’ottica di considerare il lavoro dei singoli consociati non solo come il mezzo con cui mettere a frutto i propri talenti e procurarsi un reddito, ma soprattutto come lo strumento principale per dare «un contenuto concreto» alla partecipazione del singolo alla comunità e per tutelarne la dignità, la cui inviolabilità non è proclamata espressamente da nessun articolo della Costituzione (diversamente da quel che accade in altre Carte) nell’idea che circoscrivere in una disposizione tale concetto avrebbe potuto equivalere a sminuirne la portata, mentre esso rappresenta il “valore fondante” di tutta la Carta.
Ne consegue che, nel nostro ordinamento, per far vivere la democrazia non basta alzare il livello culturale della popolazione, ma è necessario farlo favorendo l’affermazione ‒ come tipo di lavoro dominante ‒ di un lavoro che sia compatibile con il modello avuto di mira dai Costituenti.
Cioè un lavoro diretto al benessere – materiale e spirituale − del singolo e della società e che consenta a ciascuno di coltivare le proprie aspettative personali – anche affettive – programmando, con sacrifici ma con serenità, il proprio futuro, in una condizione in cui vi sia armonia tra lo sviluppo della personalità individuale, che ha bisogno di certezze e di stabilità, e l’esperienza di vita e lavorativa.
Un lavoro che non è solo un mezzo di sostentamento economico, ma anche una forma di accrescimento della professionalità e di affermazione dell’identità, personale e sociale, come tale tutelato dagli articoli 1, 2 e 4 Cost. (Cass. 18 giugno 2012, n. 9965).
Tale impostazione trova riscontro anche nelle disposizioni della Costituzione in cui si fa espresso riferimento alla “dignità” e, precisamente:
• nell’art. 3, primo comma, Cost., ove, a proposito del principio di uguaglianza, si parla di «pari dignità sociale»;
• nell’art. 36, primo comma, Cost., ove il diritto ad un’equa retribuzione è collegato all’obiettivo di assicurare «una esistenza libera e dignitosa» al lavoratore e alla sua famiglia;
• nell’art. 41, secondo comma, Cost., ove si stabilisce che l’iniziativa economica privata non possa «svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».
In questa ottica la tutela del diritto ad un lavoro dignitoso dai nostri Costituenti è stata collegata a quella del diritto alla salute – da intendere come “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” e non come “semplice assenza dello stato di malattia o di infermità”, secondo la definizione contenuta nel Preambolo della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità OMS (oppure World Health Organization, WHO, entrata in vigore il 7 aprile 1948, cui tuttora si fa riferimento nei principali atti nazionali e internazionali − tanto che a questi due diritti è stata attribuita una configurazione similare, essendo stati entrambi delineati in una duplice dimensione sia individuale – cioè come diritti fondamentali delle singole persone ‒ sia anche sociale.
Di conseguenza il principio della pari dignità e quindi dell’uguale valore di tutte le persone umane per i nostri Costituenti viene a poggiare su le due imponenti colonne rappresentate dal diritto al lavoro dignitoso e alla tutela della salute.
Deve anche essere sottolineato che, sia pure con parole diverse, i suddetti diritti fondamentali sono intesi allo stesso modo nell’ambito del “progetto europeo”, quali “elementi portanti” dello Stato democratico contemporaneo, visto che l’essenza dei regimi democratici moderni è rappresentata dal fatto che il benessere di ciascuno è la misura del benessere dell’intero corpo sociale di appartenenza e sia i singoli Stati membri sia la stessa Unione europea sono fondati sul principio democratico.
Questo emerge in modo evidente nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che:
a) all’art. 31, paragrafo 1, stabilisce che: “ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose”.
b) all’art. 35 (Protezione della salute) prevede che: “ogni individuo ha il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche alle condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi nazionali. Nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana”.
Ed essendo più recente, al riconoscimento di questi diritti, la Carta UE aggiunge anche, all’art. 37, la tutela dell’ambiente, affermando che: “un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile”.
Tuttavia, pur partendo da un quadro normativo virtuoso, con lo “scolorirsi”, in Italia e nella UE, del modello dello Stato sociale ‒ come welfare state, ossia “lo Stato del benessere” ‒ è accaduto che, in quella che il compianto Zygmunt Bauman ha definito “società liquida”, anche il lavoro sia diventato “liquido” e cioè sia diventato “occupazione”, termine che si collega ad un’attività che consente di procurarsi un reddito e di vivere o anche solo sopravvivere nel presente, a differenza del “lavoro” che, per come lo intende anche la nostra Costituzione, è uno strumento che consente di vivere ‒ non soltanto di sopravvivere ‒ in una dimensione non solamente legata al presente ma anche proiettata verso il futuro, congiungendo l’obiettivo di perseguire il benessere del singolo unitamente con quello del corpo sociale di riferimento.
In questo contesto si sono inseriti il lavoro nell’economia delle piattaforme digitali e le delocalizzazione nella loro attuale configurazione, realtà che pur essendo nuove piuttosto che evocare il futuro nei fatti si manifestano come utili strumento per la perpetrazione di condotte di violazione dei diritti dei lavoratori se non addirittura di sfruttamento che affondano le proprie radici nel passato.
Quindi, per combattere in modo efficace le relative distorsioni oltre ad un appropriato complesso di sanzioni, realmente dissuasive e concordate in sede UE, la strategia migliore – e in genere privilegiata dall’Unione – dovrebbe essere quella della prevenzione, basata su un forte ritorno, nei fatti, all’applicazione dei principi fondamentali in materia di lavoro, salute e ambiente.
Del resto, questa impostazione è conforme a quanto da tempo si sostiene in sede ONU e, in particolare nell’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro), secondo cui per l’Europa – e, specialmente, per l’Italia − il tema in concreto più importante (anche alla luce della Costituzione italiana), collegato agli squilibri delle disuguaglianze, è quello di puntare su “progressi duraturi in termini di creazione netta di lavoro dignitoso”, un’adeguata tutela della salute in un’ottica universalistica nonché sulla tutela di un ambiente salubre,.
Cioè si deve puntare al trinomio ambiente-salute-lavoro dignitoso, che è essenziale per ottenere uno sviluppo equo e sostenibile.
La centralità del suddetto obiettivo è stata ribadita nell’impegno assunto dai Capi di Stato di 193 Paesi ONU con la firma del documento “Trasformare il nostro mondo. L’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile” con il quale sono stati fissati i molteplici specifici impegni per lo sviluppo sostenibile da realizzare entro il 2030, tutti riconducibili alla realizzazione del suddetto trinomio.
Ma da tempo l’OIL aggiunge che l’incapacità mostrata sinora dal sistema economico e politico a tutti i livelli − locale, nazionale e internazionale − di dare risposte concrete alla suddetta sfida “è preoccupante perché strutturale e rintracciabile” senza distinzioni, nelle organizzazioni e negli enti di tutti i settori − del settore pubblico, di quello privato e di quello non profit – ovviamente, in ognuno con la propria quota di responsabilità.
Pertanto, l’OIL considera auspicabile che la “società civile organizzata” faccia da pungolo esterno al processo decisionale in senso stretto, onde sollecitare spinte in avanti, ad esempio chiedendo di spostare l’attenzione dalla misurazione del risultato (il PIL) alla misurazione appropriata della qualità del processo di sviluppo (la produttività), in relazione proprio alla necessità di porre al centro dell’attenzione la qualità del lavoro.
Del resto, la tesi del superamento del PIL per misurare il livello di sviluppo degli Stati fin dagli anni novanta è stata sostenuta da molti autorevoli economisti come il pakistano Mahbub ul Haq, l’indiano Amartya Sen, l’americano Joseph Stiglitz il francese Jean-Paul Fitoussi, nonché la britannica New Economic Foundation (NEF), i cui studi hanno portato all’economia della felicità, sviluppatasi all’incrocio di varie scienze riguardanti lo sviluppo sostenibile, che a partire dalla storica risoluzione dell’Assemblea Generale ONU del luglio 2011 si è tradotta nella diffusione annuale, a partire dal 2012, del Rapporto sulla felicità (World Happiness Report) , che monitora la felicità di più di 150 Paesi nel mondo.
E anche la Commissione UE nel 2010, al momento del lancio della strategia Europa 2020, proponeva di promuovere un modello di crescita che non si limitasse semplicemente a far crescere il PIL, rilevando che molti organismi si sono fatti promotori di una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva quale fattore essenziale dello sviluppo economico. Ma, poi, nel registrare i risultati di medio termine della Strategia la stessa Commissione, nella Comunicazione del 5 marzo 2014 (COM 2014 130 final), intitolata “Bilancio della strategia Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva”, ha dovuto riconoscere che i progressi verso la realizzazione degli obiettivi di Europa 2020 sono stati frenati dalle disparità sempre più forti tra gli Stati membri, e spesso al loro interno, sicché anche se l’obiettivo era quello della convergenza delle economie della UE, invece la crisi ha accentuato il divario tra gli Stati membri più efficienti e quelli meno efficienti e sono anche aumentate le differenze tra le regioni di uno stesso Stato membro e dei vari Stati membri ed anche il generalizzato superamento del PIL non è realizzato .
Nell’occasione la Commissione ha sottolineato che i risultati poco soddisfacenti si erano riscontrati specialmente con riguardo all’occupazione, alla ricerca e sviluppo e alla riduzione della povertà, che sono i settori in cui gli effetti della crisi si sono fatti maggiormente sentire e per i quali occorre un impegno maggiore per compiere ulteriori progressi, pur nella consapevolezza che gli obiettivi di Europa 2020 in questi ambiti si traducono in impegni politici, nei quali si riflette il ruolo centrale che i Governi nazionali dovrebbero svolgere ciascuno nel proprio Stato, secondo il principio di sussidiarietà. Tuttavia, nella maggior parte dei settori gli obiettivi nazionali non erano “sufficientemente ambiziosi” da permettere di realizzare complessivamente la Strategia proposta a livello dell’UE. Inoltre, questi diversi livelli di impegno dei Governi si riflettevano anche nel grado variabile di risposta e “ambizione politica” all’interno dell’Unione nel suo complesso, che risultava condizionata dal prevalere delle considerazioni politiche a breve termine sulle strategie a lungo termine.
Da allora sono passati molti anno eppure, ancora oggi, nella UE si continua, nei fatti, per misurare il benessere e lo sviluppo dell’Unione a fare riferimento esclusivamente al PIL ed è significativo che, pochi mesi dopo la suddetta Comunicazione, la UE – e quindi l’Italia – per effetto del nuovo sistema europeo dei conti nazionali e regionali SEC 2010 come definito dal Regolamento UE n. 549/2013 ‒ emanato grazie ad una stretta collaborazione fra l’Ufficio statistico della Commissione UE (EUROSTAT) e i contabili nazionali degli Stati membri ‒ ha disposto di includere dal settembre 2014 nel calcolo del PIL degli Stati membri anche i ricavi di prostituzione, vendita di droghe illegali, contrabbando e tutte le altre operazioni finanziarie illecite, al fine di rendere le economie dei vari Paesi membri più comparabili, visto che alcuni Stati già inserivano tali voci nel calcolo delle loro entrate.
Quest’ultima scelta, già di per sé discutibile, è sintomo del fatto che non si è riusciti a liberarsi dalla “tirannia del PIL” senza considerare che pur trattandosi di un buon misuratore per l’attività industriale, commerciale e finanziaria degli Stati, da un punto di vista quantitativo, non solo non è sufficiente a misurare la crescita complessiva degli Stati, ma è del tutto inadeguato, ad esempio, a misurare la “produttività” del lavoro pubblico, normalmente finalizzato a creare “valore” e non prodotti.
Questo può comportare che, sull’altare del PIL, si possa determinare il sacrificio di quello che anche l’autorevole Corte costituzionale tedesca (sentenza del 9 febbraio 2010) ha qualificato come «intangibile» «superprincipio» della tutela della dignità umana, oltretutto dimenticando che l’effettività della tutela dei diritti fondamentali, da sempre, è considerata il presupposto della legittimità democratica del «progetto europeo» e il suo tratto caratteristico in ogni settore.

9.- Conclusioni.

In tutta Europa, e quindi anche in Italia, la qualità e la dignità del lavoro hanno cominciato a cedere alle esigenze del mercato a partire da quando, a metà degli anni novanta del novecento, la flessibilità del lavoro è stata considerata come uno strumento per incrementare i livelli occupazionali e non più soltanto come un mezzo per fronteggiare le sfide del cambiamento tecnologico e produttivo riguardanti le aziende, nell’idea che l’apertura verso forme più flessibili di lavoro potesse servire a porre un freno alla dilagante disoccupazione, concentrata soprattutto al Sud e, in generale, tra i giovani e le donne, nonché a fare emergere l’ampio settore della economia sommersa e del lavoro in nero (vedi: il rapporto Job Study dell’OCSE del 1994).
Nel corso del tempo non solo si è accertato che quella strategia non consentiva di raggiungere le finalità indicate ma la situazione è degenerata tanto che oggi, anche in Europa, si registrano situazioni di lavoro schiavistico e, anche quando non si arriva a questo, i diritti dei lavoratori spesso sono calpestati, come può accadere nell’economia delle piattaforme digitali e nelle delocalizzazioni delle multinazionali, per non parlare del lavoro degli immigrati.
Da anni la Commissione UE propone strategie per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, ma gli Stati membri non riescono a porsi obiettivi nazionali “sufficientemente ambiziosi” per realizzare tali strategie.
Adesso, anche tenendo conto dell’impegno assunto dagli Stati in sede ONU con la firma del documento “Trasformare il nostro mondo. L’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile”, è finalmente arrivato il momento di impegnarsi per realizzare entro il 2030, tutti gli obiettivi indicati nel documento, riconducibili alla realizzazione del trinomio ambiente-salute-lavoro dignitoso, che vanno nella stessa direzione degli obiettivi più ambiziosi (di quelli passati) in materia di occupazione, competenze e protezione sociale proposti dalla Commissione UE al fine di costruire un’Europa sociale forte entro lo stesso 2030.
Si tratta di un cammino che, come afferma da tempo l’OIL, coinvolge tutta la società civile e, quindi, ognuno di noi.
Penso che valga la pena di non tirarsi indietro perché è in gioco il principio democratico.

 

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