1. Considerazioni introduttive.
L’evoluzione dei problemi della responsabilità civile è strettamente collegata alla rivoluzione industriale, che ha determinato rapide e sconvolgenti modificazioni nell’economia e nella politica . La scoperta di nuove forme di energia e la creazione di macchine sempre più potenti, impiegate nei più svariati settori dell’attività umana, ha comportato una profonda, ed assai celere, trasformazione della società. L’aumento di eventi di danno legati alle più numerose e gravi fonti di pericolo e la maggiore complessità delle strutture industriali – nelle quali l’uomo tende a dissolversi nell’organizzazione tecnica o, addirittura, viene sostituito da energie naturali – hanno reso sempre più complessa la ricerca dell’autore del danno e, ancor più, la dimostrazione della colpa in capo allo stesso.
Nel medesimo contesto storico e sociale è emersa l’insufficienza del tradizionale criterio della colpa con riferimento ai danni causati, a terzi, da attività o cose pericolose, in relazione ai quali spesso non solo è difficilmente individuabile l’autore, ma, addirittura, non sono note le cause . Il principio, di matrice essenzialmente individualistica, della responsabilità per colpa è apparso, in altre parole, inidoneo a regolare il risarcimento di tutte le nuove e sempre più frequenti ipotesi di danno . A ciò si aggiunga il graduale superamento di una concezione individualistica del diritto a favore di nuove correnti positivistiche che ravvisano nell’uomo il membro di una società organizzata, in una prospettiva che vede sempre più frequente il ricorso alla funzione sociale .
In altre parole, le rivoluzioni industriali hanno comportato uno slittamento del rapporto uomo-cosa a favore di quest’ultima: l’uomo ha perso, via via, sia il controllo delle cose che utilizza sia la piena consapevolezza sull’impiego delle nuove fonti di energia, sempre più potenti . Non di rado, accade, peraltro, che l’autore dell’illecito che ha determinato il danno rimanga anonimo .
Si è quindi fatta strada l’idea che fosse necessario sciogliere il nesso tra l’atto illecito e la responsabilità civile, per spostare il baricentro di quest’ultima dall’idea di sanzione all’atto illecito del colpevole a quella della reazione al danno ingiusto , facendo prevalere l’elemento della difesa sociale sulla considerazione individualistica dell’imputabilità del soggetto .
Considerata l’evoluzione che ha caratterizzato la materia della responsabilità civile anche nel nostro ordinamento, appare legittimo domandarsi se la c.d. rivoluzione digitale attualmente in atto renda necessario un ulteriore mutamento di prospettiva con riferimento ai paradigmi interpretativi dell’ascrizione della responsabilità civile ai sensi dell’art. 2049 c.c.
L’obiettivo del presente contributo – presa coscienza che l’oramai affermata diffusione delle nuove tecnologie ha inciso significativamente sull’organizzazione del lavoro, dando luogo a modelli di preposizione institoria “nuovi” – è quello di esaminare tali nuovi modelli, nell’ottica di verificare l’adeguatezza dei criteri di imputazione della responsabilità ex art. 2049 c.c. e dei paradigmi su cui la medesima si fonda.
2. La rivoluzione digitale: i nuovi modelli di preposizione institoria.
Nell’ultimo trentennio, per effetto della variabilità e della globalizzazione dei mercati, si è passati dall’epoca dell’uniformazione a quella della diversificazione , ove flessibilità, organigrammi non piramidali (ma piatti), tempi de-sincronizzati e organici modulari, diventano le formule chiave. In un siffatto contesto, mutano, allo stesso tempo, i contenuti della prestazione, i connotati della professionalità, le modalità di impiego e, quasi come una conseguenza, i tipi di contratto, tanto che si è parlato del passaggio «dal lavoro ai lavori» .
Tra gli effetti – ad oggi riscontrabili non solamente nei processi “centrali” di produzione e manifattura ma anche in quelli “periferici” di acquisto, di vendita, di manutenzione, peraltro tra loro sempre più interconnessi – della digitalizzazione dei fattori produttivi, vengono in considerazione l’introduzione della robotica avanzata e delle tecnologie additive nonché l’automazione integrata dei processi produttivi e l’impiego dell’intelligenza artificiale . Ciò non può che comportare mutamenti dei modelli organizzativi dell’impresa, nell’ottica della sempre più accentuata sinergia tra macchine, informazioni e persone, nonché, conseguentemente, l’insorgere di problematiche (non solo concernenti la qualificazione del rapporto, ma anche) inerenti all’esercizio dei poteri datoriali (assai spesso mediato dall’utilizzo di sistemi intelligenti, dunque, potenzialmente più pervasivo, almeno nella accezione del controllo) .
Si è presa quindi gradualmente coscienza, da un lato, della esistenza di un “contingente” di lavoratori autonomi deboli, sempre più vicini ai lavoratori dipendenti, ma con tutele più fragili e limitate di questi ultimi – contingente nel quale si collocano, tra l’altro, le collaborazioni continuative e coordinate, in relazione alle quali era alto, almeno in passato, il rischio di confusione, nel concreto svolgimento del rapporto, tra coordinazione e subordinazione – e, dall’altro lato, della difficoltà di intercettare la variabilità dei lavori di fronte ad un sempre più avvertito «sfrangiamento dei criteri definitori» .
A questo proposito, vengono anzitutto in considerazione la c.d. gig economy e, quindi, i riders – per i quali si pone il problema di comprendere se vi sia o meno un datore di lavoro e se tale possa essere la “piattaforma” – ma anche modalità di esecuzione delle prestazioni lavorative nuove, figlie del superamento del modello di impresa gerarchica e fordista – ove il potere direttivo dell’imprenditore, tratto caratteristico del lavoro subordinato, si estrinsecava in ordini e comandi – e dell’affermazione di grandi imprese, con elevati livelli di automazione, nelle quali, appannandosi sempre più la prospettiva di un datore di lavoro unico , il potere direttivo si manifesta per lo più come potere organizzativo.
In una realtà ancora fluida si stanno venendo a dipanare nuovi assetti organizzativi dell’impresa. Si pensi, anzitutto, all’impresa “a-centrica” – nozione che appare calzante per talune piattaforme digitali – o al modello della rete di imprese (altresì definita come impresa policentrica), oggetto di specifica regolamentazione ad opera dell’art. 3, d.l. n. 5/2009 (convertito dalla legge n. 33/2009 e modificato, da ultimo, dal d.l. 179/2012, convertito dalla l. 221/2012).
La natura camaleontica e duttile di tale secondo strumento consente, invero, di tenere conto dei mutamenti delle realtà economiche di riferimento, dando forma a organizzazioni tra loro differenti, proiettate al conseguimento di risultati ottenibili solamente all’esito di una esecuzione protratta nel tempo, nonché di graduare l’intensità della collaborazione, la quale, comunque, assurge a denominatore comune ed imprescindibile del “tipo contrattuale” .
E, invero, nel contratto di rete, sono proprio le parti a dover indicare – oltre ai partecipanti, alla durata ed alle modalità per la successiva adesione di altri imprenditori – gli «obiettivi strategici di innovazione e di innalzamento della capacità competitiva dei partecipanti», definendo altresì un «programma di rete», compendiante, tra l’altro, le modalità di realizzazione dello “scopo comune” e le regole per l’assunzione delle decisioni dei partecipanti.
Nell’ambito della rete di imprese, può trovare spazio l’uso congiunto delle prestazioni di uno stesso lavoratore – di talché più retisti possono esercitare congiuntamente nei confronti di quest’ultimo, i poteri datoriali –, ma può altresì operare l’istituto del distacco .
Accanto a tali nuove figure, si collocano, poi, altri istituti noti e ormai regolamentati, quali, per menzionarne alcuni, l’appalto – inteso a consentire all’imprenditore di esternalizzare intere fasi della produzione – il distacco (al di fuori dell’ambito delle reti di imprese), la somministrazione di lavoro – attraverso la quale l’utilizzatore tende ad acquisire dall’esterno la mano d’opera necessaria – oltre ai contratti di stage e di apprendistato .
Senza considerare, poi, una forma di esecuzione della prestazione lavorativa che ha trovato larghissimo utilizzo in ragione dell’emergenza epidemiologica, lo smart working, il quale pone la lente di ingrandimento sulle inevitabili conseguenze del pervasivo ingresso della tecnologia nel mondo del lavoro: rarefazione del controllo “fisico” a fronte di un possibile maggior controllo da remoto (si pensi alla data-sorveglianza), moltiplicazione dei rischi (derivanti, ad esempio, dall’uso promiscuo degli strumenti di lavoro), perdita dei confini spazio-temporali in cui la prestazione viene resa.
In un siffatto contesto – che ci si è limitati in questa sede solamente a tratteggiare – sono venuti meno i paradigmi tradizionali di “potere di controllo” (divenuto un “potere di organizzazione”) e di subordinazione. A tal ultimo proposito, si è a più voci parlato di una crisi della fattispecie della subordinazione , trovandocisi innanzi non già ad una subordinazione, ma a più subordinazioni.
3. La responsabilità di padroni e committenti: una rilettura in prospettiva de iure condito.
La breve disamina dei mutamenti indotti dalla digitalizzazione e dall’evoluzione della realtà sociale nel mondo dell’impresa, prima, e del lavoro, poi, consente di osservare che gli stessi vanno in due differenti direzioni. Per un verso, si assiste alla rimodulazione e alla moltiplicazione delle modalità di atteggiarsi del rapporto di lavoro e dei tipi contrattuali che ne rappresentano la fonte, nonché dei contenuti della prestazione. Tanto che si è a più voci affermata l’opportunità di individuare – a prescindere dal nomen iuris dato al contratto una nozione di dipendenza economica , la quale si rifà ad elementi eterogeni rispetto a quelli propri della subordinazione, valorizzando indici di debolezza del prestatore rispetto al committente. Da altro (ma complementare) punto di vista, non può che prendersi atto della differente conformazione che i cosiddetti poteri datoriali, sempre meno orientati alla direzione e al controllo e sempre più da declinarsi – pur nella consapevolezza, per altro verso, della maggior pervasività del controllo che proprio la tecnologia consente – nel senso dell’organizzazione .
Appare, quindi, fondamentale, nell’ottica prettamente civilistica che il contributo si prefigge, “mettere alla prova” rapporto di preposizione e nesso di occasionalità necessaria, quali criteri di imputazione (di matrice giurisprudenziale) dell’art. 2049 c.c. E’, in altre parole, quanto mai opportuno verificare se gli stessi rispondano ancora alla finalità a cui sono destinati, ovvero necessitino di una rivisitazione sotto il profilo del significato da attribuirvi.
Tale disamina, alla ricerca di soluzioni equilibrate, idonee a contemperare i differenti interessi che vengono in considerazione, passa – nell’opinione di chi scrive – attraverso la conoscenza e l’esplorazione delle teorie del rischio di impresa e del pericolo .
Entrambe le teorie da ultimo evocate si rivelano, per ragioni e in misura differenti, insufficienti, di per sé, a rappresentare il fondamento della responsabilità oggettiva e, più nello specifico, quella di padroni e committenti. Dal canto suo, la teoria del rischio (di impresa) appare inidonea a fornire copertura a tutte quelle situazioni in cui il rapporto tra padrone/committente e domestico/commesso, si collochi al di fuori di una attività economica. Per altro verso, con riferimento alla teoria della esposizione al pericolo, è difficile individuare per tutte le ipotesi di responsabilità ex art. 2049 c.c. una “minaccia materiale di danno” o una “grave probabilità di lesione”. Nella specifica materia, invero, il pericolo verrebbe ad appiattirsi su quello introdotto per la sola presenza di una “organizzazione” o, meglio, di una attività organizzata nella realtà economica, cogliendo un aspetto già adeguatamente valorizzato dalla teoria del rischio di impresa, nelle sue più recenti declinazioni, che concepiscono il rischio come eventualità di danno a cui ci si espone con l’esercizio di una determinata attività.
L’indagine non può che tenere altresì in considerazione i due distinti fondamenti della responsabilità ex art. 2049 c.c. : l’esigenza di responsabilizzare colui che si avvale dell’attività altrui, per una propria utilità, accanto a quella di tutelare i terzi, vittime degli illeciti di “domestici e commessi”, nel senso di garantire loro il risarcimento da parte di soggetti, di norma, maggiormente solvibili, i quali, peraltro, appaiono anche i più idonei ad agire sul rischio stesso o, almeno, a tradurlo in un costo.
Tale ultimo profilo denota il superamento di una visione meramente individualistica dell’istituto della responsabilità civile in generale, ispirata al principio di solidarietà, scolpito nell’art. 2 Cost. .
Utilizzando la chiave del principio solidaristico, si possono prendere le mosse dalla teoria del rischio, per emanciparsi, però, dall’ottica parziale della responsabilità d’impresa (i cui limiti si sono già messi in luce) e avendo presente altresì la più efficiente distribuzione del costo degli incidenti (rectius degli illeciti).
E’ chiaro il riferimento alle note categorie maturate in seno alla Scuola del Law&Economics, con particolare riferimento alla regola secondo la quale a doversi fare carico dei costi del danno è colui che si trova nella migliore posizione per effettuare la cost-benefit analysis di una data attività.
Non si vuole certo sostenere che la teorica da ultimo evocata vada esente da critiche – che tuttavia non è questa la sede per porre in luce – ma solamente riconoscere come l’apertura della teoria del rischio a una concezione che tenga conto della prospettiva del Law&Economics, anche grazie alla chiave di lettura del principio solidaristico, possa apparire idonea a sintetizzare il fondamento della responsabilità ex art. 2049 c.c., offrendo utili punti fermi (certo modulabili sulla scorta dei mutamenti del contesto sociale di riferimento) nella disamina dei criteri di imputazione di tale fattispecie di responsabilità. Si potrebbe quindi parlare di una teoria del rischio delle realtà organizzate (e non già dell’impresa), nella quale il piano della responsabilità appare parzialmente arretrato – per effetto della contaminazione dell’analisi economica del diritto – dal livello dell’esecuzione a quello dell’organizzazione .
Venendo ai criteri di imputazione della responsabilità ex art. 2049 c.c., va da sé che, trattandosi di categorie di matrice giurisprudenziale, da un lato, ci si collochi inevitabilmente in una prospettiva de iure condito e, dall’altro, ci si confronti con una realtà in continua evoluzione, grazie ad un’opera, per così dire, di adattamento ai mutamenti della società, di cui si fa carico la giurisprudenza.
In un contesto, come quello tratteggiato, di forte digitalizzazione, di de-piramidalizzazione delle strutture, di allentamento dei confini spazio-temporali dell’adempimento, ma anche di maggiore tecnicismo del contenuto della prestazione (nel quale spesso il committente o preponente non ha le competenze per ingerirsi), una lettura rigorosa e arcaica del rapporto di preposizione apparirebbe insufficiente. È, dunque, condivisibile lo sforzo di dottrina e di giurisprudenza nel piegare l’elasticità di tale criterio alle esigenze del mutato contesto sociale, intendendolo come rapporto – anche solo di fatto e non necessariamente connotato dall’onerosità – in ragione del quale un soggetto, inserito anche temporalmente o occasionalmente nell’organizzazione altrui, svolge un’attività per conto del preponente, al quale è riconosciuta, almeno in astratto, la possibilità di esercitare vigilanza e direzione . Così facendo si prescinde non solo dal “tipo” contrattuale, ma anche dall’esistenza stessa di un contratto di lavoro. Le categorie della subordinazione, della collaborazione, della dipendenza economica, in questo specifico contesto, sfumano e si guarda alla sostanza di tutti quei rapporti in cui appare ragionevole tutelare i terzi e, parallelamente, responsabilizzare colui che esercita una attività organizzata, avvalendosi del lavoro di altri soggetti. Del pari, sulla scorta di un’impostazione di questo tipo, non viene data rilevanza all’esistenza di un concreto potere di controllo in capo al preponente – come si è visto sempre più difficilmente riscontrabile – valorizzando, di contro, l’inserimento del preposto (anche per un periodo limitato) nell’organizzazione del preponente, il quale rende in astratto configurabili i poteri di direzione e di coordinamento.
Così ricostruito, il rapporto di preposizione potrebbe allora essere più propriamente definito “criterio dell’inserimento nell’organizzazione altrui”. Dovendosi poter intendere come tale qualsiasi realtà nella quale un soggetto svolge un’attività nell’interesse di un altro, seguendo le istruzioni ed i criteri dettati dal secondo (si pensi, ad esempio, al lavoro domestico), seppur non necessariamente nell’ambito di una attività economica.
La prospettiva sopra delineata – nel senso di collocarsi, con taluni necessari adattamenti, all’interno della teoria del rischio – influenza anche l’indagine intorno al nesso di occasionalità necessaria, conducendo a condividere l’impostazione, fatta propria dalla più recente giurisprudenza di legittimità , che richiede tra la mansione assegnata e la condotta illecita un nesso tale per cui la seconda non sarebbe stata possibile in difetto della prima, nel senso che le conseguenze dannose assurgono, secondo un giudizio controfattuale di oggettivazione ex ante della probabilità o di regolarità causale, come sviluppo non anomalo – anche se frutto di violazioni, deviazioni o eccessi (oggettivamente prevedibili) – di attività rese possibili dalla funzione affidata all’autore dell’illecito. Ed è proprio la verifica della prevedibilità dell’illecito a chiudere, coerentemente con la funzione alla medesima attribuita, anche nell’ottica della ripartizione del rischio meno onerosa per la collettività, il cerchio della responsabilità vicaria: soltanto fino a che la conseguenza illecita appare prevedibile sulla scorta di una valutazione ex ante, il preponente è in grado di “gestire” il rischio che la stessa si verifichi.
4. Spunti per una riflessione sul diritto di regresso, nell’ottica della teoria del rischio “riadattata”.
Dottrina e giurisprudenza riconoscono pacificamente che il “padrone” o il “committente” (per usare i termini di cui all’art. 2049 c.c.), risarcito il danno patito dal terzo, sia legittimato, salvo casi eccezionali , al regresso, in misura integrale, nei confronti del preposto, che ha commesso l’illecito. Ciò, principalmente, sulla scorta dell’argomento che l’art. 2055 c.c. non sarebbe applicabile al caso di specie, atteso che ai sensi dell’art. 2049 c.c. padrone e committente rispondono per titoli diversi e uno solo è l’autore dell’illecito, non verificandosi una ipotesi di concorso nella produzione del fatto dannoso .
Pare, tuttavia, a chi scrive che una siffatta impostazione presenti profili di contrasto, da un lato, con la teoria del rischio di impresa “riadattata” secondo il paradigma sopra delineato e, dall’altro lato, con il perseguimento di un risultato funzionale agli interessi dell’impresa stessa.
Da un primo punto di vista, invero, ammettendo un regresso totale ed incondizionato nei confronti dell’autore dell’illecito, l’unico rischio di cui è chiamato a farsi carico chi fa capo ad una realtà organizzata è quello dell’incapacità di far fronte al risarcimento da parte dell’autore dell’illecito. Di contro, una corretta interpretazione della teoria del rischio (riadattata) imporrebbe al primo la protezione del secondo nella misura in cui i comportamenti di quest’ultimo non rappresentino deviazioni abnormi rispetto alla “condotta diligente”, dunque fintanto che gli stessi si connotino per un livello di colpa che non raggiunga la soglia della gravità; verificandosi solo in tale evenienza, tenuto conto della complessità socio-economica, i presupposti per una rimproverabilità .
Di una siffatta impostazione v’è nitida traccia, seppur con riferimento alla responsabilità medica, dunque alla previsione di cui all’art. 1228 c.c., in una recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione, la quale offre una lettura che valorizza il contesto in cui l’attività viene prestata, le scelte organizzative della struttura, nonché il rischio connaturato all’utilizzazione dei terzi nello svolgimento di una attività, concludendo nel senso dell’impredicabilità di un diritto di rivalsa integrale nei confronti del medico, sottolineando come, «diversamente opinando, l’assunzione del rischio di impresa per la struttura si sostanzierebbe, in definitiva, nel solo rischio d’insolvibilità del medico» .
Prendendo le distanze da quanto si legge, al riguardo, nella menzionata sentenza, ritiene chi scrive che, limitatamente al profilo in esame, non vi sia ragione per non considerare applicabile il ragionamento della Suprema Corte – valorizzando il contesto organizzato in cui l’illecito è commesso – anche alla fattispecie di cui all’art. 2049 c.c. E, a ben vedere, anche il rapporto tra la struttura sanitaria privata e il medico può articolarsi secondo modalità concrete irriducibili alla configurazione del sanitario quale mero strumento del programma obbligatorio assunto direttamente dalla struttura.
Dal secondo punto di vista, il riconoscimento di un diritto di regresso del committente a prescindere dalla presenza di una deviazione rispetto alla condotta diligente, rende concreto il rischio di inazione. Ciò con l’evidente conseguenza di una minor produttività o di una minore efficienza della realtà organizzata di riferimento .
A tale ultimo profilo si è mostrato sensibile il legislatore che ha limitato il diritto di rivalsa nei confronti dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti nonché nei confronti del medico: si pensi rispettivamente al Testo Unico del 1957 e alla c.d. legge Gelli-Bianco, n. 24 dell’8 marzo 2017, nonché, da ultimo, all’art. 21 del d.l. n. 76 del 16 luglio 2020, il quale ha limitato ulteriormente – alle sole ipotesi di dolo ovvero di inerzia o di omissione dello stesso, determinate da colpa grave – la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti. Ciò che rappresenta altresì una presa di coscienza della difficoltà di tratteggiare un confine tra la colpa lieve e quella grave, con lo scopo di evitare la progressiva riduzione dell’area della prima, a favore della seconda, così ponendo nel nulla l’apparato normativo di cui si è poc’anzi detto.
Per concludere, che – ancor più in contesto economico e sociale in continua evoluzione e connotato da un sempre maggiore grado di complessità – la ricostruzione della teoria del rischio offerta, con i relativi corollari, non sia una mera suggestione ma appaia fondata e coerente con il sistema, è confermato anche dalla modifica introdotta, dal c.d. Codice della Crisi , all’art. 2086 c.c., il quale impone all’imprenditore – anche individuale – di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa .
La responsabilità vicaria: una rilettura alla luce dei modelli di lavoro della rivoluzione digitale
- Di : Elena Guardigli
- Categoria: Principi e fonti