1.Vorrei innanzitutto ringraziare per l’invito gli organizzatori, in particolare il professore Franco Carinci, e complimentarmi per la scelta di ragionare sui Prin in corso di svolgimento. Si offre in questo modo alla nostra comunità accademica l’opportunità di un coinvolgimento scientifico sulle importanti tematiche, oggetto dei progetti di ricerca, e di un arricchimento complessivo di tutti, ricercatori e discussant.
In questo breve intervento, vorrei soffermarmi in modo schematico su tre aspetti della questione, per meglio dire su premesse di metodo e di contesto per poi approdare ai cenni sulle tecniche giuridiche di contrasto alla povertà del lavoro.
2. Rispetto al passato, il momento è ancora più adatto per prospettare e realizzare interventi normativi per contrastare il working poor, qualunque forma esso assuma. Mi sembra che la crisi finanziaria del 2007, i suoi effetti forti e devastanti sulle economie e gli assetti sociali mondiali, la globalizzazione, l’outsourcing, la digitalizzazione, la flessibilità dei modelli contrattuali di lavoro e, ora, la pandemia abbiano accresciuto il fenomeno e rendano necessario marginalizzare il mito liberista secondo cui il mercato e la società si debbano lasciare al loro destino, perché in questo modo si creano le migliori opportunità e il maggiore benessere per tutti. Mi pare che si faccia spazio tra gli economisti un’idea ben diversa dall’inizio di questo secolo (anche se in Italia non chiaramente esplicitata, ma l’orientamento di fatto è quello che conta). Occorre dunque pervenire alla considerazione del mercato e del capitale «non come feticci ma come strumenti al servizio degli obiettivi che la società pone attraverso le istituzioni democratiche», e che l’uomo economico, «razionale ed egoista cui i fondamentalisti del mercato volevano inchiodare tutte le scienze sociali, ha perso il centro della scena sulla quale aveva “steccato” più volte» (A. BOITANI, 2021, p. XII).
E’ improbabile che il “giusto” delle politiche economiche e del lavoro sia fatto solo di regole o di politiche discrezionali o di istituzioni. E’ una sapiente miscela; ed è inutile nascondere che interventi eteronomi sul mercato ci sono sempre stati, anche sollecitati dai cultori del mito ma in modo nascosto (la seconda “mano”, quella di “Dio”), invisibile ad alcuni ma visibile alla maggioranza degli osservatori, “mano” che interviene specie quando le attività imprenditoriali o la finanza mettono a repentaglio il sistema economico o sono in notevole crisi e il rischio imprenditoriale lo sopporta l’intera società.
Bisogna dunque liberarsi del senso di colpa (se mai ce ne fosse stato bisogno per alcuni), fondato sull’idea di produrre zavorra per l’economia e l’occupazione nel prospettare interventi eteronomi per contrastare fenomeni sociali inaccettabili (povertà delle persone e dei lavori, diseguaglianze sociali, discriminazioni, lavoro irregolare, sfruttamento che priva della dignità e della libertà le persone), senza per questo danneggiare i pilastri su cui si regge l’economia o provocare comportamenti opportunistici. Che si possano combinare le varie finalità, contemperando gli interessi di tutti, lo affermano anche sociologi ed economisti, quelli tra loro che si stanno prendendo la scena, che ritengono che il mercato sia al servizio della società e non viceversa, che la società sia succube del mercato, sia del tutto mercificata ed occorra liberarla, senza addivenire ad un radicalismo opposto. Si riescono a realizzare efficienze economiche – e la qualità della vita delle persone non può essere esclusa dalle valutazioni sul progresso economico – anche con interventi eteronomi sull’economia, con il “governo” di quest’ultima (oltre A. BOITANI, 2021, cfr. L. DORIGATTI, 2018, p. 561 ss.; L. DORIGATTI, A. MORI, 2016; M. MAZZUCATO, 2021; J. STIGLITZ - A. SEN - J. FITOUSSI, 2021. Per la prospettiva giuridica e giuslavoristica v. già F. BASSANINI, G. NAPOLITANO, L. TORCHIA (a cura di), 2021; P. DE PETRIS, 2021, p. 49 ss.; T. TREU, 2019; F. SANTONI, 2018).
2. Cosa s’intende per povertà del lavoro? In quest’ambito oramai è chiaro che vada ricompreso non solo chi non ha lavoro, ma anche chi lavora e rischia di cadere in povertà per redditi particolarmente magri. Secondo Eurostat sono in questa condizione (in work poverty) i lavoratori (da intendersi quelli che risultano occupati per almeno 7 mesi l’anno) che godono di un reddito familiare inferiore al 60% della mediana del reddito disponibile equivalente (calcolato su base familiare). In Italia nel 2019 era WP l’11,8% dei lavoratori, mentre la media europea era quasi del 3% più bassa.
Si potrebbe, però, piuttosto che partire dal reddito familiare considerare il reddito di lavoro, laddove la retribuzione annua sia inferiore al 60% di quella mediana. E’ la proposta di Michele Bavaro (M. BAVARO, 2021), che tiene conto di due aspetti che la influenzano: basso livello retributivo per alcuni lavoratori; ridotta intensità occupazionale sia come ore lavorate, sia come tempo di occupazione. E’ una proposta ancora più significativa per circoscrivere il fenomeno e pilotare le azioni di contrasto. Più analiticamente, i fattori, che incidono sul lavoro determinandone la povertà, sono quanto meno i seguenti: -crescita dei settori low-skilled (servizi turistici e alle famiglie); - aumento della deregolamentazione contrattuale (contratti no standard, catene globali di lavoro) e del lavoro irregolare; -aumento eccessivo dei contratti collettivi nazionali e mancato rispetto dei minimi tabellari o previsione di minimi al di sotto della retribuzione di povertà; -diffusione del part time (tra l’altro involontario) e di figure contrattuali ibride, che non assicurano retribuzione “dignitosa” e sufficiente. Ad essere maggiormente colpiti dal lavoro povero sono soprattutto le donne, i giovani, i migranti, impiegati prevalentemente nel settore del turismo, della ristorazione, della logistica, dell’agricoltura e nel lavoro di cura e domestico.
3. Se quello descritto è lo scenario attendibile in cui muoversi, gli strumenti per contrastare il fenomeno appaiono numerosi, dando vita ad una ricca agenda: salario minimo per tutti i lavoratori; parità retributiva nelle catene degli appalti; parità retributiva e pari opportunità tra uomo e donna; contrasto alle discriminazioni; politiche attive del lavoro; ammortizzatori sociali generali e differenziati; welfare state, assistenza alle famiglie povere e loro sostegno.
E’ evidente che, in questa sede, si accennerà solo ad alcuni.
3.1. Il salario minimo è lo strumento principale per contrastare la povertà e realizzare una parità di trattamento intercategoriale a largo raggio (sul tema v. R. FABOZZI, 2021, p. 223 ss.; M. BIASI, 2021; M. MAGNANI, 2021; G. PROIA, 2021, pp. 26 ss.; O. RAZZOLINI, 2021, n. 3; T. TREU, 2019; M. MAGNANI, 2015).
Esiste in molti paesi al mondo, è promosso dalla proposta di direttiva dell’UE relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea del 28 ottobre 2020, è sancito già in una Convenzione OIL del 1970 n. 131, che l’Italia non ha ratificato. In Italia la l. delega 10 dicembre 2014 n. 183 l’aveva previsto (art. 1, co. 7, lett. g), sebbene limitato a soddisfare soltanto i settori non regolati dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, ma non ha trovato attuazione. Non ci sono ostacoli costituzionali all’adozione legislativa del salario minimo, né si può pensare che la giurisprudenza l’abbia già realizzato. E’ necessario il coinvolgimento delle parti sociali, come suggerisce l’ILO. Si potrebbe rinviare alle retribuzioni base dei contratti collettivi, consapevoli che in questo modo la retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità prende il sopravvento sulla nozione di retribuzione sufficiente – o la va a reincarnare - ma si hanno, come noto, delle criticità: i problemi irrisolti della rappresentatività sindacale e della proliferazione dei contratti collettivi. Certo non si può attendere che si realizzano le sintonie, ma si può tenere conto di quello che le parti sociali hanno compiuto (a partire dal T.U sulla rappresentanza sindacale del 2014). Adesso è ripreso il dibattito e in Senato si discute sui disegni di legge (v. il fascicolo iter sul d.d.l. S. 2187 presso la Commissione lavoro pubblico e privato, previdenza sociale del Senato).
E’ necessario, a mio parere, che il legislatore stenda una rete di protezione alternativa non solo quando manchino i contratti collettivi, ma indicando il criterio e il livello (una percentuale della retribuzione mediana intercategoriale ed eventualmente di settore) di determinazione del salario minimo e lasciando alla regolamentazione amministrativa l’aggiornamento annuale. Resta ferma la necessità della previsione di una procedura di una consultazione sindacale. Dovrà anche fissarsi un SM riferito all’orario perché in tal modo si potranno coprire le esigenze dei part timer involontari (con possibile integrazione della retribuzione oraria mancante per raggiungere quella minima).
In questo modo si potrebbero recuperare parecchie disuguaglianze, anche se non tutte, e si accrescerà la parità di trattamento nonché la maggiore equità dei settori penalizzati (dove sono presenti giovani e donne) perché lavori di eguale valore di vari settori potranno essere parificati. Non c’è problema sulla parità retributiva; volendo, con uno sforzo interpretativo coerente con la logica, l’art. 36 della Costituzione lo consente (retribuzione proporzionata al lavoro), anche se molti l’hanno pervicacemente negato (sia consentito il rinvio a R. SANTUCCI, 1997). Tra l’altro in effetti non è un’assoluta parità di trattamento, incidendo su alcuni elementi della retribuzione. Si aprirebbe una strada importante verso la redistribuzione dei redditi.
Il trattamento minimo è già importante perché a questo dovranno far riferimento tutti, in qualsiasi modo si lavori, e potrebbe essere facilmente controllato, portando anche ad una semplificazione retributiva. Anche questo favorirebbe l’assicurazione dei minimi specie là dove si soffre (catene degli appalti: su cui v. V. BRINO, 2020). In quest’ambito sarebbe necessaria la parità di trattamento tra lavoratori degli appaltanti e quelli degli appaltatori oppure per i lavoratori che svolgono mansioni inquadrabili nel contratto collettivo applicato dall’appaltante; perché la responsabilità solidale degli appaltatori non è sufficiente per contrastare le catene di valore che si fondano sulla “svalutazione” del lavoro! In questo modo si eviterebbe il dumping normativo e salariale, anche se la garanzia dell’applicazione del contratto collettivo non risolve tutti i problemi del pay gap in quanto la pluralità dei contratti collettivi, la scarsa rappresentatività delle organizzazioni stipulanti o, viceversa, la scarsità o l’assenza di contratti collettivi potrebbero far ricadere nel buco nero dell’elusione. Inoltre a tal riguardo si evidenzierebbe la sofferenza del nostro sistema per la mancanza di regole sulla rappresentatività sindacale ai fini dell’efficacia generale dei contratti collettivi e comunque di una legislazione sui trattamenti retributivi minimi (mentre su altre dimensioni dei diritti il nostro ordinamento sembra più attrezzato) (su questi aspetti da ultimo v. G. PROIA (a cura di), 2022).
3.2. Nel campo della discriminazione, specie quella tra donna e uomo, accanto alle importanti normative in materia (mi permetto di rinviare a R. SANTUCCI, 2021a, p. 85 ss. anche per i riferimenti bibliografici) una buona soluzione è la certificazione della parità di genere prevista dalla l. 5 novembre 2021 n. 162 (artt. 4 e 5) con la premialità connessa all’ottenuta certificazione (cfr. A. CASARICO, 2021). E’ uno strumento che apre la strada al consolidamento culturale ed effettivo delle diversità e alla loro ricchezza, importante per la retribuzione ma anche per le progressioni e le qualificazioni professionali. Queste ultime, una volta promosse e realizzate con le necessarie formazioni mirate, immettono nel circuito lavorativo lavoratrici con maggiori e qualificate competenze, che si possono imporre nel mercato del lavoro, rompendo per quanto possibile il “soffitto di cristallo”.
3.3. Il discorso sulle pari opportunità evoca, in generale, quello sulle Politiche Attive del Lavoro che andrebbero fondate, in modo più solido, sulla valorizzazione dello strumento della formazione professionale e dovrebbero essere gestite da un’organizzazione più efficiente dei servizi pubblici per l’impiego.
Occorrerebbe un’ulteriore razionalizzazione delle regole in materia di formazione; anche se adesso in primo luogo servirebbe l’azione, “essere operativi”, perché si hanno già risorse e istituti che convergono verso l’arricchimento formativo, la valorizzazione della formazione, adeguata ai nuovi bisogni produttivi (sul tema la bibliografia è ampia e approfondita: v. il Rapporto INAPP, 2021; D. GAROFALO, 2004; E. GHERA – A. GARILLI – D. GAROFALO, 2020; A. LOFFREDO, 2012; F. SANTONI, 2020 e, per cenni al riguardo, R. SANTUCCI 2021b). La formazione (del lavoratore) è balzata da tempo all'attenzione del legislatore e degli interpreti, addirittura immaginandosi di configurare come diritto individuale del lavoratore la sua pretesa alla formazione e all'aggiornamento professionale (l'art. 14 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea riconosce ad ogni persona il diritto all'istruzione e all'accesso alla formazione professionale continua, lifelong learning) e specie dagli anni '90 del secolo scorso, da un lato l'Unione europea, dall'altro lato il nostro ordinamento la definiscono “strategica”, esaltandone la funzione. L'art. 18, co. 1, lett. e), del d.lgs. n. 150/2015, tra le attività dei centri per l'impiego, pone proprio l'avviamento ad attività di formazione ai fini della qualificazione e riqualificazione professionale, dell'autoimpiego e dell'immediato inserimento lavorativo. Dal punto di vista normativo un passo sulla strada della razionalizzazione è stato compiuto da tale decreto, anche se si sarebbe potuto fare meglio, con una sorta di testo unico sulla formazione e la ridefinizione organica del rapporto Stato - Regioni. L'attuazione, la finalizzazione e il finanziamento della formazione, nonostante la crucialità, sono ben lungi dal soddisfare: il giudizio deve essere cauto perché per certi profili il sistema sembra più efficiente (la formazione di chi già lavora) e per certi altri occorre verificare lo stato dell'arte regionale, che fa emergere situazioni differenziate e paradossalmente meno efficienti là dove più è forte l'esigenza dell'occupazione e della formazione. L'ANPAL ha contribuito ulteriormente al progresso della disciplina, emanando le Linee guida sulla gestione delle risorse finanziarie attribuite ai fondi paritetici interprofessionali per la formazione continua (art. 118 l. n. 388/2000) (circ. n. 1 del 10 aprile 2018), in coerenza con le funzioni di vigilanza e monitoraggio sulla gestione dei Fondi attribuite all'Agenzia dall'art. 9, comma 1, lett. n.) del d. lgs. n. 150/2015. L’idea di intervenire con risorse del PNRR per potenziare le PAL, la Formazione professionale, i centri per l’impiego, il varo del sistema informativo unico, è certamente da condividere. Il buon funzionamento passa in ogni caso attraverso la realizzazione del Sistema Unico informativo e anche il rafforzamento degli organi centrali, che devono porre le Regioni arretrate di fronte alle proprie responsabilità, possedendo del resto gli strumenti necessari per intervenire in caso di inerzia (le convenzioni tra Regioni e Ministero del lavoro).
In quest’ambito sarebbe necessario rafforzare gli interventi a sostegno della formazione per i soggetti che non hanno ancora lavoro o che l’hanno perduto. Ciò ovviamente in funzione di un contrasto solido, di lungo respiro, della povertà del lavoro, innalzando le competenze dei lavoratori.
3.4. In ogni caso la situazione appare ancora critica nell’organizzazione giuridica dei servizi per l’impiego, nonostante le innovazioni introdotte nel 2015 per promuoverne efficacia ed efficienza e superare i gap delle Regioni in ritardo e le dimenticanze del pur importante intervento statuale, finalizzato ad assicurare la necessaria omogeneità del livello dei servizi (anche qui è notevole la mole di lavori: cfr. E. GHERA, D. GAROFALO (a cura di), 2016; F. SANTONI, 2020; R. SANTUCCI, 2021b; A. SARTORI, 2013; L. VALENTE, 2021). Certamente importante è stata la riforma del 2015 con la quale si è voluto assicurare l’esercizio unitario delle funzioni amministrative e si sono assicurate varie reti di protezione: la definizione dei LEP, di competenza dello Stato, che impediscono alla stessa riforma, nel suo carattere di ri-centralizzazione, di collidere con le competenze concorrenti delle Regioni in materia; la previsione sia delle convenzioni tra Ministero e Regioni, con le quali sono delegabili all’ANPAL e ai soggetti privati accreditati compiti importanti, fatta eccezione del Patto di servizio Personalizzato, sia della facoltà di scelta degli utenti tra servizi pubblici o privati, sotto il controllo dell’ANPAL. Punti dolenti del sistema sono ben distribuiti tra centro e periferia: è emersa la lenta operatività dell’ANPAL ed è evidente il suo sovraccarico, forse meglio distribuito con la presenza di articolazioni regionali o macro-regionali dell’Agenzia; è mancato il sistema informativo unico; i centri dell’impiego sono apparsi, in linea prevalente, attanagliati da crisi qualitativa e quantitativa che si alimentano a vicenda, mancando le figure professionali adatte a concretizzare le politiche attive del lavoro; è mancato l’aggiornamento dei LEP e non vi sono stati gli interventi centrali per sopperire alla mancata garanzia degli stessi in sede regionale (tutta quest’inefficienza si è riversata anche sul collocamento mirato). L’intervento centrale è doveroso e auspicabile; qualcosa si è realizzato già in sede di legge di bilancio del 2021 (l. 30 dicembre 2020, n. 178): si pensi al programma nazionale GOL (garanzia di occupabilità dei lavoratori), previsto dall’art. 1, co. 324, di presa in carico finalizzata all'inserimento occupazionale, mediante l'erogazione di servizi specifici di politica attiva del lavoro, nell'ambito del patto di servizio personalizzato, programma che però non ha ancora ricevuto attuazione; alle risorse messe a disposizione nell’ambito del programma europeo React Eu per le politiche attive del lavoro. L’impegno è ancora minimale e sarà necessario fare di più per incidere sull’effettività dei servizi.
3.5. Anche l’universalizzazione degli ammortizzatori sociali ha la sua rilevanza (cfr. sugli stessi M. PERSIANI, M. D’ONGHIA, 2022; E. BALLETTI (a cura di), 2021; A. OLIVIERI, 2017; E. BALLETTI, D. GAROFALO (a cura di) 2016; D. GAROFALO, 2016). Innanzitutto, converrebbe che il termine “ammortizzatori sociali” fosse considerato nel suo significato più ampio, comprensivo cioè tanto dell’insieme degli strumenti di sostegno al reddito e/o all’occupazione o di promozione dell’occupazione in costanza di rapporto di lavoro, quanto di quelli in caso di disoccupazione/inoccupazione o esclusione sociale (ammortizzatori sociali nel mercato). Una riforma, o anche un intervento parziale, dovrebbe tener conto del quadro complessivo di tutti gli strumenti già presenti – arricchito o aggiornato dalle leggi di bilancio (v. da ultimo quella del 2021, la l. n. 178/2020) - e procedere alla razionalizzazione o ad interventi coerenti con la ratio dei variegati istituti. In questo modo, ritenendo condivisibile l’universalizzazione delle tutele, conforme ai precetti costituzionali, che tocchi ogni forma di lavoro (subordinata, autonoma o atipica) e di mancanza di quest’ultimo, certamente si potrebbero differenziare (seppure conservando in ogni caso la distinzione tra intervento ordinario e straordinario di Cig) in base alle funzioni e ai destinatari, perimetrando attentamente ed equamente i costi e le condizioni per usufruirne (in particolare la condizionalità).
Forse può considerarsi ambiziosa ma l’universalizzazione delle tutele passa anche attraverso la ridefinizione e la differenziazione degli ammortizzatori sociali; pertanto, mi sembra giusto ritenere compatibile l’universa¬lizzazione con la differenziazione che, in fin dei conti, conduce alla personalizzazione delle tutele nell’ambito di macro-categorie di astratti beneficiari. Questi ultimi, poi, nel concreto, dovrebbero contattare in modo capillare gli addetti ai servizi e alle agenzie per l’impiego, che attuano le politiche attive e passive del lavoro, per trovare il proprio specifico percorso formativo e/o lavorativo e le adeguate tutele di sostegno e di promozione.
L’integrazione tra politiche attive del lavoro e ammortizzatori sociali è a mio parere indubitabile e il PNRR offre anche in questo campo un’occasione unica per allineare e omogeneizzare il sistema. Bisognerebbe cercare di non sciupare l’opportunità e fare un balzo avanti, di qualità e lungimirante.
Penso inoltre che sia strategica l’attenzione persistente sull’organizza¬zione del mercato del lavoro e sulle politiche attive del lavoro, sui servizi per l’impiego e sulle attività che questi ultimi sono tenuti a realizzare. Ciò perché vi è uno stretto legame tra gli ammortizzatori sociali, finalizzati tutti al sostegno e alla promozione dell’occupazione, oltre che del reddito, e le politiche attive del lavoro che intervengono sull’occupabilità dei beneficiari “mirati”, raccogliendo anche le loro disponibilità (sul punto R. PESSI, G. SIGILLÒ MASSARA (a cura di), 2017). Certo mettersi a discutere di PAL nei momenti di crisi potrebbe sembrare deviare l’atten¬zione sull’occupabilità di chi cerca lavoro rispetto al bisogno di occupazione. Se le risorse fossero scarse, sembrerebbe chiaro che convenga investirle il più possibile nella promozione dell’occupazione, affidandosi all’opportu¬nismo del mercato. A me pare però che questo modo di operare abbia il fiato corto. In primo luogo, non si parte da zero e il sistema pubblico, che include anche i privati, è ben presente dalla fine degli anni ’90. Non sono convinto che sia opportuno liquidare un patrimonio di istituzioni e procedure che in alcune Regioni ha fornito ottima prova. Occorre ampliare le buone prassi. In secondo luogo lo dimostrano i tantissimi sostegni finanziari dell’occupazione che si sono succeduti negli anni che, per un verso, non sono riusciti a far decollare in tutto il Paese un’efficiente organizzazione del mercato del lavoro – però ci sono le Regioni virtuose, non si può condannare tutta l’organizza¬zione giuridica – e per l’altro verso si sono occupati di far crescere l’oc¬cupazione, che si è ampliata fino a quando i finanziamenti si sono mantenuti, per poi richiedere sostegni ulteriori al fine di conservare il livello acquisto o diminuire progressivamente o sparire del tutto.
Perciò vanno rafforzate quelle strutture deputate alla gestione di politiche passive e attive, al fine di integrarle, e soprattutto dovrebbe essere realizzata il Sistema unitario informativo, lasciandosi alle spalle la frammentazione, lo scoordinamento delle banche dati esistenti. Servono investimenti strutturali, modifiche degli apparati centrali e periferici per garantirne la funzionalità in tutte le Regioni, personale qualificato per concretizzare le politiche attive. Ciò anche per favorire l’incontro tra domande e offerte di lavoro per le categorie svantaggiate (donne, giovani, disabili, immigrati). Il laissez faire, la mancanza di controlli originano le disuguaglianze per le quali poi continuiamo ad esprimere il nostro sconcerto. Le istituzioni del mercato, forte della collaborazione tra pubblico e privato, la sussidiarietà verticale e orizzontale servono per far crescere la cultura dell’uguaglianza e il rispetto delle differenze nel cui ambito incidono fortemente tanto le crisi economiche, le depressioni quanto la ripresa e la maggiore prosperità.
Ma il lavoro recupera il suo ruolo puntando sulla sua qualità e sull’equità della retribuzione che vi è connessa e quindi sulla dignità e sull’indipendenza della persona (il PIL, come insegnano oramai qualificati economisti e sociologi, andrebbe misurato anche su qualità della vita e della società: cfr. J. STIGLITZ - A. SEN - J. FITOUSSI, 2021).
4. Negli ultimi giorni del 2021 è stata emanata la manovra di bilancio per il 2022 (l. 30 dicembre 2021 n. 234) e all’inizio del 2022 il d.l. 27 gennaio 2022 n. 4. Con questi interventi, che integrano o modificano i d.lgs. 4 marzo 2015 n. 22 e 14 settembre 2015 n. 148 e 150, è riscontrabile un cambio di passo per alcuni degli strumenti esaminati.
In materia di ammortizzatori sociali si è intervenuti per ridurre le disomogeneità e accrescere l’equità, realizzando una più ampia universalizzazione e una razionalizzazione del sistema. Si è conservata comunque la differenziazione delle tecniche protettive per tenere conto delle diverse dinamiche dei variegati settori produttivi e garantire l’applicazione del principio assicurativo nelle tutele. Inoltre si nota il rafforzamento del collegamento tra erogazione dei trattamenti di integrazione salariale, formazione professionale e politiche attive. Per quel che riguarda i trattamenti di Cig (commi 191 e ss.), si registrano un’estensione della platea dei beneficiari (lavoratori con minima anzianità lavorativa, dipendenti di micro-imprese), una modifica delle causali di intervento CIGS (in particolare, per ricomprendere anche i processi di transizione nell’ambito della riorganizzazione), un incremento del sostegno economico, l’introduzione di durate differenziate in base alla dimensione delle imprese, un intervento sulla misura della contribuzione addizionale. La copertura obbligatoria dei Fondi bilaterali è assicurata anche ai datori di lavoro che occupano da 1 a 5 dipendenti. Il FIS continua dunque a erogare anche prestazioni in via residuale e copre così i datori di lavoro non rientranti nella CIGO o nei Fondi bilaterali (le microimprese del terziario) (v. i commi 204 ss. della finanziaria). Per accedere alla NASPI (commi 221 e ss.) i requisiti di accesso sono più flessibili (è soppresso il requisito dei 30 giorni lavorativi per accedere all’indennità); sul versante del quantum si posticipa la decorrenza del décalage e s’introduce un trattamento di maggior favore per i lavoratori che per l’età hanno maggiore difficoltà a reinserirsi nel mercato del lavoro (si riduce del 3% ogni mese a partire dal sesto e il décalage scatta dall’ottavo mese per i disoccupati over 55). La DIS-COLL è innalzata nella durata massima, garantendo un numero di mesi di beneficio pari ai mesi di contribuzione versata, si posticipa il décalage e si riconosce la contribuzione figurativa.
Le politiche attive vedono l’estensione del programma GOL ai lavoratori in Cigs con accordo di transizione occupazionale e ai lavoratori autonomi che chiudono la partita IVA (co. 251). Sono rafforzati i Fondi paritetici interprofessionali nella formazione dei lavoratori in cassa integrazione guadagni che devono partecipare ad iniziative formative o di riqualificazione. Come condizione per conservare o non veder ridotto l’assegno di CIGS. E’ stato anche deciso di promuovere l’attività dei centri per l’impiego, mettendo a disposizione fondi per nuove assunzioni (co. 85) e per l’attuazione delle politiche attive del lavoro a favore dei giovani (co. 86). Si tratta dei giovani di età compresa tra i 16 e i 29 anni non occupati, né inseriti in un percorso di studio o formazione (i neet) che dovranno essere accompagnati in un percorso di orientamento per trovare collocazione nel mercato del lavoro. Il potenziamento è previsto anche attraverso il programma GOL, il sistema duale - favorendo così politiche di transizione tra il mondo della scuola e il mondo del lavoro - e il fondo nuove competenze. Nell’ambito del programma GOL e delle politiche attive vi sono nuovi tipi di patti territoriali, sottoscritti fra autonomie locali, soggetti pubblici e privati, enti del terzo settore, associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale con lo scopo di realizzare progetti formativi e d’inserimento lavorativo nei settori della transizione ecologica e digitale per a) inserire e reinserire, con adeguata formazione, i lavoratori disoccupati, inoccupati e inattivi; b) riqualificare i lavoratori già occupati e potenziare le loro conoscenze (co. 249).
Si tratta, in conclusione, di misure importanti, sulle quali occorre riflettere più approfonditamente, che si inseriscono nell’obiettivo di incidere direttamente o indirettamente sulla povertà del lavoro. Ciò induce, se effettivamente attuate, ad una rivalutazione dell’efficacia delle tecniche di contrasto. Il giudizio, come evidente, non può restare che sospeso e sarà necessario, come sempre, monitorare l’attuazione e gli effetti.