1. “Working poor N.E.E.D.S. …?”.
Il progetto di ricerca e i risultati intermedi che oggi sono stati presentati meritano un convinto apprezzamento .
Felice è la scelta del tema, il lavoro nella povertà, la cui centralità è attestata anche dagli svolgimenti delle iniziative politiche successive all’ideazione del progetto.
Coerente e conseguenziale è l’obiettivo, che emerge già dal titolo del progetto, di andare oltre l’analisi del diritto positivo e di proiettarsi verso l’impegnativo terreno della progettualità, mirando ad individuare sul piano delle policy cosa “è necessario per il lavoro povero”, così come espresso nel verbo (“needs”) che, convertito in acronimo (“N.E.E.D.S.”), introduce già una prima indicazione di campo sulle finalità (“New Equity, Decent Work, Skills”) da perseguire.
Ineludibile, infine, è, a ragione della prospettiva adottata, il ricorso al metodo dell’indagine multidisciplinare, che presta particolare attenzione alle analisi economiche ed alle fonti sovranazionali.
Dando per scontato che non è possibile entrare nel merito delle tante problematiche coinvolte da una ricerca così ampia e articolata, concentrerò le mie brevi riflessioni su alcuni degli “snodi” che sono stati evidenziati dalle relazioni di presentazione del progetto.
2. Sul “decent Work”.
Il primo snodo riguarda l’individuazione stessa della nozione di “decent Work”, che, come è stato osservato, è “estranea alle categorie giuridiche tradizionali” e non costituisce, di per sé, “una fattispecie produttiva di effetti a livello di diritto positivo (nazionale e non)” .
Muovendo da tale osservazione, è stato rilevato come il “decent Work” possa essere considerato una sorta di “stella polare” per i legislatori , ovvero di “un imperativo di policy” o di “una prospettiva di regolazione del lavoro” .
Così correttamente inquadrata, la prospettiva del “decent Work” corrisponde ad una istanza profonda, interiore e naturalistica della persona, che sollecita l’impegno di ciascuno e di tutti, coinvolgendo l’intera comunità internazionale.
Posto che questo costituisce un presupposto indiscutibile, giustamente rimarcato dalla dottrina (non solo, ovviamente, giuridica), penso sia utile richiamare l’attenzione anche sulla necessità di non confondere il piano ottativo con quello prescrittivo.
Soprattutto nel contesto della regolazione internazionale, la declamazione dei diritti si accompagna spesso ai noti problemi di effettività. E l’inattuazione dei diritti declamati genera aspettative deluse e una crescente sfiducia nella capacità degli ordinamenti di mantenere ciò che hanno promesso.
Ricordo che, facendo riferimento alle grandi “dichiarazioni” internazionali dei diritti, Norberto Bobbio ha parlato impietosamente di “un elenco di pii desideri” e di diritti rimasti “sulla carta” E non mi pare che l’enfasi di tale riflessione sia fuor di luogo, se nel 2021 ai Paesi più poveri è stata di fatto preclusa anche la possibilità di accedere ad un bene, come il vaccino anti-Covid, essenziale per la salute e la sopravvivenza.
Di qui, due considerazioni.
Da un lato, occorre, nella costruzione della nozione di decent work, si presti attenzione a distinguere le finalità d’uso, come mi sembra abbia ben fatto Marco Biasi. In particolare, occorre che la concezione etica e civica del decent work, che dovrà guidare l’azione di progresso in una inevitabile gradualità, non venga scambiata per norma di diritto positivo, così da allungare la lista dei “pii desideri” destinati a rimanere “delusi” e l’elenco delle inadempienze ai diritti internazionali.
Dall’altro lato, credo che la prospettiva del decent work dovrebbe essere prioritariamente impiegata e valorizzata proprio nel contesto internazionale in vista del superamento dei gravi squilibri delle condizioni di vita che affliggono le diverse aree della terra.
Mentre alcuni popoli sono privi di tutto (alimenti, acqua, cure sanitarie, possibilità di studiare, ecc,), in altri angoli della terra si registrano i guasti generati dal consumismo (tra opulenza, “sprechi” e distruzione delle risorse ambientali), e si parla di diritti per segnalarne la tendenza a divenire “tiranni” e “insaziabili” o, ancora, per criticarne l’“abuso” .
In questa situazione, peraltro, la spinta ad “esportare” nei Paesi più poveri i diritti sanciti dalle istituzioni internazionali è “vissuta” da quei Paesi come ostacolo all’unica risorsa competitiva di cui spesso dispongono, ossia la forza lavoro.
Del resto, per quanto egoisticamente possa non fare piacere, bisogna mettere anche in conto che lo sviluppo delle condizioni di vita nelle vaste aree “depresse” possa passare (o, forse, necessariamente dovrebbe passare) attraverso un processo di redistribuzione della ricchezza a livello globale, destinato ad incidere sui livelli di benessere acquisiti nei Paesi che oggi sono vincenti nella competizione “senza confini”.
3. Le analisi economiche.
Dal punto di vista dell’analisi economica è stato opportunamente osservato che, “se per la singola impresa il lavoro costituisce un costo”, “i salari costituiscono anche il reddito dei consumatori speso per acquistare beni e servizi dalle imprese”. Il lavoro a basso costo, quindi, “costituisce uno svantaggio economico per l’insieme delle aziende, perché riduce la domanda aggregata”, così da innescare una “spirale negativa” nella quale “la ridotta capacità di consumo” genera “un basso livello di crescita economica”. Inoltre, “le imprese caratterizzate da lavoro povero” sono concentrate in settori che richiedono professionalità più basse e minore livello di innovazione, cosicché “se il paese si specializza nei settori in declino” si entra in “concorrenza con i paesi del terzo mondo e la crescita futura sarà compromessa” .
Si tratta di considerazioni che, a mio avviso, sono del tutto condivisibili, e, di conseguenza, sarà molto interessante esaminare i risultati cui approderanno le analisi degli economisti che partecipano al progetto di ricerca.
Mi permetto, peraltro, di suggerire che, ai fini di una più piena comprensione dell’analisi economica (e, quindi, anche ai fini della elaborazione di ipotesi di interventi normativi), si dovrebbe anche considerare un ulteriore profilo del contesto economico.
Mi riferisco al dato di fondo (di una certa autevidenza empirica) rappresentato dal fatto che la specializzazione nei settori a più elevato valore aggiunto (caratterizzati, cioè, da maggiore innovatività e da professionalità più alte) non dipende esclusivamente (e forse dipende solo in minima parte) dalle scelte politiche volte ad incrementare il livello dei salari. Ciò perché la possibilità di competere in quei settori dipende anche (e direi soprattutto) da altri fattori strutturali, i quali costituiscono “precondizioni” fondamentali sul piano della concorrenza.
In questo ambito, entrano in gioco elementi preponderanti (tanto più se esaminati nel loro complesso) quali sono, ad esempio, la “forza” delle imprese di cui il Paese dispone (poiché dalla loro struttura e dalla loro capitalizzazione discende la possibilità di espandersi sui mercati e, ancor prima, di investire in innovazioni di processo o di prodotto) e la capacità del Paese di attrarre investimenti in attività produttive (poiché il capitale è naturalmente attratto a localizzarsi nei paesi che offrono migliori opportunità di impiego). Assumono, così, rilievo determinante non solo la legislazione (anche extralavoristica) relativa alla libertà d’impresa e al diritto tributario, ma anche la qualità e il livello delle infrastrutture (materiali, logistiche e immateriali), l’efficienza della pubblica amministrazione (che è la prima delle infrastrutture al servizio della collettività) e il grado di formazione assicurato dal sistema dell’istruzione di base e universitaria.
Ora, il punto è che i fattori di competitività, esemplificativamente accennati, vedono l’Italia in una posizione certamente non favorevole (secondo alcuni, anzi, già in una fase di declino difficilmente arrestabile). Per realizzare, quindi, un’inversione di tendenza, e favorire il “rilancio” della competitività delle imprese nel settore delle produzioni a più elevato valore aggiunto (e di più elevato contenuto professionale), non può essere considerato sufficiente un semplice intervento eteronomo a carattere generale sul livello dei salari, essendo indispensabile “aggredire” gli elementi di debolezza strutturale che affliggono il nostro Paese.
Ma, per aggredire quegli elementi, a loro volta sono necessari congrui investimenti di spesa pubblica, i quali, come ben noto, sono fortemente limitati dal livello del “debito” pubblico italiano. Un’opportunità da cogliere è, quindi, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, poiché è dal “rilancio” del sistema Paese che dipende la crescita dei salari e il miglior posizionamento nella suddivisione globale del mercato delle produzioni. Molto più che dalla fissazione per legge di salari più alti.
4. Working poor e salari minimi.
La relazione di Carlo Zoli ha puntualmente evidenziato i problemi definitori legati alla individuazione europea del “lavoro povero” . E da più parti è stato anche ricordato come le azioni di contrasto ipotizzabili siano diverse, coinvolgendo non solo la disciplina delle obbligazioni contrattuali del datore di lavoro ma anche quelle azioni di policy la cui responsabilità ricade nella sfera pubblica, come, ad esempio, le azioni riguardanti gli ammortizzatori sociali, gli in work benefits, i servizi pubblici dell’istruzione e della formazione professionale .
In questa prospettiva, devono essere presi in considerazione anche i recenti interventi del legislatore in materia tributaria (con la revisione degli scaglioni di reddito e del sistema delle detrazioni fiscali: cfr. legge 30 dicembre 2021, n. 234), in materia di “assegno unico e universale per i figli” (d.lgs. 29 dicembre 2021, n. 230) e già, in qualche misura, l’estensione del reddito di cittadinanza anche a favore dei lavoratori a basso reddito (d.l. 28 gennaio 2019 n. 4).
Da ciò emerge la progressiva presa d’atto che la “causa” del lavoro povero, tanto più quando questa derivi da rapporti discontinui o a orario ridotto, non può essere circoscritta nella dimensione delle relazioni contrattuali tra le parti, ma ha una sua dimensione sociale e pubblica, che richiama la responsabilità dell’intera collettività.
Del resto, quello dei bassi salari è un fenomeno eterogeneo e la sua soluzione non può prescindere da una precisa analisi delle sue caratteristiche quali - quantitative . E le analisi disponibili, pur basate su dati che necessitano ancora di “affinamento” , sono già sufficienti per rilevare che la percentuale più significativa dell’in work poverty è concentrata nell’ambito di segmenti del mercato del lavoro molto specifici, quali sono quello dei lavoratori “self employed”, quello del lavoro “nero”, e quello dei rapporti caratterizzati da una bassa “work intensity”, ossia dal ridotto periodo (o numero di ore) di lavoro prestato.
A ben vedere, si tratta di problemi che, proprio per la loro specificità, reclamano interventi altrettanto specifici. Sembrerebbe, ad esempio, che, per contrastare il processo di graduale impoverimento del lavoro autonomo, sia necessario proseguire l’opera di costruzione di uno statuto protettivo ad hoc; per il lavoro “nero” (come per il falso lavoro autonomo) la soluzione non può che essere quella di rendere più efficienti le attività pubbliche di vigilanza e repressione); per i lavoratori discontinui e a orario ridotto dovrebbero svolgere un ruolo di protagonista le politiche volte all’incremento della domanda di lavoro ed alla conciliazione dei tempi di vita con quelli di lavoro. Andrebbe, inoltre, considerato che l’incremento del livello dei salari minimi, sganciato dalle condizione del settore in cui il lavoratore opera, “may lead to a bigger risk of no compliance, incluso l’“underclared work” .
Mentre, per ciò che riguarda l’ulteriore problema della proliferazione dei contratti collettivi e della contrattazione “al ribasso” (o “pirata”), anch’esso evidenziato e trattato dalla relazione di Carlo Zoli, mi permetto di rinviare alle analisi e alle considerazioni che ho già svolto in altra sede .
Sembra, allora, che un intervento a tratto generale, diretto a fissare per legge i salari minimi su base intercategoriale, da un lato, non centrerebbe il “bersaglio” e, dall’altro, potrebbe risultare eccedente rispetto alle effettive esigenze di contrasto al fenomeno.
A ciò vanno aggiunti i dubbi, da più parte espressi, in ordine al possibile effetto di “spiazzamento” del ruolo dei sindacati, che l’intervento della legge potrebbe provocare.
E’ da considerare, in particolare, che la determinazione per legge del salario minimo su base intercategoriale non determinerebbe soltanto la sottrazione alle parti sociali del compito, storicamente loro riservato, di fissare la retribuzione “sufficiente” (sia pure sottoposta al controllo giudiziale), ma influenzerebbe anche le dinamiche negoziali relative alla fissazione della retribuzione “proporzionala alla quantità e alla qualità del lavoro prestato”. E’ evidente, infatti, che l’elevazione per via legale dei minimi retributivi spettanti alle qualifiche inferiori dovrebbe necessariamente condurre ad un “riproporzionamento al rialzo” anche dei minimi delle qualifiche immediatamente superiori (e così via anche per i minimi di quelle che seguono nelle diverse “scale” categoriali di inquadramento professionale).
Al fondo di tutto resta il dubbio se l’economia globalizzata di oggi consenta di ritenere la retribuzione una variabile indipendente dalle condizioni di mercato, ossia una variabile che la norma di legge possa fissare in modo rigido ed efficace, a prescindere dagli effetti che ne possano derivare sull’occupazione complessiva.
Il “groviglio” delle questioni cui si è fatto cenno spiega anche l’approccio della proposta della Commissione europea in materia di salari minimi e il suo non agevole cammino. Spiega l’intenzione di non imporre la fissazione per legge del salario minimo nei Paesi che sinora non l’hanno adottato. Spiega la preferenza accordata, in linea di principio, alla promozione della contrattazione collettiva. Spiega perché dovrebbe essere attentamente considerata l’opportunità di interventi mirati e selettivi, che, da un lato, perseguano l’obiettivo di realizzare concreti progressi di tutela nelle specifiche aree (intese come categorie di lavoratori e territori) ove effettivamente si concentra il lavoro povero, e, dall’altro lato, lascino da parte l’illusione di risolvere con una proposizione normativa scritta “sulla carta” i problemi di diversa natura che affondano le radici in debolezze strutturali della nostra economia .