1.Premessa. Il mercato del lavoro italiano è caratterizzato, da tempo, dal grave problema dei bassi salari che, vista la sua crescente diffusione, dà luogo oggi ad una vera e propria questione salariale. Il lavoro non è più, per molti, garanzia di liberazione dal bisogno e di difesa dalla povertà. E’ questo il noto fenomeno dei cosiddetti lavoratori poveri: e cioè, soggetti che, pur lavorando, restano in condizioni di povertà.
Va sottolineato che il concetto di in-work poverty (utilizzato a livello dell’Unione europea) o di «povertà lavorativa», misura la povertà tenendo conto anche del reddito della famiglia di appartenenza. In Italia esiste un indice molto alto di tale indicatore. E questo dipende dalla connessione negativa tra la massiccia presenza di bassi salari e il numero limitato di percettori di reddito nelle famiglie. E’ cosi evidente che il contrasto alla «povertà lavorativa», propriamente detta, implica una strategia complessa, che va oltre le sole politiche del lavoro, di cui uno dei molteplici perni è costituito dall’aumento dell’occupazione, stabile e adeguatamente retribuita.
E’ da aggiungere che la «povertà lavorativa» è più alta tra i lavoratori autonomi che tra i dipendenti. Il che richiede un adattamento dell’anzidetta strategia in funzione della natura del rapporto. Inoltre, è noto che, sovente, lo schema dell’autonomia venga usato in modo abusivo per mascherare rapporti di lavoro subordinato. Ciò impone un rafforzamento delle azioni di contrasto delle propensioni alla fuga dal lavoro subordinato.
Tra le cause della «povertà lavorativa» e, in termini più ampi, della massiccia percentuale di low-wage workers nell’area del lavoro dipendente, sono da annoverare, oltre alla bassezza e alla stagnazione dei salari, la riduzione delle occupazioni stabili, la moltiplicazione dei lavori atipici e precari, la frammentazione e l’intermittenza delle occasioni lavorative, la scarsità delle ore lavorate a livello individuale dovuta a varie forme di part-time involontario, la concentrazione della domanda di lavoro nei settori a bassa qualificazione e peggio pagati; e, ovviamente, la permanenza di ampie sacche di lavoro sommerso ed irregolare. Sicché, proprio nell’ottica della suddetta strategia integrata, la riduzione della «povertà lavorativa» richiede politiche del lavoro calibrate che favoriscano la crescita dell’occupazione stabile e ad orario pieno nei settori più qualificati e con salari adeguati, e che prestino attenzione alla salvaguardia della qualità, della regolarità e della sicurezza del lavoro. Peraltro, si deve garantire che la scelta di forme occupazionali precarie sia frutto di decisioni volontarie del lavoratore e non imposte dallo stato di necessità.
2.La legge «sindacale» e l’attuazione dell’art. 39 Cost. Oltre a porre in essere tutte le azioni menzionate, è altresì necessario assicurare salari dignitosi. Questo dovrebbe essere compito specifico della contrattazione collettiva. Purtroppo, ormai da anni, la contrattazione collettiva italiana, in molti settori non riesce a più a svolgere questa funzione, come non riesce più a realizzare il suo obiettivo tradizionale che è quello di «togliere i salari dalla concorrenza». Anzi, il contratto collettivo è diventato esso stesso uno strumento concorrenziale tra gli imprenditori, e cioè di dumping contrattuale e salariale, perché costoro possono scegliere di applicare uno dei tanti accordi disponibili a causa del noto fenomeno della proliferazione dei prodotti dell’autonomia collettiva. E’ evidente come la presenza di più contratti collettivi, nello stesso settore economico, alteri la concorrenza tra gli operatori, esposti a costi del lavoro differenti, e induce un’irreversibile corsa verso il peggioramento delle condizioni dei lavoratori.
L’esistenza nello stesso ambito di applicazione di più contratti collettivi, che ovviamente prevedono trattamenti economici e normativi diversificati, non è più un evento sporadico ed occasionale, ma una endemica perversione del sistema che va opportunamente contrastata. Di fatto accade che accanto ai contratti collettivi del sistema confederale storico si affiancano altri contratti sottoscritti da sigle di dubbia o scarsa rappresentatività e che contengono trattamenti al ribasso rispetto ai primi: i cosiddetti contratti collettivi «alternativi» o, tout court, «pirata».
A seguito della prima apparizione di questi contratti «alternativi» al sistema confederale storico, nella metà degli anni novanta del secolo scorso, il legislatore ha cominciato ad avvalersi del criterio selettivo della maggiore rappresentatività comparata per individuare il cosiddetto contratto collettivo leader, punto di riferimento per il calcolo dei contributi previdenziali, per l’attribuzione di benefici economici e normativi e per tutti i rinvii legali al potere normativo dell’autonomia collettiva. Un passaggio significativo della legislazione è stato quello di utilizzare i trattamenti economici complessivi del contratto collettivo leader per la determinazione della retribuzione proporzionata e sufficiente di cui all’art. 36 Cost., in primis per il settore della cooperazione.
Di fronte al persistere e alla costante diffusione della contrattazione «alternativa» e al ribasso s’è intensificata la discussione sull’opportunità di un intervento legislativo di regolazione della contrattazione collettiva che faccia leva sulla reale rappresentatività degli attori negoziali. E ciò, in sostanza, attraverso la recezione in legge delle direttive contenute nel testo unico sulla rappresentanza del 2014, e con l’integrazione della previsione di criteri di misurazione della rappresentatività delle organizzazioni datoriali. Difatti quest’ultimo aspetto non era considerato nel precedente accordo ed è stato solo sfiorato dal successivo Patto della fabbrica del 2018.
Così, grazie alla legge «sindacale», e cioè sulla rappresentatività ai fini della contrattazione collettiva, i contratti collettivi siglati dai soggetti più rappresentativi, sulla base dei meccanismi di misurazione ivi contenuti, dovrebbero acquisire efficacia generale nei settori di riferimento. Un intervento del genere è sicuramente auspicabile e costituirebbe la first best per la soluzione degli attuali problemi del sistema di relazioni industriali italiane. D’altra parte, si tratterebbe di dare attuazione a quella parte dell’art. 39 Cost. che delinea la struttura di una contrattazione collettiva ad efficacia erga omnes. E, peraltro, è concepibile che qui il legislatore avrebbe ampi margini di discrezionalità per realizzare i dicta dell’art. 39 Cost., in considerazione della possibilità di offrirne una lettura evolutiva, dell’urgenza della questione e della giurisprudenza della Corte costituzionale a tale riguardo. Quest’ultima, infatti, è costante nel guardare con benevolenza le scelte legislative di valorizzazione concreta della rappresentatività dei soggetti negoziali. In effetti, non si può trascurare che l’intervento legislativo sarebbe giustificato dalla situazione attuale, in cui si riscontra un sostanziale abuso del principio di libertà sindacale, una sorta di eterogenesi dei fini del medesimo, che produce il frutto avvelenato di una contrattazione collettiva a danno dei lavoratori.
Se un siffatto progetto fosse realizzato ci sarebbe, per ogni ambito di attività economica, un costo del lavoro unico (che non è dato dalle sole retribuzioni, ma anche da tutti gli aspetti del trattamento normativo come le ferie, i permessi, le pause, ecc.) e la concorrenza dovrebbe necessariamente spostarsi sui fattori produttivi diversi dal lavoro.
Purtroppo, tale proposta incontra, al momento, fortissimi ostacoli d’ordine politico nelle diverse e contrastanti opinioni tra gli stessi sindacati confederali storici e tra i più importanti schieramenti partitici.
3.La via italiana al salario minimo legale. Una scelta meno dirompente e, a prima vista più praticabile, è quella di un intervento limitato all’attuazione dell’art. 36 Cost. e che contenga un rinvio mobile ai trattamenti economici complessivi determinati dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Si tratterebbe, in pratica, di generalizzare il meccanismo già in atto per il settore della cooperazione; e già esteso, in modo simile, ad altri rami economici: come il terzo settore e il trasporto aereo. E, in effetti, alcuni disegni di legge depositati in Parlamento si muovono in questa direzione. Tra questi, quello più significativo, e condivisibile, appare il disegno di legge presentato dall’ex ministra del lavoro Catalfo. Tuttavia, il dibattito parlamentare è, al momento, bloccato per vari motivi, di cui quelli più rilevanti verranno accennati tra breve.
Beninteso, la via italiana al salario minimo legale sarebbe imperniata sul criterio della maggiore rappresentatività comparata che appunto consentirebbe di individuare, per ogni settore economico, gli agenti negoziali il cui prodotto contrattuale costituirebbe il contratto leader per la determinazione del trattamento economico proporzionato e sufficiente alla stregua dell’art. 36 Cost.
Rispetto a questa proposta vengono avanzate obiezioni circa la difficoltà di darle concreta attuazione. Il rilievo principale è quello relativo a come individuare il perimetro o l’ambito di misurazione della maggiore rappresentatività comparata. La scelta migliore sembra essere quella di stabilire che la rappresentatività vada calcolata a livello nazionale. Ciò significa che gli attori comparativamente più rappresentativi dovrebbero essere quelli che risultino tali a seguito di una valutazione complessiva in ambito nazionale, prescindendo dai vari settori economici e dalle categorie contrattuali. Il secondo passaggio è quello di determinare gli indici su cui basare tale misurazione. A questo proposito, possono essere utilizzati gli stessi criteri «fattuali» già impiegati dall’autorità amministrativa e dalla giurisprudenza in sede di accertamento della maggiore rappresentatività comparata, ogniqualvolta si è trattato di applicare una legge che faccia rinvio ad essa. Un forte ausilio in questa direzione potrebbe essere fornito dalla presenza di una Commissione indipendente che, in dialogo con le parti sociali, certifichi i contratti collettivi leader dei vari settori.
Va sempre sottolineato che, se si discute di una legge attuativa del principio costituzionale della retribuzione proporzionata e sufficiente, il legislatore ha ampia possibilità di scelta quanto alla soluzione concreta da adottare e alla dose di vincoli da immettere nel sistema. D’altra parte, la stessa Corte costituzionale ha pienamente legittimato il meccanismo di salario minimo legale vigente per l’area della cooperazione, rigettando le accuse di contrasto con l’art. 39 Cost.
Peraltro, la precisazione del concetto di sindacato comparativamente più rappresentativo, che al momento è rimessa alla giurisprudenza e all’autorità amministrativa (con qualche inevitabile incertezza) potrebbe trovare un più chiaro punto di riferimento nel meritorio lavoro del Cnel di classificazione dei contratti collettivi nazionali e di misurazione delle percentuali di loro effettiva applicazione. Il che sarebbe altresì facilitata dall’entrata a regime del cosiddetto codice alfanumerico unico dei contratti collettivi nazionali (introdotto dall’art. 16-quater del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito con la l. 11 settembre 2020, n. 120). Così, ogni contratto collettivo nazionale di lavoro avrebbe un codice unico, da utilizzare per tutte le comunicazioni pubbliche obbligatorie, che permetterebbe di censire tutti i contratti collettivi nazionali in relazione al reale numero di lavoratori a cui sono applicati. Di conseguenza, in questo modo si potrebbe avere la certezza di quali siano i contratti collettivi nazionali siglati da soggetti comparativamente più rappresentativi. E sulla base di tale risultato emergerebbe quale sia il contratto collettivo leader abilitato a gestire i rinvii legali alle determinazioni dell’autonomia collettiva e che costituisce il punto di riferimento delle molteplici normative legali (tra cui anche quella tanto attesa sul salario minimo) che prendono in considerazione il contratto collettivo sottoscritto da soggetti qualificati, come appunto i sindacati comparativamente più rappresentativi.
4.Il problema della soglia salariale minima oraria. La realtà effettuale ha messo in luce che, purtroppo, vi sono anche alcuni contratti collettivi, seppure firmati dai sindacati più rappresentativi, contenenti retribuzioni estremamente basse, specie per i livelli inferiori della scala di classificazione del personale. Peraltro, alcuni di questi contratti (come il Ccnl multiservizi e il Ccnl servizi fiduciari) hanno un campo di applicazione estremamente ampio. Ciò fa sì che essi, proprio per la loro convenienza economica, abbiano la propensione a cannibalizzare settori laddove insistono i pertinenti contratti di categoria dello stesso sistema confederale, ma più costosi. E, per esempio, la stessa giurisprudenza ha, più volte, censurato la conformità ai principi dell’art. 36 Cost. del Ccnl servizi fiduciari.
Da ciò emerge la constatazione di come anche i prodotti negoziali frutto delle organizzazioni comparativamente più rappresentative talvolta non siano in grado di rispondere ai dettami dell’art. 36 Cost.: perché probabilmente negoziati in particolari condizioni di debolezza oppure strategicamente costruiti nell’ottica di sindacalizzare aree di attività con un infimo valore aggiunto o prevalente terreno di caccia di sigle alternative.
Beninteso, l’art. 36 Cost. impone che ad ogni lavoratore spetti una retribuzione dignitosa, al di là di qualunque considerazione d’ordine politico-sindacale. Pertanto, sulla via del salario minimo legale all’italiana, è necessario che il rinvio alle tariffe dei contratti collettivi siglati dai soggetti comparativamente più rappresentativi, sia integrato stabilendo una soglia salariale minima oraria non derogabile al ribasso dalla stessa contrattazione collettiva. E il compito di fissare e adeguare al costo della vita tale soglia dovrebbe spettare ad una Commissione indipendente composta da esperti della materia retributiva.
Il problema politico principale dello stallo parlamentare della discussione sul salario minimo legale sta proprio qui. Le imprese temono una soglia troppo elevata che, a loro avviso, aumenterebbe il costo del lavoro. La componente sindacale confederale è consapevole che una soglia dignitosa metterebbe in crisi alcuni suoi prodotti contrattuali che contengono salari poveri. Lo stesso governo, nonostante le aperture del Premier, non ha ancora assunto una posizione chiara sul punto.
Tuttavia, sembra opportuno rilevare che, come dimostra l’esperienza comparata, meccanismi di salario minimo legale così congegnati, e cioè in modo da sostenere e promuovere la contrattazione collettiva, avrebbero effetti positivi sull’intero sistema economico. Si eliminerebbe la concorrenza sleale basata sullo sfruttamento del lavoro, i lavoratori avrebbero più denaro da spendere, crescerebbe la domanda di beni e servizi e aumenterebbero gli stessi profitti delle imprese. Insomma, si innesterebbe un circolo virtuoso a vantaggio di tutti.
E proprio sulla base di questa consapevolezza, di stampo tipicamente keynesiano, la Commissione dell’Unione europea ha presentato, nell’ottobre 2020, una proposta di direttiva sui «salari minimi adeguati», attualmente all’esame presso gli organi dell’Unione e di cui si auspica una veloce approvazione. Questa direttiva potrebbe avere effetti benefici sull’Italia, spingendo il legislatore ad intervenire per dare maggiore ordine al sistema di relazioni industriali nazionale e porre fine all’attuale Far West contrattuale.
Infine, non va trascurata l’esigenza di affrontare il problema della diffusa «povertà lavorativa» tra i lavoratori autonomi genuini ma sovente in condizioni di accertata dipendenza economica dai loro committenti. A questo riguardo, nell’attesa di uno sviluppo di una reale capacità di autotutela di queste categorie, si potrebbe pensare a meccanismi di soglie tariffarie minime legali, variamente articolate, e costruite aventi come parametro, in relazione al tipo di attività svolta, i contratti collettivi dei lavoratori dipendenti.