1. INTELLIGENZA ARTIFICIALE, LAVORO E PERSONA: RIFLESSIONI INTRODUTTIVE SULL’IMPATTO DELL’INNOVAZIONE TECNOLOGICA NEI LUOGHI DI LAVORO
Lavoro e tecnologia camminano di pari passo. Concetti come cloud, big data, mobile app, geolocalizzazione, internet of things, robotizzazione e intelligenza artificiale rilevano direttamente per i giuslavoristi, per gli effetti che producono sulle pratiche lavorative e sul modo stesso di concepire il lavoro, innescando conseguenze dirompenti sulle tradizionali categorie sociologiche e giuridiche di lavoro e lavoratore (Caruso, 2019).
Divenute parte integrante di quasi tutti i settori occupazionali, nel prossimo decennio, le ICT (Information and Communication Technologies) cambieranno notevolmente la natura e l’organizzazione del lavoro in Europa e nel mondo, aprendo lo spazio a nuove forme di lavoro e status occupazionali. Questo fenomeno avrà l’estensione potenziale per creare importanti opportunità economiche e commerciali, stimolando una maggiore produttività, con la possibilità però di un aumento della disuguaglianza nei benefici e negli svantaggi sperimentati dai lavoratori (European Agency for Safety and Health at Work, 2018).
Ciò pone al diritto del lavoro e ai suoi protagonisti (giudice, legislatore e sindacato) una sfida senza precedenti, per la velocità del cambiamento in atto e per la necessità di cogliere i benefici dell’innovazione tecnologica, mitigandone i rischi. Alcuni di questi ultimi sono comuni sia ai nuovi lavori della cd. gig economy sia ai vecchi “colletti bianchi e blu”, che rischiano di perdere il lavoro per effetto della sostituzione robotica o, comunque, di essere costretti a convivere quotidianamente con essa. Da ciò sorgono nuove e centrali istanze per la salute e la sicurezza quali quelle rappresentate da concetti come techno-stress , diritto alla disconnessione, oppure invasività delle forme di controllo a distanza che limitano la dignità e la riservatezza del lavoratore.
Il presente contributo mira ad analizzare i rischi provenienti dallo sviluppo digitale con particolare riferimento alla salute e alla sicurezza sul lavoro (SSL) e a tratteggiare alcune possibili forme di mitigazione degli stessi. Ad essere sottolineata nelle pagine a seguire è una sfida ormai non più prorogabile per le odierne società occidentali, ovverosia quella rappresentata dalla necessità di introdurre istituti volti alla tutela del lavoratore come persona, restituendo umanità ad un contesto lavorativo sempre più spersonalizzato. A questo proposito, a ricevere particolare attenzione saranno ambiti come quelli della formazione continua del lavoratore e delle misure tese a favorire il cd. work/life balance.
2. INNOVAZIONE TECNOLOGICA E OBSOLESCENZA DELLE CONOSCENZE: IL COSIDDETTO “RISCHIO SOSTITUTIVO”
In riferimento alla questione della sicurezza soprattutto sociale dei lavoratori, l’analisi della letteratura (ad esempio, Kaplan, 2016 e 2017) evidenza, anzitutto, due effetti diretti dell’automazione sul mondo del lavoro: a) riduzione della manodopera necessaria, e b) obsolescenza delle competenze. È verosimile che questo sviluppo avrà luogo in un’ampia varietà di settori economici: dalla vendita al dettaglio al lavoro agricolo, dal trasporto via terra, aria o acqua agli ambiti medici e legali. Un problema di grande portata sociale (Garofalo, 2019; Kaplan, 2016 e 2017; Maio, 2018; Simoncini, 2018) sarà così quello della disoccupazione ciclica, ovvero della ciclicità con cui le persone perderanno il lavoro e saranno costrette a reinventarsi e a sviluppare nuove competenze per trovare una nuova occupazione.
Allo stesso tempo, si sottolinea che il mutamento delle regole che disciplinano la prestazione di lavoro e, di conseguenza, il contratto fra le parti, in un orizzonte nel quale non è ancora definibile con precisione il grado in cui l’automazione sarà capace di sostituire l’attività umana, non deve condurre alla convinzione che la trasformazione dei sistemi produttivi implichi necessariamente un calo dell’occupazione. Se è vero che la tecnologia genererà sull’occupazione una rivoluzione delle modalità tradizionali di funzionamento e produzione, è anche vero che la domanda di nuovi beni e servizi comporterà la creazione di nuove figure professionali (a tal riguardo, Simoncini, 2018; Maio, 2018). In proposito, si rivela istruttivo uno studio del World Economic Forum secondo cui se, da un lato, a livello globale, 75 milioni di addetti saranno progressivamente sostituiti dalle macchine, altri 131 milioni di nuovi occupati saranno richiesti per effetto dell’introduzione di strumenti digitali (Crisci, 2018).
Rispetto a tali rischi, Crisci (2018) individua tre principali direttrici di mitigazione: 1) abbandonare la classica distinzione tra white e blue collar, basata sulla considerazione/legittimazione/reputazione sociale, in quanto per via dell’IA sono a rischio lavori appartenenti ad entrambe le categorie, indistintamente; 2) enfatizzare il valore del contatto umano e dell’empatia nello svolgimento di alcune professioni, onde ridurre il rischio di sostituzione (si citano i casi di avvocato, psicologo, etc.); 3) ribadire la centralità della formazione, che consente un migliore re-skilling/up-skilling dei lavoratori.
In questo contesto, il welfare aziendale può costituire – a parere ad esempio di Ichino (2017) e Santoro-Passarelli (2019) – un elemento idoneo a realizzare (o a concorrere a realizzare) una mitigazione efficace del rischio in commento incentivando, ad esempio, la formazione continua dei dipendenti, che eviti l’obsolescenza della loro professionalità per effetto dell’innovazione digitale, ovvero la ridefinizione della struttura del contratto collettivo di lavoro, da intendersi come contratto ibrido, ossia formato da due parti, una collettiva e solidarista e un’altra, che ha ad oggetto aspetti che riguardano attualmente solo la contrattazione individuale (orari e quote di salario).
L’aspetto principale del futuro assetto dei rapporti di lavoro non viene pertanto individuato in una sorta di “fine del lavoro” (Rifkin, 1995). Piuttosto, la letteratura sottolinea come, al fine di evitare drammatiche perdite sul piano dell’occupazione, sarà necessario un netto miglioramento dell’efficienza dei servizi di istruzione e formazione continua mirata alle nuove esigenze (lifelong learning), in combinato con un adeguato sostegno del reddito delle persone coinvolte (Ichino, 2017).
Come rileva Simoncini (2018), però, la formazione e l’apprendimento durante tutto l’arco della vita sono istituti ai quali datori di lavoro e legislatore si sono spesso approcciati in modo negativo, per via del costo della formazione e della complessità delle politiche da realizzare, oltre che per l’assenza di risultati immediati. L’aver trascurato l’importanza della formazione ha contribuito così ad un fenomeno ormai dilagante nel mercato del lavoro, vale a dire la polarizzazione delle competenze dei lavoratori, collocati solitamente su due spalti contrapposti: quello di chi è adibito a mansioni esecutive a ridotto valore aggiunto e salario, per cui è elevato il rischio di sostituzione, e quello di chi offre prestazioni altamente qualificate con un ampio riconoscimento salariale (a questo proposito, Garofalo, 2019; Simoncini, 2018).
Il transito da un polo all’altro è condizionato non solo dal possesso di alcune competenze minime, ma soprattutto dalla possibilità che ciascun lavoratore veda garantito il diritto all’apprendimento permanente, attraverso meccanismi e strumenti in grado di eliminare gli ostacoli che si frappongono tra la persona e la realizzazione del diritto (difficoltà economiche, carenza di tempo a disposizione, assenza di percorsi individualizzati, certificazione delle competenze).
Uno degli effetti più dirompenti dell’applicazione dell’intelligenza artificiale e delle tecnologie digitali, sottolineato dalla letteratura giuridica, consisterà infatti nell’aumentare la capacità produttiva dei soli lavoratori che sapranno o potranno utilizzarle e che per questo si spartiranno le migliori possibilità future. Per effetto della progressiva diffusione di simili tecnologie, i lavoratori che non vi avranno accesso saranno inevitabilmente sospinti prima ai margini e poi, di fatto, fuori dal mercato del lavoro. Questi fattori spiegano perché è decisivo attivare strategie di intervento sullo human divide, che potrebbe – in maniera sempre più radicale – tracciare un solco invalicabile tra chi può e vuole disporre di tecnologia digitale e robotica e chi, invece, non vi può o sa avere accesso (INAIL, 2016; Maio, 2018; Simoncini, 2018).
Per tanti versi, rilevano alcuni autori (in particolare, Simoncini, 2018), potrà essere proprio la tecnologia la chiave verso una più efficace forma di lifelong learning: grazie all’innovazione tecnologica delle professioni, infatti, è possibile formare a nuovi e stimolanti lavori in minor tempo e con costi contenuti sia per l’ente formatore che per il lavoratore. In linea generale, inoltre, sarà sempre più importante diffondere nella popolazione specifiche competenze tecniche e tecnologiche, a partire da quelle di controllo dell’intelligenza artificiale stessa, implementando a livello universitario la formazione di figure professionali specializzate. Quello della formazione professionale appare quindi destinato a divenire il terreno elettivo di sperimentazione di nuove politiche attive del lavoro e di nuovi strumenti normativi (Garofalo 2019).
La formazione dovrà quindi agevolare i lavoratori nell’apprendimento delle modalità attraverso le quali deve avvenire la loro relazione con i robot e gli strumenti potenziati da intelligenza artificiale. È indubbio, infatti, che questi ultimi possano creare stress e ulteriori problemi per la salute e la sicurezza dei lavoratori laddove non vengano integrati in modo appropriato all’interno di uffici, fabbriche e magazzini.
Tra i potenziali problemi di SSL, menzionati dalla European Agency for Safety & Health at Work (2019), emergono ad esempio fattori di rischio psicosociale nel momento in cui le persone siano spinte a lavorare al ritmo del robot. Un altro caso di interazione uomo-macchina, correlato all’impiego di robot, che crea nuove condizioni di rischio in materia di SSL, si verifica quando una persona è incaricata di occuparsi di una macchina e ne riceve notifiche e aggiornamenti di stato su un dispositivo personale come uno smartphone o un computer portatile. Ciò può portare ad un fenomeno di “superlavoro”, per cui i lavoratori si sentono obbligati a prendere nota delle notifiche fuori dall’orario lavorativo, con ripercussioni sull’equilibrio tra lavoro e vita privata.
Soffermandosi ora su un altro ambito specifico legato a salute e sicurezza, le mutazioni del mondo del lavoro e il traghettamento verso un sempre più accentuato utilizzo di strumenti tecnologici hanno fatto insorgere anche ulteriori problematiche, che nella letteratura emergono come di grande attualità: si tratta di fenomeni quali cyberharassment at work, cyberstalking, cyberbullying e violazione della privacy. Proprio a questo proposito, alcuni studi (in special modo i contributi INAIL, 2016 e 2017a; ma anche Gaeta, 2018) evidenziano come la necessità di formazione giochi un ruolo centrale. I dipendenti, infatti, devono essere formati sulle modalità attraverso cui rapportarsi in maniera “sana” alle nuove tecnologie, oltre a necessitare di strumenti per combattere attivamente i nuovi fattori di rischio. Inoltre, nel documento INAIL del 2016, si auspica la definizione di una social media policy da parte delle aziende concernente materiali e contenuti scambiati in rete dai propri dipendenti e tesa a combattere i fenomeni menzionati. Si ritiene infatti necessario che le realtà lavorative sviluppino e sostengano politiche reali contro le molestie, l’inciviltà e il bullismo. Ad essere evidenziato è il fatto che l’effettività di tali politiche aziendali passa attraverso la definizione di chiare linee guida nell’individuazione di atteggiamenti corretti e adeguati (o meno) da adottare sui luoghi di lavoro (INAIL, 2016).
3. IL RUOLO DEL WELFARE NELLA DIFESA DEI POSTI DI LAVORO
L’ascesa del welfare aziendale ha arricchito le coordinate tradizionali del patto lavoro/retribuzione, facendovi rientrare non solamente la soddisfazione economica del dipendente, ma anche il suo benessere: “il concetto di benessere comprende non solo la dimensione monetaria della retribuzione del lavoratore, ma allarga il proprio raggio di azione a una sua condizione generale di benessere, che comprende i molteplici bisogni della persona sia nel contesto lavorativo che nella vita più in generale, compreso il benessere della propria famiglia, nella dimensione presente come in quella futura” (Di Nardo, 2015).
Data la prestazione lavorativa, il welfare aziendale si è sviluppato nella logica dei flexible benefits, ovverosia prestazioni in natura tese al soddisfacimento individuale dei dipendenti e alla loro crescita umana, sociale e professionale. Per mezzo delle agevolazioni fiscali e contributive che li caratterizzano, i c.d. flex costituiscono la nuova frontiera in materia di retribuzione alternativa, sulla via tracciata dalle esperienze statunitensi di sviluppo delle politiche di gestione delle risorse umane caratterizzate dal graduale passaggio dalla logica della compensation (retribuzione fissa) e del total cash reward (retribuzione fissa più incentivazione monetaria) a quella del total reward (componenti monetarie più benefits/perquisites) e della employee value proposition (Bacchini, 2017; Cataudella, 2013).
Tanto nelle intenzioni del legislatore quanto nella pratica delle moderne relazioni industriali, si sta dunque verificando il passaggio da salari interamente monetizzati a retribuzioni/compensi misti che inglobino al loro interno anche servizi quali strumenti alternativi di remunerazione del lavoro. Simili sistemi si tramutano, a parere di gran parte della dottrina, in un’operazione win-win in cui “vince l’impresa che aumenta la produttività, abbassa il costo del lavoro e fidelizza i lavoratori; vince il lavoratore, come singolo, che ottiene servizi con ridotto carico fiscale e umanizza il suo rapporto di lavoro, soprattutto attraverso nuovi servizi di conciliazione; vince lo stato che ottimizza le politiche di welfare pubblico nella misura in cui attua misure di sostegno e integrazione con il secondo welfare a livello aziendale; vincono i sindacati per i quali si aprono spazi alla contrattazione partecipata e decentrata anche nelle piccole imprese, sino a forme nel welfare più tradizionale di partecipazione a istituzioni di taglio cogestivo; vincono infine le imprese fornitrici di servizi di welfare alle imprese che li erogano, che intravedono nuove prospettive di business” (Caruso, 2016).
In altri termini, lo sviluppo del welfare aziendale potrebbe condurre ad effetti benefici sia per i lavoratori sia per il territorio, ma da ciò – come è stato correttamente rilevato – si origina una triplice sfida per il prossimo futuro: “monitorare e valutare da subito le iniziative maggiormente innovative; capire quali possono trasformarsi da sperimentazioni in programmi più stabili; avviare e sostenere un processo che sia incrementale e parta dal basso ma sia anche cumulativo, fondato su buone pratiche e apprendimento, per fare sistema” (Maino e Mallone, 2016).
Di conseguenza, la possibilità offerta dagli artt. 51 e 100 del TUIR costituisce un notevole vantaggio per l’azienda ma, al contempo, pone anche il dipendente in un’analoga condizione, in quanto egli potrà beneficiare di componenti non monetarie del compenso, difficili da reperire altrimenti e con costi vantaggiosi: questa reciproca condizione di convenienza rappresenta il successo di tali misure di assistenza. Tutto questo, in un contesto poi in cui – per una serie di ragioni note – gli spazi per gli aumenti del salario monetario sono molto limitati, può costituire uno strumento di salvezza reciproca del datore e del dipendente e, anzi, uno strumento di crescita per l’uno (in termini di maggiore fidelizzazione, reputazione aziendale, minore assenteismo, maggiore senso di appartenenza, etc.) e per l’altro (in termini di maggiore inclusione nella comunità di riferimento e di perseguimento dell’interesse di affermarvisi per accrescerne il valore nell’ottica del raggiungimento del bene comune).
Appare necessario però un sempre crescente ripensamento del ruolo del welfare aziendale da parte delle aziende, le quali devono continuare ad affiancare agli strumenti tradizionali (come ad esempio i piani sanitari o di previdenza complementare), sopravvissuti nel corso degli anni, azioni innovative che vadano ad incidere sulle modalità e sui tempi di lavoro, per offrire ai loro dipendenti risposte ai nuovi bisogni e ai nuovi rischi sociali, che vanno presentandosi e ai quali i “canonici” strumenti di welfare non riescono più a far fronte.
Si pensi ad alcuni dei rischi determinati dall’innovazione tecnologica e a come potrebbero essere mitigati da misure di welfare aziendale:
- salute. Welfare aziendale che preveda – ad esempio – istituti che favoriscano il work-life balance, ovvero strumenti di time saving (oggi molto diffusi anche in Italia e non solo nelle grandi aziende);
- sostituzione uomo-macchina. Welfare aziendale che incentivi la formazione continua dei dipendenti (lifelong learning);
- misure di welfare aziendale che valorizzino il lavoratore come persona, restituendo umanità al rapporto di lavoro.
In conclusione, come sostenuto autorevolmente, la “retribuzione in welfare […] può concorrere significativamente a garantire un’esistenza libera e dignitosa ai sensi dell’articolo 36 Cost. perché, grazie al regime fiscale e contributivo agevolato, realizza un felice contemperamento tra l’interesse dei lavoratori all’incremento del potere di acquisto delle retribuzioni e l’interesse dell’impresa a contenere il costo del lavoro e gli oneri dei rinnovi contrattuali” (Santoro-Passarelli, 2019; cfr. anche Isceri, 2019).
4. L'APPORTO DEL LEGISLATORE ITALIANO ED EUROPEO: LA FORMAZIONE COME STRUMENTO DI MITIGAZIONE
Il decreto legislativo 81/2008, attuale riferimento normativo in tema di salute e sicurezza sul lavoro, ha potenziato – rispetto a quanto già delineato dalla normativa precedente – il ruolo attribuito a informazione, formazione e addestramento, quali processi fondamentali che, garantendo piena attuazione del principio di partecipazione attiva di tutti i soggetti operanti nel sistema di prevenzione aziendale, costituiscono la più efficace leva per un’effettiva prevenzione delle malattie professionali e degli infortuni sul lavoro. Tale decreto, infatti, non solo ha introdotto le definizioni di informazione, formazione e addestramento, ma ha anche esteso l’obbligo di formazione e di aggiornamento, secondo un processo di apprendimento continuo, a tutte le figure coinvolte nella gestione della salute e sicurezza (escluso il datore di lavoro che non svolge direttamente i compiti del servizio di prevenzione e protezione), enfatizzando così l’importanza di una definizione sempre più integrata, a tutti i livelli, del sistema prevenzionistico aziendale.
I fattori di successo di qualunque politica in materia di SSL sono valutati dipendere in larga misura dall’efficacia ed efficienza dei canali di comunicazione e degli strumenti utilizzati per raggiungere i vari soggetti interessati. A tal proposito, i nuovi mezzi di comunicazione quali internet, le applicazioni online e i social network rappresentano una gamma di strumenti che possono contribuire a rendere più adeguati i processi comunicativi, informativi e formativi.
Anche le istituzioni europee hanno fatto ampio riferimento al tema della formazione dei lavoratori alla luce dei cambiamenti del mondo del lavoro e in vista di uno sviluppo sostenibile, anche dal punto di vista della salute e sicurezza. In particolare, con la risoluzione del Consiglio dell’Unione europea 2011/C 372/01 su un’Agenda europea rinnovata per l’apprendimento degli adulti, l’Unione ha riconosciuto allo sviluppo delle competenze e al lifelong learning un ruolo chiave per una crescita intelligente, sostenibile, inclusiva e sicura.
La sfida che la formazione deve intraprendere – così dice la risoluzione – è quella del cambiamento culturale e delle modalità con le quali si progettano nuove esperienze formative e nuovi percorsi di apprendimento, volti ad adeguare le competenze dei lavoratori alle nuove sfide del mondo del lavoro, parimenti promuovendo una cultura digitale e dell’innovazione tecnologica e attivando tutte quelle competenze necessarie per preservare la salute e la sicurezza dei lavoratori stessi.
A questa risoluzione si è affiancata più recentemente la raccomandazione del Consiglio del 22 maggio 2018 (2018/C 189/01) sul lifelong learning. Qui, si afferma la volontà di lavorare allo sviluppo di competenze chiave per i cittadini durante l’intero corso della vita. Tali competenze includono ben precise skills e attitudes. Nello specifico, la raccomandazione individua otto tipologie di competenze ritenute imprescindibili per la fioritura e lo sviluppo personale, l’adozione di uno stile di vita sostenibile, il conseguimento di un impiego, il supporto all’inclusione sociale e alla cittadinanza attiva. Esse sono: 1) literacy; 2) multilingualism; 3) numerical, scientific ed engineering skills; 4) digital e technology-based competences; 5) interpersonal skills e the ability to adopt new competences; 6) active citizenship; 7) entrepreneurship; 8) cultural awareness ed expression.
Il riferimento alla formazione permanente, al fine tanto di salvaguardare la salute psicologica e fisica dei lavoratori quanto di permettere uno sviluppo economico più inclusivo delle nostre società, è presente anche a livello di soft law europea. A questo proposito, un esempio importante è l’Agenda digitale presentata dalla Commissione europea come una delle sette iniziative faro della strategia Europa 2020, che fissava obiettivi per la crescita del continente da raggiungere entro tale data. Nell’Agenda, le linee di intervento concernenti le competenze digitali di base hanno riguardato la realizzazione dei seguenti obiettivi: 1) cittadinanza digitale: accesso e partecipazione alla società della conoscenza, con una piena consapevolezza digitale; e 2) inclusione digitale: uguaglianza delle opportunità nell’utilizzo della rete e per lo sviluppo di una cultura dell’innovazione e della creatività.
Allo stesso tempo, un altro riferimento di rilievo è il Pilastro europeo dei diritti sociali, in cui è presente e in posizione di preminenza la sezione relativa ad Istruzione, formazione e apprendimento permanente, trattandosi del primo principio, che recita: “Ogni persona ha diritto a un’istruzione, a una formazione e a un apprendimento permanente di qualità e inclusivi, al fine di mantenere e acquisire competenze che consentono di partecipare pienamente alla società e di gestire con successo le transizioni nel mercato del lavoro”.
Seppure non lo esplicitino apertamente, questi richiami delle istituzioni europee fanno indiscusso riferimento ad una pressante problematica della contemporaneità, particolarmente legata allo sviluppo tecnologico: si tratta dell’obsolescenza delle competenze e del correlato rischio sostitutivo.
Nei suoi provvedimenti più recenti, questo rischio sembrerebbe venire affrontato dal legislatore italiano in una doppia modalità, che assume come elemento discriminante l’età del lavoratore e il suo stato di servizio. Da un lato, ci sono alcune tipologie di lavoratori ormai prossimi alla pensione, per le quali appare molto complicato il processo di adeguamento allo sviluppo tecnologico. A questo proposito, il legislatore italiano ha creato – a partire dal 2019 – uno strumento inedito nel “panorama” normativo italiano: il cosiddetto contratto di espansione (art. 1 co. 349 legge di bilancio 2021 e art. 41 D. Lgs. n. 148/2015). Il contratto di espansione, nato come misura sperimentale per gli anni 2019 e 2020 allo scopo di favorire il ricambio generazionale nelle grandi imprese (più di mille dipendenti) interessate da processi di riorganizzazione/reindustrializzazione, è stato esteso al 2021. Si tratta di un accordo collettivo aziendale (da stipulare in sede ministeriale), che presuppone l’accompagnamento verso la pensione di una quota di lavoratori più anziani e l’assunzione di una quota di nuove risorse professionali, nel più ampio contesto di un processo di ammodernamento produttivo o di sviluppo tecnologico delle imprese.
La legge di bilancio 2021 allarga il perimetro delle imprese che possono utilizzare il contratto di espansione, comprendendo quelle a) con organico non inferiore a cinquecento unità (queste imprese possono avvalersi anche dell’intervento straordinario di integrazione salariale per riduzione di orario di lavoro), nonché quelle b) con organico non inferiore a duecentocinquanta unità.
In forza dell’art. 41 D.Lgs. 148/2015, ai lavoratori “anziani” che – nell’ambito del contratto di espansione – risolvono il rapporto di lavoro il datore riconosce per tutto il periodo e fino al raggiungimento del primo anno di pensione un’indennità mensile (comprensiva di eventuale indennità Naspi), commisurata al trattamento pensionistico lordo maturato dal lavoratore alla data di cessazione. In caso di pensione anticipata, il datore versa anche i contributi previdenziali utili al conseguimento del diritto, con esclusione del periodo di copertura figurativa Naspi.
D’altro canto, una componente fondamentale del mercato del lavoro è costituita da lavoratori che, se formati, hanno piena possibilità di confrontarsi competitivamente con gli sviluppi tecnologici. Proprio a queste persone si rivolge il recente PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), finalizzato ad esporre le strategie di impiego – da parte dell’Italia – dei fondi europei del Next Generation EU. Esso comprende la formazione continua quale strumento idoneo ad evitare il rischio sostitutivo dei lavoratori con conoscenze obsolete.
Nel documento, viene chiarito come la componente delle politiche per il lavoro miri a raggiungere i seguenti obiettivi strategici: a) aumentare il tasso di occupazione, facilitando le transizioni lavorative e dotando le persone di formazione adeguata; b) ridurre il mismatch di competenze; e c) aumentare quantità e qualità dei programmi di formazione continua degli occupati e dei disoccupati.
A tal fine si rivedono le politiche attive del lavoro a partire dall’assegno di ricollocazione per arrivare all’istituzione di un programma nazionale chiamato Garanzia di occupabilità dei lavoratori (GOL). All’interno di tale programma, si rafforzano i centri per l’impiego e si integrano con il sistema di istruzione e formazione, anche attraverso la rete degli operatori privati. Nello specifico, l’obiettivo è quello di ridefinire gli strumenti di presa in carico dei disoccupati e delle persone in transizione occupazionale con politiche attive che, a partire dalla profilazione della persona, permettano la costruzione di percorsi personalizzati di riqualificazione delle competenze e di accompagnamento al lavoro. Contestualmente, si procede a fissare standard di formazione per i disoccupati profilati presso i centri per l’impiego e a rafforzare il sistema della formazione professionale, promuovendo una rete territoriale dei servizi di istruzione, formazione, lavoro anche attraverso partenariati tra pubblico e privato (anche nelle forme di industry academy).
Allo stesso tempo, per i lavoratori occupati è previsto il Fondo nuove competenze con lo scopo di permettere alle aziende di rimodulare l’orario di lavoro degli impiegati al fine di favorire attività di formazione sulla base di specifici accordi collettivi con le organizzazioni sindacali.
5. CONCLUSIONI E PROSPETTIVE FUTURE
Alla luce dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori in ragione dei cambiamenti provocati dallo sviluppo tecnologico esplorati in questo lavoro, la sensazione è che per limitarne gli “effetti collaterali” serva un approccio multi-attoriale e interdisciplinare di tutela e regolazione, senza catastrofismi ma senza neppure eccessivo ottimismo. C’è ancora molto da fare per il legislatore sovranazionale (chiamato ad evitare una tecnocrazia autoreferenziale o un mero dominio della tecnica, attraverso scelte di valore rispettose dei diritti fondamentali), per quello nazionale (che deve adattare le sue categorie generali alle nuove tipologie e condizioni di lavoro) e per il sindacato. Dal canto suo e come spesso accade, invece, la giurisprudenza si è già trovata a dover affrontare l’emergenza interpretativa e a svolgere una funzione di quasi supplenza normativa.
Di fronte a nuovi modi di produrre e di lavorare, è necessario non dimenticare che l’essenza del lavoro è fatta di uomini e di relazioni tra esseri umani, fattore palesatosi in tutta la sua importanza durante l’emergenza Covid. La fedeltà a tale essenza non presuppone certo la volontà di bloccare l’innovazione, nel senso di disconoscere i vantaggi dell’introduzione – nella produzione così come nella gestione ed organizzazione del personale – di sistemi d’intelligenza artificiale o robot, quanto piuttosto deve essere mantenuta quale bussola per guidare l’impatto di tali tecnologie sul mondo del lavoro e delle aziende. In un orizzonte che muta a velocità spesso poco preventivabili e nel bel mezzo di quello che – per tanti versi – può essere identificato come un cambio d’epoca, il diritto del lavoro è così chiamato a proporre soluzioni che – senza negare le potenzialità di dispositivi tecnologici sempre più sofisticati – salvaguardino al contempo la qualità dei rapporti di lavoro.